Porsi contro il denaro oggi vuol dire porsi contro il sistema in cui il denaro, nella sua forma di principale mezzo di scambio, di investimento e di accumulazione, è il fulcro di ogni forma di esistenza, nessuna esclusa. Un tempo il denaro era cosa che riguardava solo la città, non la campagna né la montagna: oggi investe il mondo intero.
Contro il sistema basato sul denaro, sia esso nella forma del capitale o nella forma di semplice mezzo di scambio, esiste un’unica soluzione: l’autoconsumo, cioè consumare direttamente ciò che si produce, senza passare attraverso l’intermediazione del mercato.
Sul mercato infatti il produttore prevale sul consumatore; nell’autoconsumo invece si equivalgono o addirittura coincidono, e là dove si diversificano è solo per cose non essenziali alla propria riproduzione, e quand’anche fossero cose essenziali, il bisogno di averle, tra produttore e consumatore, sarebbe reciproco. Questo perché in luogo del denaro domina il baratto, sulla base del quale entrambi i contraenti conoscono bene il valore delle merci che si scambiano. Sanno bene che il valore di un bene è stabilito dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrlo, senza interferenze di prezzi stabiliti dal mercato.
Nell’autoconsumo l’interdipendenza è solo fra produttore e consumatore, mentre quella che ci propone l’attuale sistema è una dipendenza unilaterale del consumatore nei confronti del mercato (e anche quella del produttore minore nei confronti di quello maggiore). Una delle componenti fondamentali del mercato è la borsa valori e cambi, che ancor meno del mercato può essere tenuta sotto controllo. Non solo la finanza marcia per conto proprio rispetto all’economia, ma ha anche il potere di distruggerla.
La comunità locale deve tornare a controllare l’uso dei mezzi produttivi locali, che le permettono di esistere e di riprodursi. Per poter controllare questo uso occorre che essa ne sia proprietaria esclusiva. I mezzi di produzione devono appartenere alla comunità locale.
Tutti i componenti della comunità locale devono chiedersi di cosa hanno bisogno per sopravvivere, senza dipendere dal mercato. La produzione va finalizzata alle esigenze locali. E devono anche chiedersi, nel caso in cui avessero bisogno di qualcosa che non riescono a produrre, se sia davvero essenziale averla, o quale sia il modo migliore per ottenerla, senza arrecare danno alla natura, o quale sia il prezzo che l’autonomia può essere disposta a pagare per ottenerla, senza arrecare danno a se stessa.
Per mettere in piedi una comunità del genere vi sono solo due strade di carattere generale: o si attende che il sistema crolli rovinosamente, e allora saranno gli eventi che in qualche maniera costringeranno a compiere la scelta dell’autoconsumo (e questa è una strada molto dolorosa, già sperimentata, p.es., col crollo dell’impero romano); oppure si comincia subito a riflettere su come creare un’alternativa concreta, uscendo progressivamente dal mercato. Questa è una strada pedagogica, sicuramente molto meno dolorosa, in quanto ci si educa lentamente ma con decisione consapevole, senza particolari traumi (se non quelli artificiosi e pretestuosi della coscienza), nella convinzione che i tempi di realizzo degli obiettivi, a causa di abitudini collettive profondamente sbagliate, saranno sicuramente molto lunghi.
Bisogna partire da una riflessione culturale sui valori della vita, cercando però, nel contempo, di realizzare quelle piccole cose che modificano in maniera tangibile il nostro stile di vita. Noi non dobbiamo comportarci bene per far star meglio il sistema: dobbiamo uscirne, per il bene anche di chi non è consapevole della sua disumanità o della sua incapacità strutturale a risolvere i conflitti di classe, gli antagonismi sociali.
E’ un lavoro continuativo, verso obiettivi sempre più importanti, in rapporto anche al numero di persone che si riescono a coinvolgere.
Per partire bisogna chiedersi anzitutto da dove provengono i nostri alimenti, come vengono prodotti e quante possibilità abbiamo d’intervenire sulla loro produzione e distribuzione. Il consumatore deve cercare il più possibile di stabilire un rapporto organico, non occasionale, coi produttori locali e organizzare, con questi, la produzione e lo smercio dei beni per la comunità locale. Il produttore deve sapere in anticipo ciò di cui la comunità locale ha bisogno. Produrre esclusivamente per realizzare profitti è immorale e chi lo fa va estromesso dalla comunità locale.
Bisogna inoltre verificare se tutto quello che in questo momento stiamo usando è di fondamentale importanza per la nostra esistenza e se non è assolutamente sostituibile da nient’altro. Bisogna informarsi sulle possibili alternative praticabili. E’ noto infatti che a parità di qualità costa di più un prodotto reclamizzato o di marca. E se anche la qualità non è identica, bisogna abituarsi a considerare i vantaggi sociali, che non sono immediatamente quantificabili. Siamo p.es. abituati a mangiare frutta senza imperfezioni esterne, pur sapendo che una frutta del genere è stata trattata con sostanze cancerogene.
Pensiamo soltanto all’uso dei dispenser che sostituiscono i contenitori di plastica o di vetro che ogni volta acquistiamo quando il loro contenuto è finito: dall’acqua al vino, dal latte all’olio e all’aceto, dai saponi ai detersivi. Non è solo una questione di risparmio: è anche un modo per dire basta ai produttori di contenitori usa e getta, all’inquinamento dell’ambiente. E’ un modo per far capire al sistema che il consumatore vuole interagire col produttore, obbligandolo a fare scelte eco e socialmente compatibili.
La raccolta differenziata dei rifiuti non ha senso se, a monte, non si modificano delle abitudini sbagliate, dettate da logiche di mercato.
Ma pensiamo anche all’uso dei medicinali, in cui la chimica ha completamente sostituito la fitoterapia, una scienza durata non migliaia ma milioni di anni.
E che dire di quella incredibile tragedia che abbiamo arrecato alla natura sostituendo gli orologi a carica manuale con quelli a pila?