La sfrontatezza bugiarda di Berlusconi, che crede siano tutti coglioni. E lo strano eroismo di Saviano, che dai bimbi di Gaza si tiene ben lontano…

Il Chiavalier Silvio Berlusconi deve essere convinto che gli italiani siano tutti coglioni, per usare il termine che a suo tempo lui ha usato per indicare chi vota per la sinistra, convinzione che evidentemente gli viene dalla constatazione che nonostante tutto c’è molta gente che lo ha votato e c’è ancora chi lo voterebbe. Solo un coglione può infatti credere che le notizie rivelate da Wikileaks  siano solo balle e gossip dopo che il suo ministrello degli Esteri Franco Frattini  le ha messe nel mazzo delle cause dell”11 settembre mondiale”. Dobbiamo ricordare che con la data dell’11 settembre si indica una tragedia, l’abbattimento terroristico delle Twin Tower con annessi più o meno 4.000 morti e non una delle barzellette care al Chiavaliere. I gossip NON possono produrre tragedie, tanto meno enormi come quella che sarebbe un “11 settembre mondiale”. E’ quindi evidente che il Cainano di Arcore mente, ancora una volta, sapendo di mentire. Così come è evidente, ancora una volta, che Frattini è un ministro più della Mancanza di Dignità che degli Esteri, perché se avesse un minimo di dignità si dimetterebbe dopo essere stato smentito così clamorosamente, cioè sputtanato, dal capo del governo. Continua a leggere

La felicità yankee

Si ha diritto alla felicità? Chi può averne diritto? Perché oggi la felicità rientra nelle utopie irrealizzabili? Che cos’è la felicità?

Il diritto alla felicità venne messo nella Costituzione dagli americani che, ribellandosi alla madrepatria inglese, costruirono gli Stati Uniti. Mentre rivendicavano quel sacrosanto diritto, lo negavano agli indiani, sottoposti a genocidio, e agli schiavi africani, che nelle terre dei farmers coltivavano tabacco e cotone da esportare in Europa.

E’ bello avere “diritto alla felicità” (gli yankee, per realizzarlo, ci hanno edificato sopra quella fabbrica di sogni chiamata Hollywood), ma se alla seconda domanda non si risponde “tutti”, quel diritto diventa una farsa.

Per gli americani il diritto alla felicità era il diritto di farsi da sé (self-made man), calvinisticamente parlando, cioè senza tanti scrupoli, sulla base dell’assunto che senza soldi non c’è nessun diritto e quindi nessuna felicità. Sono i dollari che fanno felici, perché senza quelli non si può comprare nulla, non si può esistere, specie in un paese conflittuale e competitivo come quello. In America si è nella misura in cui si ha.

Questo principio è così forte che gli americani non amano risparmiare ma investire, e lo fanno anche quando non hanno sufficienti capitali. S’indebitano nella convinzione assoluta si riuscire a realizzare i loro sogni. Vivono al di sopra delle loro possibilità, perché sin da bambini hanno appreso la lezione dai loro maestri e dai loro genitori, continuamente confermata da psicologi filosofi politici economisti, persino dai dirigenti sportivi: “devi aver fiducia nelle tue capacità e nella grandezza e potenza della tua nazione, che è la più importante del mondo”.

Chi ha voluto speculare su questa cieca fiducia nel progresso, su questa autoipnosi collettiva (banche, istituti finanziari, assicurazioni…), ha fatto indebitare gli americani fino al collo, mettendoli sul lastrico. I grandi colossi dell’economia e della finanza non hanno mantenuto le loro promesse di felicità: hanno delocalizzato le imprese là dove il costo del lavoro è molto più basso che in patria, hanno speculato in borsa facendo pagare i crack finanziari agli investitori, hanno emesso dei titoli finanziari che non valevano nulla perché basati sul debito altrui, hanno falsamente garantito, pur di attirare capitali stranieri, alti tassi di rendimento sui prestiti finanziari…

Oggi gli Usa sono il paese più indebitato del mondo e se non avessero un altro paese, chiamato Cina (fino a ieri odiatissimo), che sostiene il loro debito pubblico, a quest’ora avrebbero già dichiarato bancarotta, trascinando nel loro vortice di debiti mezzo mondo, con conseguenze a dir poco catastrofiche, anche perché gli americani non sopportano che qualcuno faccia loro aprire gli occhi.

Già oggi, per colpa dei loro sogni fanciulleschi, l’economia del pianeta vacilla paurosamente, e tutti vengono costretti a contribuire a non far esplodere questa bolla di sapone, che si libra nell’aria, riflettendo i colori del sole, e che ci piace guardare con gli occhi spalancati di un bambino.

Debellare un virus mortale

Quando si parla di “comunismo superiore” – come fa p.es. la rivista “n+1″ nei numeri 27 e 28/2010), sarebbe meglio rinunciare all’idea che la “superiorità”, rispetto al “comunismo primitivo”, stia nella nostra scienza e tecnica.

Quando si affermerà il futuro comunismo, non avrà nulla dell’attuale sistema capitalistico, proprio perché di questo sistema non vi è nulla di umano e di naturale. La “superiorità” sarà solo a livello di coscienza, in quanto gli uomini saranno del tutto consapevoli dei limiti delle civiltà antagonistiche precedenti.

