Pj e Rumer, God bless England e le sue ladies
“Let shake England”, ultimo disco di Pj Harvey: ho aspettato un bel po’ prima di trovare il momento giusto, la voglia di ascoltarlo. Non mi andava di risentire miagolii e quel maledetto piano da saloon (White chalk) e neppure una manciata di canzoni inutili come quelle incise con Parish. Ma tanta attesa è stata ricompensata. Alcuni pezzi sono davvero belli, uno su tutti “Written on the forehead”. Da risentire dal vivo il 6 luglio a Ferrara. Non c’è solo chitarra + basso + batteria, ma anche strumenti tradizionali come l’autoharp (una specie di salterio) e sample (dalla tromba nordista di “arrivano i nostri” al r’n’r di “Summertime blues” di Cochran, dal reggae di “Blood and fire” di Niney the Observer al folk curdo). La furia introspettiva ha lasciato il posto ad un abbraccio che dalla sua terra comprende tutto il mondo. Ovunque la guerra abbia lasciato il segno. Ma stavolta tirare in ballo Patty Smith (magari con il suo “people”) non regge. On line Pj sta mandando in visione un cortometraggio per canzone, con foto e riprese di Seamus Murphy in viaggio per tutta l’Inghilterra: è lei la protagonista del disco. Viene dall’oltremanica anche un’altra musicista, non più giovinetta (annata 1979, dieci anni dopo Pj) al suo debutto con il nome di Rumer. “Season of my soul” è liscio, pulito, rilassato, ben orchestrato (Bacarach insegna). Non c’è niente di ammiccante, di esasperato, anche il look è quanto mai semplice. E forse sta proprio in questa sua vena naturalmente “slow” (guarda caso così si intitola il primo singolo) la sua forza.
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