Intervista a Marco Mancassola, in attesa di un’immensa immensità
E’ di Carla Bruni, Janis Joplin, Nirvana la colonna sonora dell’ultimo libro di Marco Mancassola, “Non saremo confusi per sempre”, edito da Einaudi per i suoi Coralli. La musica nei romanzi di Marco non manca mai, diventa persino uno dei protagonisti in “Last love parade – storia della cultura dance, della musica elettronica e dei miei anni”, e nei tour di presentazione dei suoi lavori nelle librerie ama accostare il reading ai dj-set o al live. Per questa raccolta di racconti si fa accompagnare da Cristian e Patrick Altieri o da Sergio Bertin. In “Non saremo confusi per sempre” racconta, a modo suo ma fedele alla cronaca, cinque storie di morte: quella di Dirk ucciso dal fucile di Vittorio Emanuele di Savoia, di Alfredino inghiottito da un pozzo, di Eluana strappata alla non-vita da un padre amorevole, di Federico pestato dalla polizia e di Giuseppe sciolto nell’acido per vendetta. Ogni storia di sangue e morte si intreccia nel libro con una storia di vita, popolata da personaggi di fantasia: una troupe teatrale, una sedicenne incinta, una compagna di scuola innamorata, un gruppo di fantasmi o i protagonisti inventati da Verne per il suo “Viaggio al centro della terra”. E’ nato così un libro struggente, crudo e delicato, com’è nel suo stile, pur andando dritto al centro delle cose, non brutalmente ma con pietas.
Sul perché hai scelto queste cinque storie vere lo dici nel libro- “a lungo mi hanno suggestionato” – pur essendo molto diverse tra loro. C’è un qualcosa di particolare che le accomuna?
Tutte hanno una vittima giovane, una sorta quasi di vittima sacrificale. Ma nel libro provo anche a dare a questa storie un’altra versione. A incrociarle con vicende di segno diverso.
Sono storie che tutti conosciamo, eppure nel riscriverle tu le rianimi, le rendi avvincenti, e commoventi, incredibili, come se fosse la prima volta che ne sentiamo parlare….le hai rivissute anche tu mentre ce le raccontavi?
Un paio, ad esempio la vicenda dell’Isola di Cavallo, inizialmente le conoscevo solo in modo vago, nei loro contorni. Le altre le conoscevo benissimo, certo, come le conosceranno anche i lettori. Eppure a ripercorrerle erano sconvolgenti, nuove. Strano incantesimo eterno del raccontare storie. Sappiamo tutti come finirà, eppure la storia non smette di vibrare.
Non hai mai temuto di ferire, ovviamente senza volerlo, le persone più vicine alle vittime, che forse speravano di non avere più l’attenzione dei mass media puntata addosso?
Ho avuto questo timore. È ovvio che questo libro nasce da un grande atto di presunzione, la presunzione che, mentre la cronaca urlata dai telegiornali finisce puntualmente per avvelenare, la letteratura possa essere invece, ancora, un balsamo benigno. La presunzione insomma che la letteratura sia qualcosa che faccia bene: una dimensione di amore per i personaggi di cui tratta. Grande presunzione, lo so. Ma è quella che mi fa scrivere.
Le tue storie/movimenti cercano di dare un senso a morti così insensate?
Cercano di offrire un piccola apertura, una possibilità in più a quelle vicende che sembrano chiuse per sempre, invece, nel recinto stretto della cronaca. La cronaca è claustrofobia, la letteratura è apertura. Ad esempio, accanto alla nota vicenda di una donna in coma che aspetta di potersene andare ho raccontato la storia, intrecciata, di una ragazzina memorabile, una giovanissima cantante folk, vitale, ironica, che è incinta e aspetta di partorire. Si è trattato di immaginare, insomma, che la storia di cronaca tristemente famosa non sia qualcosa di cristallizzato, di finito, ma piuttosto qualcosa di infinito, di fluido, che si lega ad altre storie, anche storie di vita, di nascita, di stagioni che continuano.
Nonostante temi così impegnativi, il libro mantiene una sua leggerezza.
Volevo mantenere qualche tocco di humour, e una luminosità che fosse in grado di riverberare in ogni pagina. Non mi interessa più fare libri cupi. Ne ho scritti un paio in passato, abbastanza.
E’ casuale che tu abbia voluto raccontare due storie di brutale violenza per mano di chi sta dalla parte del bene (polizia) e del male (mafia?)