Quanto alle forme, esse non saranno molto diverse da quelle del comunismo primitivo, proprio perché solo quest’ultimo ha saputo rispettare integralmente la natura.

Perché una società possa dirsi davvero democratica, occorre che la sua scomparsa non lasci alcuna traccia a livello ambientale. L’uomo è ospite della natura, non è il suo padrone, non può fare quello che vuole in casa altrui. Meno fa e più rispetta le regole dell’ospitalità.

I doni che la natura offre all’uomo non devono farci pensare che siano dovuti. Sono doni offerti gratuitamente: si tratta soltanto di gestirli con parsimonia e oculatezza.

La natura non è un magazzino di risorse pienamente disponibili in forme illimitate, la cui porta può essere aperta e chiusa a nostra discrezione. La natura non è un oggetto di cui si può fare quel che si vuole. E’ un organismo vivente, che produce esseri viventi, tra cui noi stessi.

L’unica differenza tra gli esseri viventi è che l’uomo è in grado di influire così tanto sui processi naturali da rendere impossibile la loro riproduzione. Non c’è nessun animale e neppure alcun fenomeno naturale (glaciazione, eruzione vulcanica, terremoto…) che abbia la capacità di questa irreversibilità.

L’uomo delle civiltà artificiali è un virus che distrugge il sistema, è l’unico elemento patogeno che alla fine arriva a distruggere persino se stesso. Non è solo un parassita che sfrutta risorse altrui, come può essere una zecca o un tafano, ma è come un’anofele, che mentre succhia sangue, uccide di malaria. Quando ha finito di uccidere tutti in un determinato luogo, si sposta in un altro, nella convinzione che le risorse siano infinite.

Un mostro di questo genere non può essere fermato con le buone parole, anche se possiamo usare lo strumento del linguaggio per ingannarlo. Occorre la violenza organizzata dei sopravvissuti.

La resistenza armata deve essere collettiva, perché solo in questa maniera si potrà rinunciare alla violenza quando l’obiettivo sarà stato raggiunto.

Bisogna creare le condizioni – e questo è ancora più difficile che debellare il virus – perché, nel corso della lotta armata, non nascano pretesti per inoculare nuovi virus nella popolazione. Che è appunto quel che venne fatto nel passaggio dal leninismo allo stalinismo.

Per cortesia, non offendiamo le vajasse.

La miseria del berlusconismo e dell’Italia che l’ha partorito e che ne è nata è ben rappresentato dallo scontro tra le parlamentari Mara Carfagna e Alessandra Mussolini. La prima ha voluto offendere la seconda chiamandola “vajassa”, che in napoletano pare significhi “donna dei quartieri bassi”, cioè in pratica popolana, e la seconda s’è offesa perché è stata, appunto; chiamata “donna dei quartieri bassi”, ovvero popolana. Abbiamo cioè due donne, entrambe assise in parlamento ed entrambe convinte di veicola “valori”, anche se non si è mai capito quali se non quelli trasportati dai “portavalori”, che usano come insulto un epiteto esprimente una condizione femminile non fortunata, quella della popolana, o donna del popolo,  e che si sentono offese se si sentono associare a una tale condizione femminile di donna del popolo. Le vajasse napoletane oltre che per la solita “monnezza” dovrebbero scendere in strada e protestare contro questa nuova monnezza berluscona. Sono infatti loro, le vajasse, a doversi offendere per l’uso offensivo del loro nome da parte delle due grandi dame (?) del parlamento ridotto come è ridotto e dei “quartieri alti”.
Avrei potuto capire il litigio se la signora Carfagna avesse dato alla signora Mussolini della “troja”, con tutto il rispetto dovuto alle professioniste del sesso estranee ai giri del bunga bunga e alle promozioni politico parlamentari, ma usare e interpretare come offese e insulti sostantivi o aggettivi tipo “donna dei quartieri bassi”, popolana, è davvero da miserabili, da donne di basso conio. Basso il conio, eh, non il quartiere. Insomma, donne di bassa qualità e scarso valore benché ben piazzatesi con accorgimenti vari nei “quartieri alti”. Scarso valore umano, culturale e politico, intendo, non mi riferisco a qualità di bunga bunga o simili.

Insomma, siamo allo sconcio. Insultarsi tra donne intendendo come offensiva essere popolane, cioè la condizione femminile sfortunata o comunque non favorita dalla sorte e dagli uomini che possono. Bell’esempio, tra l’altro, di femminilità, se non di femminismo. E sorvolo su tutto il resto di questa misera pantomima andata in scena purtroppo nel parlamento italiano. E poi c’è chi parla di “quote rosa” battendo magari i pugni o le scarpe, a spillo, sul tavolo.

