Hosea Jaffe e il colonialismo
I
Giustamente Hosea Jaffe sostiene, in Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo (ed. Jaca Book, Milano 2007), che l’idea engelsiana di favorire il colonialismo europeo per accelerare il processo di industrializzazione nelle periferie coloniali, al fine di porre le basi per una transizione al socialismo, era un’idea non “socialista” ma “imperialista”, frutto di un’interpretazione meccanicistica o deterministica del materialismo storico-dialettico.
E ha altresì ragione quando afferma che la contraddizione principale, nell’ambito del capitalismo, è diventata, a partire dalla nascita del colonialismo, non tanto quella tra capitalista e operaio delle aziende metropolitane, quanto quella tra Nord e Sud, dove con la parola “Nord” non si deve intendere solo l’imprenditore ma anche lo stesso operaio che nell’impresa capitalista si trova a sfruttare, seppure in maniera indiretta, le risorse del Terzo Mondo.
Detto questo però Jaffe non è in grado di porre le basi culturali per comprendere la nascita del capitalismo (che non può essere considerato una mera conseguenza del colonialismo, in quanto quest’ultimo s’impose già nel Medioevo con le crociate ed esisteva già al tempo della Roma e della Grecia classica e non per questo è possibile parlare di capitalismo, che storicamente nasce solo nel XVI sec.). Jaffe non è neppure in grado di porre le basi politiche di un accordo tra il proletariato del Nord e quello del Sud.
Alla fine del suo percorso egli si ritrova su posizioni speculari a quelle engelsiane: laddove infatti si considerano interi continenti (Asia, Africa, America latina) incapaci di avviare l’industrializzazione borghese in maniera autonoma e quindi di favorire una transizione al socialismo, qui invece si considera l’occidente, en bloc, del tutto inadatto a comprendere i meccanismi mondiali dello sfruttamento economico; il che fa diventare assolutamente inutile il tentativo, da parte del proletariato coloniale, di cercare, nelle aree metropolitane dell’occidente, quei soggetti che possono condividere i suoi processi di democratizzazione sociale.
Hosea Jaffe assume una posizione deterministica rovesciata, al punto che gli diventa impossibile esprimere dei giudizi obiettivi sui limiti delle esperienze socialiste dei paesi coloniali (come quelle avvenute a Cuba, in Cina, nella Corea del Nord ecc.).
Pur di poter manifestare una posizione contraria all’occidente in sé, considerato quasi come una categoria metafisica, Jaffe è disposto a transigere su molti difetti dei regimi socialisti. Anche perché continuamente ribadisce la tesi trotskista secondo cui una transizione al socialismo è più facile in un paese economicamente arretrato che non nell’occidente avanzato.
Alla fine non gli resta che auspicare una terza guerra mondiale in cui lo scontro non avvenga più tra potenze imperialistiche ma tra Nord e Sud. Col che lascia del tutto irrisolto il nodo relativo al modello di sviluppo. A lui interessa soltanto che il Sud si liberi del Nord, non che si liberi anche della sua assurda industrializzazione.
II
In realtà non è di nessuna importanza che un paese sia industrialmente “avanzato” o “arretrato” ai fini della transizione al socialismo. Quello che più importa è la capacità di saper organizzare una rivoluzione che porti effettivamente a vivere una transizione verso il socialismo democratico.
In astratto infatti si può dire che un paese arretrato, sul piano industriale, è più vicino alle idee del socialismo in quanto è più vicino al pre-capitalismo, cioè alla cultura pre-borghese. Ma si può anche dire il contrario, e cioè che quanto più un paese è industrialmente avanzato, tanto più avverte il problema di uscire dalle contraddizioni del sistema, che rendono la vita invivibile, specie per le conseguenze ambientali che ha.
Nei paesi avanzati non sono avvenute rivoluzioni socialiste non perché è più facile che queste avvengano nei paesi arretrati – come diceva Trotski -, ma perché i paesi avanzati industrialmente sono anche quelli che praticano il colonialismo, oggi a livello internazionale, seppur, rispetto a ieri, in forme più economico-finanziarie che politico-militari.
Nel mondo non esistono paesi avanzati o arretrati autonomi, in grado di sperimentare percorsi indipendenti gli uni dagli altri. Nel mondo esistono paesi avanzati sul piano tecnologico che dominano politicamente o anche solo economicamente altri paesi arretrati sul piano industriale.
Tale dipendenza impedisce di servirsi liberamente delle tradizioni pre-borghesi per realizzare una transizione al socialismo. Questo peraltro il motivo per cui Lenin non credeva che il populismo russo, con la sua idea di “comune agricola”, sarebbe riuscito a impedire la diffusione del capitalismo in Russia.
Se i paesi avanzati non avessero colonie da sfruttare, le loro contraddizioni interne, a causa dei rapporti fortemente antagonistici, diverrebbero esplosive in poco tempo. Invece, grazie allo sfruttamento coloniale, il peso di queste contraddizioni può essere scaricato sui paesi arretrati.
L’Europa occidentale ha iniziato a comportarsi così già con la civiltà cretese, ereditata poi da quella ellenica; ha continuato a farlo, in grande stile, coi Romani; ha proseguito nel Medioevo col fenomeno delle crociate; e in epoca moderna ha inaugurato con la scoperta dell’America il colonialismo su scala mondiale.