Non intendevo creare questa corrispondenza: mafiosi assassini, poliziotti assassini. I mafiosi assassini sono la norma, i poliziotti assassini sono eccezioni. Anche se è evidente che in Italia c’è un problema di cultura dei diritti umani tra le forze dell’ordine: chi ha tenuto gli occhi aperti sulla cronaca conosce il numero di pestaggi, morti sospette in carcere, abusi di potere degli ultimi anni. Gli abusi delle forze dell’ordine sono diventati ormai un genere di cronaca a sé, sempre più presente nelle rassegne stampa. E d’altro canto, in un paese dove l’emergenza democratica è a tutti i livelli, sarebbe ingenuo aspettarsi che le forze dell’ordine facciano eccezione.
Credi nell’ineluttabilità del destino? Che ognuno di noi abbia già scritta la data della sua morte?
No, credo che il destino sia qualcosa di più complesso e al tempo stesso più semplice. Ma non saprei come spiegarlo.
In due storie le vittime continuano a rimanere tra i vivi: fino a quando trovano “pace”? Mi viene in mente il ,film “Amabili resti”..
“Amabili resti” è stato uno dei riferimenti a cui pensavo scrivendo questo libro. La ricerca di “pace” accomuna i vivi e i non più vivi e significa sostanzialmente trovare un nuovo passaggio, una nuova porta, un varco, un modo per andare avanti, altrove, in una realtà sempre più stretta e ossessiva.
I morti non sono tali finché restano nei ricordi dei vivi?
I morti non sono tali, nel senso che non riescono ad andarsene altrove, qualunque sia il loro altrove, perché ormai l’incertezza di tutto e di tutti è un dato così pervasivo, così strutturale intorno a noi, da estendersi persino al piano metafisico. Ecco l’umanità precaria e disorientata del ventunesimo secolo: è come se qualcuno ci avesse bendati e fatti girare su noi stessi così tante, così tante, così tante volte che non abbiamo più idea della direzione, del sopra e del sotto e del prima e del dopo. Dove andiamo adesso? E perché illuderci che, anche dopo morti, sapremmo dove andare? Ma poi, ogni tanto, all’improvviso, come un lampo nel buio, qualcuno ancora ci sorride e ci promette che non saremo confusi per sempre. Prima o dopo capiremo dove andare. Succede nel mio libro, succede nella vita.
Un caso come quello di Eluana ha riacceso il dibattito sul testamento biologico: tu che ne pensi?
Penso che vorrei fare il mio testamento biologico e che sia rispettato. Ma più ancora penso che, nel momento in cui non fossi in grado di decidere o di manifestare la mia decisione, vorrei che chi mi ama abbastanza da prendere decisioni sulla mia vita abbia il diritto di farlo. Comprese le decisioni più estreme. Un diritto terribile ma pur sempre d’amore.
Quand’eri ragazzo è morta una persona a te molto cara: quanto ti ha segnato, nella vita e nella scrittura?
Mi ha costretto a sentirmi più nudo davanti alla vita, un po’ in anticipo rispetto alla media delle persone.
La cronaca ci regala sempre nuovi morti di cui (s)parlare, vedi Sarah o Yara: credi che ci sia una soglia di pudore, di rispetto oltre il quale giornali e tivù non devono andare?
I media trasformano le vittime in icone pop. Nuovi capitoli nell’inesausta economia dello spettacolo. L’informazione è un bene comune, si preoccupa di condividere i fatti, lo spettacolo segue logiche più oblique, più perverse, più private: serve a fare audience, che non significa condividere i fatti ma creare intorno a essi il valore aggiunto più facile e immediato possibile. Voglio dire che in un’epoca in cui tutto diventa privato, al servizio di qualcuno o di qualcosa, è inevitabile che l’informazione diventi spettacolo. Il pudore è la prima vittima di questo processo.
La morte fa parte della vita? perchè invece oggi è un tabù che terrorizza? gli stessi cattolici, che credono sia solo un passaggio verso miglior vita, non riescono ad affrontarla (vedi Eluana)… eppure tu sai trasformarla persino in una dolcissima fiaba (laica)
Una fiaba dolcissima, sì, credo sia quello che ho cercato di fare. Crudele e dolcissima. La morte è una sfida che richiede maturità all’individuo adulto e maturità alla comunità che si trova a rielaborare la morte di un individuo giovane… Peccato che oggi non sappiamo più bene cos’è un adulto e nemmeno cos’è una comunità. La morte non si può esorcizzare da soli. Forse per questo ha ancora senso che la letteratura se ne occupi.
Per te, dopo la morte c’è un’immensità che non conosciamo o il nulla?
Non ho dubbi, un’immensa immensità! Anche se quella frase, “davanti a me un’immensità che ancora non conoscevo”, nel libro è pronunciata da un personaggio vivo e vegeto, un’altra ragazza, che a causa del terrificante caso mafioso che coinvolge un suo compagno di classe, vive un’adolescenza a sua volta durissima. Ma poi in un certo modo rinasce. Nel suo caso, l’immensità è quella di una vita ancora tutta da sperimentare, tutta sconosciuta.