Crisi di governo e nuove elezioni inutili se non si elimina il monopolio berlusconiano sulle tv, responsabile del virus berluscone che ha corrotto anche la sinistra. Grazie ai Veltroni e D’Alema

Ci sono avventimenti nel mondo che meritano di essere conosciuti, valutati e commentati con urgenza, ma la strana crisi non-crisi di governo italiana ci obbliga a parlare di lei. Prima di passare appunto a parlarne, cito solo due argomenti internazionali di grande interesse perché gravidi di cambiamenti nel futuro non escatologico. Gli Usa hanno garantito a Israele una nuova enorme infornata di aiuti militari, compreso un notevole numero di bombardieri Stealth, che si chiamano così perché invisibili ai radar, in cambio di molto poco: appena 90 giorni di ulteriore moratoria degli insediamenti coloniali israeliani in territorio palestinese, per giunta escludendo dalla moratoria Gerusalemme. Tradotto in italiano ciò significa che tra 90 giorni, dopo che i “colloqui di pace” (?) tra Netanyahu e Abu Mazen saranno ovviamente e purtroppo falliti a causa della volontà israeliana di farli fallire, Israele potrà essere in grado di bombardare l’Iran con i nuovi bombardieri invisibili ai radar regalatigli da Obama. Se le cose andranno così, tra 90 giorni entreremo in un periodo di pericolo estremo, che può sfociare in un’altra tragedia, molto probabilmente non destinata a restare “in loco”, ma capace di travolgere o comunque danneggiare significativamente anche noi. Continua a leggere

Contro la grammatica italiana

Il difetto principale di tutte le grammatiche della lingua italiana non sta solo nella loro astrattezza tecnicistica, simile a quella dei manuali di matematica, ma anche nel fatto che i loro autori, dopo aver spiegato una determinata regola, si preoccupano di offrire molti esempi per dimostrarne la validità, senza rendersi conto che ciò non invoglia lo studente a fare ricerche in proprio.
L’apprendimento scolastico, nei manuali di grammatica (e non solo di questa disciplina), è generalmente impostato in maniera nozionistica: lo studente (soprattutto quello delle Medie, che, se si escludono i Licei, fa molta più grammatica di quelli delle Superiori) è tenuto a imparare più o meno a memoria quante più nozioni possibili, per poi ripeterle più o meno meccanicamente.
In questa metodologia non c’è un invito a fare delle «ricerche personali», che sono poi quelle che in ultima istanza permettono davvero di memorizzare le regole, anche per un tempo indefinito.
Questo non vuol dire che nelle grammatiche non ci dovrebbero essere «innumerevoli esempi», ma, semplicemente, che questi esempi dovrebbero fare parte del «corredo» dell’insegnante, non dello studente.
A scuola e nella vita in generale ciò che più importa non è tanto la quantità di nozioni assimilate, quanto piuttosto il metodo con cui lo si fa, e quello principale, che rende interessante ogni cosa, è il gusto della ricerca personale.

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Oggi si fanno dei testi di grammatica, nelle scuole medie, che potrebbero andar bene anche per l’Università. Si mette tutto lo scibile possibile e immaginabile, senza curare minimamente la didattica, che è quella scienza che sa dosare gli argomenti in rapporto all’età e alle capacità d’apprendimento dell’interlocutore.

Sono testi che non servono tanto per imparare a scrivere quanto piuttosto per abituare la mente a perdersi nel mare magnum delle eccezioni e dei sofismi. È difficile infatti capire quanto possa essere importante sapere quando l’aggettivo «vicino», l’avverbio «davanti» o il verbo «escluso» non sono, rispettivamente, aggettivo, avverbio e verbo, ma, niente di meno, che «preposizioni improprie»: una categoria che «ai nostri tempi» neppure esisteva e che non per questo ci ha impedito di scrivere correttamente.
Didattica non vuol dire semplicemente elaborare degli esercizi utili all’apprendimento di determinate regole, ma anche saper formulare delle regole adeguate alla comprensione di chi le deve imparare. Senza poi considerare che non tutte le regole vanno imparate per raggiungere determinati risultati. Molte regole infatti si possono imparare dopo averli raggiunti, per approfondire qualcosa che si sapeva già.
I grammatici dovrebbero pensare di più a scrivere manuali per i ragazzi, non per ostentare la loro erudizione.

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Perché bisogna imparare tutte le possibili varianti di una regola grammaticale, quando poi le parole che si usano, soprattutto nel parlato, sono relativamente poche? Che senso ha usare delle parole che la maggioranza delle persone «parlanti» ritiene da tempo superate?