Sono almeno tremila anni che l’Europa ha una pretesa di dominio verso le realtà più deboli. Ogniqualvolta i conflitti sociali diventano troppo acuti per poterli risolvere pacificamente, in politica interna si usano i sistemi autoritari, i metodi repressivi, e in politica estera si adottano programmi di conquista coloniale, di sfruttamento delle risorse altrui, umane o naturali che siano.
Ai problemi di natura sociale ed economica si risponde con soluzioni poliziesche (all’interno) e militari (all’esterno). Dopo aver represso il dissenso interno, si cerca di contenere il malcontento generale, facendo pagare a popolazioni estranee il prezzo delle proprie contraddizioni.
Ecco perché il dissenso interno riesce a trovare, temporaneamente o in territori circoscritti, uno sfogo alle proprie frustrazioni. I dissidenti si trovano a vivere nelle colonie quegli stessi rapporti antagonistici che subivano in patria, con la differenza che ora, nelle colonie, sono loro che li fanno subire alle popolazioni e ai loro territori conquistati.
Anche ammettendo che nella loro terra d’origine i dissidenti volevano realizzare una qualche transizione al socialismo, bisogna dire che questa esigenza non s’è mai realizzata nelle colonie ch’essi hanno conquistato o semplicemente abitato. E non solo perché la loro stessa madrepatria non gliel’avrebbe mai permesso.
I coloni hanno sì potuto riscattarsi dal peso delle contraddizioni subìte in patria, ma solo perché sono diventati i nuovi padroni in casa altrui. Non hanno mai cercato un rapporto di collaborazione con le popolazioni incontrate, onde potersi opporre al dominio della madrepatria. E se l’hanno fatto, è stato in maniera strumentale, per necessità di circostanza, per aumentare il loro potere di colonizzatori. Il dissenso frustrato nella madrepatria s’è trasformato nelle colonie in dominio nei confronti dei territori conquistati e delle popolazioni sottomesse.
Questa cosa è potuta andare avanti finché ci sono state terre da conquistare e popolazioni da sfruttare. Ma oggi tutto il pianeta è stato colonizzato. Se le popolazioni sottomesse cominciassero a ribellarsi, non ci sarebbe più modo, da parte dei paesi tecnologicamente avanzati, di trovarne di nuove da sottoporre a nuovi sfruttamenti.
L’antagonismo non può più espandersi geograficamente, può solo acutizzarsi a livello sociale, là dove riesce a dominare. Se non riusciamo a realizzare una transizione al socialismo, le barbarie è assicurata.
III
Detto questo, resta sempre da chiarire che cosa s’intenda per “socialismo democratico” e, su questo, Jaffe è incredibilmente lacunoso. Non avendo posto alcuna premessa per un discorso di tipo culturale, si trova a ripetere sempre le stesse cose, senza riuscire ad offrire suggerimenti significativi per uscire non solo dalla dipendenza coloniale, ma neppure dai meccanismi sociali e culturali che creano il bisogno di avere un dominio coloniale.
Qui il discorso si fa davvero ampio e tutto da costruire. Se Jaffe si fosse concentrato sulle origini socio-culturali del capitalismo, non avrebbe dato così grande peso al colonialismo, che pur di quelle origini è parte organica, ma sarebbe stato costretto a darne alla religione, alla teologia, alla filosofia, al diritto, all’arte, alla scienza, all’etica e alla morale, cioè a tutte quelle discipline che il marxismo ha sempre definito come “sovrastrutture” dell’economia e che, per questa ragione, sono sempre state considerate dagli studiosi di sinistra come una sorta di mero rispecchiamento della realtà concreta dell’economia. In realtà tra struttura e sovrastruttura esiste un reciproco condizionamento, che impone allo studioso un’analisi di tipo olistico, obbligata a tener conto di tutti gli aspetti nel loro insieme.
Lo stesso colonialismo dipende da una determinata cultura, esattamente come il capitalismo. Se gli uomini di una civiltà, di una religione, di una nazione ecc. si sentono, ad un certo punto, in diritto di dover conquistare territori altrui, significa che già al loro interno esiste questa deformazione, esiste già il senso del dominio da parte del più forte nei confronti del più debole. Questo senso o sentimento o atteggiamento sociale non dipende dalla psicologia dei popoli, ma da una cultura, da una concezione della realtà. E questa concezione, nell’antichità, si esprimeva soprattutto in chiave religiosa (mitologica o metafisica o razionale che fosse).
Le cause del colonialismo possono anche essere state sociali, politiche, economiche, ma noi dobbiamo cercare le cause culturali, quelle precedenti a tutto. Bisogna scoprirle e combatterle, proprio perché di fronte a una determinata situazione sociale non si debba nuovamente rispondere con la scelta dell’antagonismo e quindi inevitabilmente del colonialismo. Il problema principale infatti è quello di non ripetere, in forme diverse, gli errori del passato.
In occidente le forze progressiste non possono aspettare la fine del colonialismo prima di cercare un’alternativa al capitalismo. Se il problema sta anzitutto “fuori” (nelle colonie), alla fine soltanto quelli di “fuori” potranno risolverlo. Ma se la borghesia avesse aspettato la fine spontanea della rendita feudale, non sarebbe mai riuscita a far trionfare l’idea di profitto.