Se dunque molte parole non vengono più usate, perché costruire attorno ad esse delle regole grammaticali? P.es. l’aggettivo «ciascuno» si usa sempre meno, in quanto sostituito da «ognuno» o da «ogni». Son pochi che dicono: «ciascuno di voi» o «ciascuna bambina riceverà un regalo».
La nostra grammatica si concentra sulle singole parole, cercando di prevederle tutte, cioè si preoccupa di attribuire un qualche significato grammaticale a ogni singola parola, anche a quelle desuete. Come se il senso di una frase fosse la risultante del significato delle singole parole.
La nostra è una grammatica analitica, pedante, astrusa, per molti versi incomprensibile. Prendiamo questo esempio, che per uno straniero che dovesse o volesse imparare la nostra lingua, sarebbe come risolvere un rebus impossibile.
«Luca ha vari problemi». Quel «vari», siccome è posto prima del sostantivo, è un aggettivo indefinito; ma se lo mettiamo dopo diventa un aggettivo qualificativo. Questo perché nel primo caso vorrebbe dire «alcuni, molti, parecchi», mentre nel secondo vorrebbe dire: «variati, differenti».
Ora, davvero si può pensare che un alunno di scuola media possa capire una differenza del genere? La grammatica dovrebbe servire per semplificare il modo di parlare e di scrivere, lasciando che la complessità delle parole stia in realtà nella profondità del pensiero ch’esse vogliono esprimere. Questa profondità non è data dalle singole parole, altrimenti dovremmo considerare i vangeli i testi più insignificanti della letteratura religiosa.
Lo studio della grammatica italiana porta a utilizzare un linguaggio asettico, burocratico, molto vicino a quello della matematica. Non aiuta sicuramente a scrivere testi poetici. Dovrebbero essere le immagini a parlare: si fissano molto di più nella mente. La poesia, in tal senso, è un esercizio insostituibile.
Ma non è finita qui. Sono tante altre le domande da porsi.
P.es. esistono parole che possiamo definire «chiarissime»? Cioè esistono parole, frasi, espressioni linguistiche il cui significato s’imponga da sé, a prescindere dalla facoltà interpretativa di chi le ascolta o le legge? e quindi parole espressioni frasi la cui interpretazione non possa non essere che oggettiva, univoca, immodificabile?
Si può pretendere che nell’applicare determinate parole frasi espressioni, lo si faccia «alla lettera», senza impegnarsi in un’interpretazione soggettiva? Quali sono le condizioni in cui un’interpretazione del genere va considerata «sbagliata»? Che cosa significa essere «ambasciatori»?
Si può pretendere un’applicazione «alla lettera» delle proprie parole, quando è proprio lo scorrere del tempo, ovvero il mutare delle circostanze di luogo e di tempo, che le rende relative? L’oggettività delle parole non è forse tale solo quando le consideriamo «relative» a determinate circostanze di riferimento?
E se col passare del tempo un’interpretazione soggettiva apparisse più vera di quella oggettiva che si pretendeva al momento in cui quelle parole erano state dette? Cioè il fatto che determinate parole appaiano, nel momento in cui vengono formulate, più oggettive di altre, è di per sé sufficiente a garantire della loro oggettività in assoluto?
Qui si vuole dimostrare che non esistono parole oggettive che esulano da una possibile interpretazione soggettiva. Questo tuttavia non vuol dire che ogni parola non possa pretendere un’interpretazione oggettiva e quindi un’applicazione «alla lettera». Nessuno può pretendere che determinate parole vengano applicate alla lettera a prescindere dall’interpretazione che se ne può dare.
Anche perché può capitare che l’interpretazione di chi ascolta o legge determinate parole, sia essa soggettiva o oggettiva, possa risultare più significativa di quella che s’era data chi per primo le aveva pronunciate.
- Non posso dirvi tutto perché non sareste in grado di reggerlo.
- Sì però dacci la chiave con cui potremo farlo.

Il libro è qui
http://www.lulu.com/content/libro-a-copertina-morbida/contro-la-grammatica-italiana/9648876

Processare Berlusconi per alto tradimento! Della realtà.

Processare Silvio Berlusconi per alto tradimento! Alto tradimento in primo luogo della realtà. Anni e anni di berlusconismo hanno finito infatti col tradire la realtà reale dell’Italia sostituendola con una realtà immaginaria di comodo, inculcata man mano dai vari mass media e forse politiche a rimorchio di Mediaset e annessi interessi. Sono stati così traditi anche il giornalismo e l’informazione, sostituiti dal fedismo, dal feltrismo e  dal minzolinismo, cioè a dire da forme di clientelismo e servilismo che a volte sfociano nel prossenetismo.

Avere tradito il giornalismo e l’informazione ha permesso di tradire meglio l’intera popolazione italiana, che oggi si ritrova con un Paese ridotto a Bungabungaland e avviato probabilmente al declino, però sempre descritto da televisioni e pubblicità come splendido, eterno Paese del Bengodi. Sono stati traditi il presente e il futuro, con l’illusione che si possa competere con giganti come la Cina, l’India, ecc., continuando ad autoincensarsi e demolendo nel frattempo la scuola e la ricerca scientifica. Il fiorire delle cricche e l’esibizione sguaiata ed ubiquitaria di una dolce vita da bordello nonché di mercimoni di varia natura hanno tradito la moralità pubblica. Continua a leggere

Nick Cave avanti tutta, Devo in (meritata) pensione

A proposito di chi ha già dato e farebbe dunque meglio a lasciar perdere (vedi i Blonde Redhead del mio ultimo post), per fortuna c’è chi invecchia ma non peggiora, continua ad avere qualcosa da dire, emozioni da dare. Fedele al suo stile ma senza suonarsi addosso. Come Nick Cave. Si è inventato i Grinderman e fa dei gran bei dischi. Ancora! Compreso l’ultimo, Grinderman 2. Ritmo pulsante, sano rock dolente e sanguigno, d’istinto, duro. Auuuu! Altro che gli heavy metallari con la vocina da castrati. Facevano invece meglio a rimanere indimenticati nel cuore dei fan, me compresa, i Devo. Il ritorno di Mark Mothersbaugh, che delusione. Che inutilità, come per i B-52s tempo fa. Canzoncine che appena finiscono le hai già dimenticate. E non le voglio neanche più riascoltare.

Quale dopo Berlusconi? Scenari ipotetici

Berlusconi ha forse inaugurato un modo nuovo di fare politica? No, perché pur provenendo dal mondo imprenditoriale, non ha dimostrato di essere migliore dei politici di professione. Lui è frutto di una politica corrotta (quella social-democristiana) e in questi suoi anni di governo non ha fatto altro che ampliare la corruzione a tutti i livelli.

Ha cercato anzitutto di svuotare di significato le istituzioni repubblicane (proseguendo sulla scia presidenzialista inaugurata da Cossiga e sposando un tema federalista caro alla Lega), ovvero ha cercato d’imporre uno stile autoritario di governo (che la Lega ha accettato solo perché le permetteva di andare al potere, pensando in tal modo di realizzare meglio l’obiettivo del federalismo).

Grazie al suo carisma personale ha potuto far passare questo stile come un’alternativa necessaria all’incapacità che ha il parlamento di risolvere i problemi della gente comune. Ha concentrato su di sé non solo il consenso delle generazioni che, pur essendo cresciute sotto il fascismo, ne sentono ancora la mancanza, ma anche i favori di quei ceti sociali antistatalisti che vogliono evadere il fisco, raggirare le leggi, eliminare lo Stato sociale (oppure servirsene a proprio esclusivo vantaggio).

Ha inoltre ottenuto il plauso di quegli ingenui che pensano di poter diventare come lui partendo dal nulla, nonché l’appoggio di quei politici e cittadini triviali, che fanno dell’egoismo, del razzismo, del maschilismo e della volgarità il loro modus vivendi.

Può un uomo così avere dei seguaci, degli imitatori, dei successori? No, non può, perché è difficile avere il suo carisma. Quest’uomo sa parlare benissimo alle masse, ha una memoria eccezionale, è spiritoso, sa essere autoritario senza trascendere, non si fa impressionare dalle minacce, anzi sfrutta gli attentati come forma di propaganda, non si vergogna mai di nulla, è in grado di ribaltare la frittata come e quando vuole, facendo sembrare, come i gesuiti, bianco il nero e viceversa, venderebbe ghiaccio agli esquimesi, si vanta di essere un playboy anche di fronte ai cattolici, ha protestantizzato la politica stessa dei cattolici, sdogandola da riserve di tipo etico (tant’è che Cielle stravede per lui). Ha capito per la prima volta in assoluto che la politica non si fa in parlamento e, in un certo senso, neppure sulle piazze, se non c’è la televisione che lo riprende da vicino, e ha soprattutto convinto gli italiani che se avesse avuto più poteri avrebbe potuto fare cose straordinarie.

Un uomo così, che il mondo industrializzato comincia già a considerare come un modello da imitare, che tipo di eredità può lasciare al nostro paese? Considerando cioè che il governo che gli subentrerà non potrà impedire né il dissesto economico che incombe sul nostro paese (in quanto se Tremonti ha voluto salvare le sole banche, queste non stanno salvando le nostre aziende), né quindi l’acuirsi delle tensioni sociali, a causa della crescente disoccupazione e dell’immane precariato, così tipico del nostro paese, a causa soprattutto del fatto che tantissime aziende sono in bilico se chiudere o lasciarsi inglobare dalle più grosse, le quali peraltro sono sempre lì lì per delocalizzare, considerando dunque tutto questo, che tipo di governo ci vorrà per affrontare la prossima, inevitabile, drammatica situazione, che nel nostro paese avremmo avuto anche a prescindere dal crollo americano?

Qui gli scenari possibili sono solo tre.

Scenario n. 1: la Lega vuole il federalismo a tutti i costi. Pur di averlo, indurrà il centro-nord a staccarsi dal centro-sud, e qui è facile pensare che avremo un replay o della situazione jugoslava (molto dolorosa) o di quella cecoslovacca (molto pacifica). In una soluzione del genere il Sud, paradossalmente e inaspettatamente, potrebbe approfittarne per staccarsi dal fardello del Nord, che gli impedisce di svilupparsi.

Scenario n. 2: per ottenere un federalismo senza minare l’unità nazionale, si realizzerà un forte presidenzialismo all’americana, con aspirazioni di tipo militaristico. In questa soluzione chi ci rimetterà sarà soprattutto il Mezzogiorno e, in genere, tutti i cittadini nazionali, che si troveranno a pagare le tasse due volte: per il centro e per la periferia. Saranno però favoriti i ceti imprenditoriali più significativi (specie quelli bancari e le grandi imprese), del Nord e del Sud, ivi inclusa la criminalità organizzata.

Scenario n. 3: la sinistra si convince che l’esigenza del federalismo è giusta. E’ disposta a diminuire progressivamente i poteri delle istituzioni centrali e, per far fronte al dissesto economico-finanziario che incombe, favorisce in tutti i modi la lotta contro la dipendenza dai mercati e dalle borse mondiali, promuove cioè tutte quelle realtà locali capaci di valorizzare le risorse del territorio.

La storia, che è maestra di vita, in quanto le cose si ripetono, ovviamente in forme e modi diversi, non prevede altri scenari. E’ troppo presto infatti per ipotizzare una situazione in cui l’Unione Europea fa scomparire il concetto di “nazione”, abolisce i parlamenti nazionali e impone un governo di tipo “continentale”. Prima che si possa realizzare questo, bisogna che il federalismo abbia radicato l’illusione di un’effettiva autonomia locale.

In ogni caso è auspicabile che, qualunque sia lo scenario, gli italiani comincino a sostituire il culto della famiglia e del clan con quello della società civile.

Qual è il vero significato del lavoro?

Cosa vuol dire “lavorare”? Un commerciante che acquista un prodotto da un agricoltore e lo rivende sul mercato, è un “lavoratore”? Se l’acquirente andasse direttamente dal produttore, sentiremmo la mancanza di un “rivenditore”?

Nel Medioevo consideravano i mercanti degli imbroglioni, di cui sicuramente era meglio non fidarsi: si sapeva infatti che speculavano di molto su quanto vendevano, approfittando del fatto che l’acquirente non poteva conoscere il prezzo d’origine della merce, quello che lo stesso mercante, andando in oriente, aveva pagato per ottenerla.

Lavorare infatti non può significare “rivendere”, a meno che chi compra non ne abbia una necessità vitale. Non a caso nel Medioevo vigeva il baratto: lo scambio delle cose presupponeva che entrambe le parti conoscessero il tempo e i mezzi impiegati per produrle, la fatica occorsa ecc. Si barattavano cose reciprocamente prodotte o trasformate. La moneta, negli scambi, veniva usata dalle persone facoltose e solo per merci rare e preziose.

Il mercante ovviamente si giustificava dicendo che il suo era un “lavoro” importante, in quanto doveva viaggiare molto, avere molte conoscenze, rischiare beni personali ecc.

Tuttavia era anche una sua scelta: nessuno ve lo obbligava. In campagna le unità produttive erano del tutto autosufficienti, e chiunque avrebbe potuto pensare che quando un contadino si trasformava in mercante, lo faceva perché detestava il servaggio o perché voleva arricchirsi a spese altrui.

Nel Medioevo i lavori fondamentali erano quelli agricoli e artigianali; persino la caccia e la pesca e la raccolta di radici bacche erbe miele selvatico, ch’era il lavoro fondamentale nel Paleolitico, venivano praticate nei tempi morti dell’agricoltura o, la sola caccia, dai “signori” come passatempo.

Nel Medioevo il lavoro era contrapposto all’ozio dei possidenti terrieri, come il servaggio alla rendita. Gli agrari vivevano approfittando del fatto che i loro avi, in un lontano passato, avevano usato la forza militare per impadronirsi di determinati territori: era la terra il simbolo della ricchezza. Soltanto dopo aver conquistato questi territori, costruirono le mitologie delle ascendenze aristocratiche, elaborarono la legge del maggiorasco ecc., proprio allo scopo d’impedire che i patrimoni si frantumassero o finissero in mani sbagliate.

La borghesia mercantile nacque per reagire proprio a una situazione bloccata, in cui era praticamente impossibile arricchirsi seguendo le vie legali. O si restava servi della gleba tutta la vita o si doveva cercare fortuna in maniera non convenzionale (a meno che uno non accettasse la carriera ecclesiastica). E quando la fortuna, coi commerci, veniva fatta, il borghese doveva poi convincere il contadino a lavorare per lui, non come contadino, ovviamente, ma come artigiano, o meglio, come operaio salariato. E a quel tempo il modo più veloce d’arricchirsi, con un’impresa produttiva, era quello di dedicarsi al tessile.

Quando il contadino scinde il suo lavoro in due mansioni diverse, agricola e artigianale, può anche nascere la città: qui infatti possono trasferirsi gli operai che servono alla borghesia per arricchirsi (possono abbandonare il feudo e respirare l’aria “libera” della città).

Gli stessi artigiani possono diventare imprenditori di loro stessi, con alle dipendenze molti garzoni o apprendisti o lavoranti che non hanno mezzi sufficienti per mettersi in proprio. Gli artigiani fanno presto ad arricchirsi e a diventare una casta, specie quando il frutto del lavoro dipende da conoscenze specializzate, che pochi possono avere.

L’edificazione di una città non comportava la libertà per tutti ma solo l’illusione d’averla: di fatto era libero solo chi disponeva già di capitali e voleva aumentarli, oppure disponeva di terre i cui prodotti voleva cominciare a vendere proprio per soddisfare una domanda proveniente dalle città (p.es. la lana, che comportò la trasformazione di molti agricoltori in pochi e semplici pastori).

Naturalmente non mancava chi andava in città sperando di emanciparsi dalla condizione servile del passato, propria o dei propri parenti. E per riuscirvi aveva bisogno di dar fondo a tutte le proprie risorse, intellettuali, comportamentali, comunicative, psicologiche… Si trattava soprattutto di modificare la propria passata mentalità.

Il borghese infatti rappresenta la persona astuta, senza tanti scrupoli, in grado facilmente di simulare e dissimulare, sostanzialmente atea, anche se formalmente religiosa, attaccatissima al denaro e disposta a vendere l’anima pur di accumularne il più possibile. Non si diventa borghesi accontentandosi del poco o restando sottomessi, né affidandosi al caso o alla fortuna, né sperando nella benevolenza dei potenti.

Il borghese è un individualista per definizione, che si vanta d’essersi fatto da solo, e non accumula solo per avere il potere economico, ma anche per quello politico.

Il borghese deve arrivare alla convinzione che la ricchezza è unicamente dipesa dalle proprie capacità e deve trasmettere questa convinzione al pubblico, illudendolo che la ricchezza in generale è alla portata di chiunque.

Esiste solo uno stile di vita peggiore di quello borghese, e ne abbiamo avuto un assaggio con lo stalinismo. E’ lo stile di vita dell’intellettuale di partito e del funzionario di Stato, che si costituisce come casta privilegiata, sfruttando il lavoro di tutti. Attraverso lo strumento dell’ideologia e dello Stato (e quindi non del vile denaro), il partito diventa una sorta di sfruttatore collettivo.

Oggi, in forza di queste sconfitte storiche del capitalismo e del socialismo amministrato, possiamo dire che il lavoro può acquisire un carattere democratico solo se chi lo compie ha la percezione della sua utilità sociale e la convinzione che questa utilità gli viene riconosciuta e la certezza di non essere soggetto ad alcuna forma di sfruttamento.

L’ideologia borghese del lavoro

Nata col sorgere dei Comuni italiani e sviluppatasi con la Riforma protestante e con la rivoluzione industriale, l’ideologia borghese del lavoro è servita sostanzialmente a due cose:

  1. a togliere al passato pre-borghese qualunque giustificazione, qualunque pretesa, nel senso che il passato merita d’essere ricordato solo nella misura in cui si pone come nostra prefigurazione. Anche quando s’incontrano, in talune civiltà, manufatti altamente sofisticati, prodotti in condizioni di lavoro assolutamente imparagonabili rispetto alle nostre, nessun borghese si sogna di ritenere che noi non si sappia riprodurre quegli stessi manufatti, e di farli anzi anche meglio. Noi possediamo una scienza e una tecnica con cui pensiamo di poter fare ciò che vogliamo;
  2. a considerare priva di significato una qualunque operazione mentale non strettamente inerente a un processo produttivo. Cioè una qualunque attività politica o culturale che non possa in qualche modo rivelarsi utile all’incremento della produzione e quindi del profitto, viene semplicemente equiparata a una perdita di tempo.

Il materialismo economico, per quanto mistificato possa essere dall’ideologia dei diritti umani (ivi inclusi i valori religiosi) e da quella, ad essa correlata, della democrazia parlamentare, resta il criterio fondamentale della prassi borghese. Storicamente la borghesia è riuscita a fare del lavoro un idolo, soltanto per superare le posizioni di rendita delle classi nobiliari, ma, poiché il lavoro che propagandava era soltanto il diritto di sfruttare il lavoro altrui, la borghesia non ha fatto altro che usare il lavoro come strumento ideologico per sostituire il dio cristiano con un nuovo idolo: il capitale, che si autoincrementa grazie al profitto (mentre nel Medioevo la credenza nel dio cattolico veniva incrementata da scomuniche, crociate e persecuzioni d’ogni genere).

Il materialismo economico borghese è dunque una forma di ateismo volgare, che di “scientifico” non ha e non può avere nulla, avendo la borghesia bisogno anche della religione per imbonire le masse superstiziose e clericali.

Qualunque interpretazione si voglia dare al concetto di lavoro, non si deve mai mettere in discussione – di questo sistema – la necessità dello sfruttamento. Dunque non il proprio lavoro ma il lavoro altrui serve per arricchirsi. Il lavoro non è anzitutto il modo per sostenersi e riprodursi, ma è lo strumento per esercitare in forma arbitraria il proprio individualismo.

Prima della società borghese, per poter vivere di rendita, bastava essere proprietari di terre, aver avuto dei trascorsi militari, con cui s’era riusciti a strappare delle proprietà immobiliari al “nemico” di turno.

Viceversa, vivere di rendita, con la nascita della società borghese, poteva voler dire soltanto una cosa: utilizzare i capitali ottenuti dal commercio allestendo delle imprese produttive, in cui la proprietà dei mezzi lavorativi fosse tenuta rigorosamente separata dall’uso della forza-lavoro degli operai salariati.

Oggi vivere di rendita vuol dire offrire credito finanziario a quelle imprese che in taluni paesi del Terzo Mondo, cercano di arrivare ai nostri stessi livelli, sfruttando enormemente il lavoro dei propri operai e devastando i propri ambienti naturali. Cosa che però, se si escludono pochi casi, sembra non avere molto successo, proprio perché il capitalismo non è solo una tecnica produttiva disumana, ma anche una forma mentis del tutto innaturale, che distrugge le relazioni sociali, per l’acquisizione della quale occorre il suo tempo.

Nella propria ideologia del lavoro, la borghesia non ha mai preso le difese né dei contadini, che anzi ha voluto trasformare in “schiavi salariati”, né degli artigiani, le cui corporazioni ha voluto far chiudere in nome della libertà d’impresa e d’iniziativa individuale. Eppure contadini e artigiani erano la stragrande maggioranza dei lavoratori durante il Medioevo.

In nome del lavoro la borghesia non ha mai chiesto di democratizzare i rapporti di sfruttamento rurali e, quando lo ha chiesto, è stato solo per far diventare “borghesi” gli stessi contadini o agrari che ne avessero avuto mezzi e capacità.

La borghesia è riuscita a convincere il mondo intero ch’essa era l’unica classe veramente produttiva, quando in realtà il suo unico scopo era quello di potersi sostituire all’aristocrazia partendo da una condizione svantaggiata, quella di chi non possiede la proprietà della terra.

Sicché oggi è divenuta dominante una concezione di “lavoro” che di “umano” non ha assolutamente nulla, proprio perché le fondamenta su cui poggia sono le stesse di quelle dell’aristocrazia di ieri, e cioè lo sfruttamento di chi non ha altri mezzi di sostentamento che la propria forza-lavoro. L’unica differenza è stata che, per vincere il monopolio della terra, la borghesia ha dovuto fare affidamento ai capitali e alla rivoluzione tecnologica, servendosi peraltro proprio di quel culto astratto della persona umana predicato dal cristianesimo, specie nella sua versione protestantica.

L’altra ovvia differenza sta nel fatto che l’accumulo di capitali, a differenza di quello delle derrate alimentari, non può incontrare alcuno ostacolo materiale, essendo il denaro il valore equivalente di ogni altra merce.

Oggi, se vogliamo reimpostare il concetto di “lavoro”, dobbiamo partire dal presupposto che non possono essere dei parametri meramente economici a dargli un senso qualificante. Quando la borghesia parla di “valore delle cose”, intende sempre qualcosa di quantitativo che va calcolato. La stessa parola “economia”, per la borghesia, implica qualcosa di meramente matematico, statistico, finanziario…

Quando nella parola “economia” vengono inclusi gli aspetti “sociali”, questi sono visti soltanto come un costo, un onere dovuto alla resistenza che i lavoratori pongono nei confronti dello sfruttamento.

Una qualunque ridefinizione del concetto di “lavoro” oggi va vista nella prospettiva di dare al sociale un primato sull’economico (anche per uscire dall’insopportabile cinismo che equipara il “valore” di una cosa al suo “prezzo”), quel sociale p.es. nei cui confronti non ci si può azzardare di considerare “improduttive” o “meno produttive” talune categorie di persone (bambini, studenti, casalinghe, pensionati, anziani, disabili, malati mentali ecc.).

Peraltro, è proprio la società borghese che, pur avendo tanto osannato il lavoro, crea continuamente giganteschi apparati di persone materialmente improduttive, come i burocrati, i militari, gli intellettuali, i politici ecc., di molto superiori, numericamente, a quelle produttive in senso proprio (operai, artigiani, agricoltori, edili ecc.).

Non solo, ma se il sociale deve di nuovo contare più dell’economico, nell’ambito del sociale vi è un altro aspetto che deve avere più importanza dell’economico, ed è l’ecologico. Non esiste democrazia nel sociale senza rispetto delle esigenze riproduttive della natura. Che l’economia borghese non sia democratica, lo si vede dal disprezzo in cui tiene non solo l’essere umano, produttivo o improduttivo che sia, ma anche la natura, considerata una risorsa da sfruttare senza ritegno, fino al suo totale esaurimento.

Non c’è altro modo di superare questo concetto borghese di “lavoro” che tornare indietro. Certo non al Medioevo, in cui il lavoro era definito come “servaggio”; ma neppure all’epoca della nascita dei Comuni, poiché proprio a partire da quel momento è nata la dipendenza dell’agricoltura dalla città e la prima trasformazione del servo della gleba in operaio salariato.

Dobbiamo tornare ancora più indietro, al tempo delle società pre-schiavistiche, al Neolitico, al tempo in cui l’agricoltura e l’allevamento erano gestiti dalle comunità di villaggio. Cioè all’epoca in cui tutto era di tutti, senza proprietà privata dei mezzi produttivi, in cui dominava l’autoproduzione e l’autoconsumo. (1)

L’unica cosa che bisogna cercare di non ripetere del Neolitico – almeno per come essa si sviluppò nella cosiddetta “Mezzaluna fertile” e in altre aree geografiche che gli storici sono soliti definire col termine di “civiltà fluviali” – è l’uso strumentale delle eccedenze, cioè il fatto che, ad un certo punto, in virtù di esse, il villaggio si trasformò in città-stato, producendo tutti quegli annessi e connessi (classi privilegiate, specializzazione del lavoro, uso politico della religione, legge del valore, colonialismo ecc.) che ancora oggi caratterizzano la nostra civiltà avanzata.

Questo perché se una qualunque eccedenza rischia inevitabilmente di portare alla creazione di una società divisa in classi contrapposte, allora dobbiamo dire che l’unico modo per restare “umani” è quello di tornare al Paleolitico.

(1) E’ singolare che i paesi del Terzo Mondo, anche quando intenzionati a cercare un’alternativa al capitalismo, non riescono a vedere nelle ultime vestigia di queste civiltà pre-schiavistiche, che pur da loro sono ancora presenti, una risorsa da valorizzare e non un problema da risolvere.

Pier Paolo Pasolini 35 anni dopo la sua morte

Sono trascorsi trentacinque anni da quel giorno in cui il corpo intriso di sangue e violenza di Pier Paolo Pasolini venne rinvenuto sulla spiaggia dell’idroscalo di Ostia, a pochi chilometri dalla capitale. Trentacinque anni e un solo colpevole reo confesso: Pino Pelosi, un ragazzo di vita, un vagabondo che in tanti anni non ha saputo o voluto raccontare la verità su quella notte di aggressione al grande poeta, scrittore, regista. Un silenzio che a tanti è parso una copertura verso altri assassini rimasti ignoti ancora oggi. Le dinamiche e i vari sopralluoghi fatti successivamente da amici di Pasolini raccontano che non poteva essere il solo Pelosi ad aver fatto carne da macello il corpo di Pier Paolo. Troppo frettolose le indagini ufficiali, lasciati cadere nel vuoto o cancellati i tanti indizi che potevano dare altre risposte su quella notte. Per lungo tempo l’opinione pubblica venne tenuta all’oscuro sugli sviluppi delle indagini e del processo, restando del parere di un delitto scaturito in “circostanze sordide”.

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