Sulla cinematografia americana (IV)
Si capisce subito quando un film è americano, e non solo dagli elementi tecnici che lo compongono (sceneggiatura, recitazione, fotografia, luci, suoni, trucchi e artifici di ogni genere), ma anche da un elemento fondamentale che lo contraddistingue nettamente: esiste sempre un eroe. L’individualismo della società americana, in cui pochi riescono davvero a emergere, comporta la necessità (onde attenuare i rischi di una perenne guerra civile) di creare il mito dell’eroe, in cui tutti possono riconoscersi nella finzione del cinema. Al tempo dei Greci lo si faceva usando il teatro (l’eroe in cui il popolo s’identificava di più era Dioniso, al punto che ne faceva il dio delle feste più eversive); al tempo dei Romani si usavano i giochi circensi coi gladiatori e le belve feroci.
Quando si assiste a una proiezione filmica, si è virtualmente compagni dell’eroe proiettato, la cui violenza implicita nelle sue azioni è visibile soltanto su uno schermo, proprio perché tra l’antico mondo romano e il nostro c’è di mezzo la religione cristiana, la quale, avendo aumentato il senso di umanità, non permette di identificarsi in una violenza esplicita, reale. Nel Medioevo cristiano al massimo si facevano dei tornei cavallereschi, in cui a volte, nonostante tutte le misure di sicurezza, poteva anche scapparci il morto, ma era un’eccezione.
Assistere a un film significa trasferire su una sequenza di immagini artificiali, impalpabili, la propria frustrazione, che si trasforma in illusione, anzi spesso in auto-illusione, poiché può determinare un mutamento effettivo di carattere, di atteggiamento nelle relazioni sociali (i film di Sergio Leone, coi loro primi piani delle facce dei cow boys, fecero scuola per i bulli di quell’epoca). Nel migliore dei casi lo spettatore si limita a veder confermati gli assi ideologici su cui si regge l’intera società ed evita di assumere infantili atteggiamenti mimetico-imitativi (quelli per i quali persino un affermato attore come John Wayne non sapeva distinguere la realtà dalla fantasia; non a caso ancora oggi negli Usa si parla di “sindrome di John Wayne”, secondo cui chiunque vorrebbe farsi giustizia con la pistola).
Lo spettatore, specie se particolarmente frustrato, aspira a diventare come l’eroe proiettato, ed è appunto così che la cinematografia riproduce il tipo di società che l’ha fatta nascere, quella individualistica, in cui il singolo conta più del collettivo, con la differenza che il cinema deve far sognare di poter essere diversi da quel che si è. Sotto questo aspetto tra politica e cinema non vi è molta differenza negli Usa, proprio perché sia gli attori che i presidenti della nazione devono far “sognare” la loro utenza. Hollywood è la fabbrica dei sogni per eccellenza e il suo prodotto più clamoroso, che ebbe un incredibile successo in politica, fu l’attore Ronald Reagan. Un altro attore famoso, tuttora governatore della California, è Arnold Schwarzenegger.
Il collettivo conta così poco che persino nei film polizieschi, dove invece dovrebbe supportare materialmente l’azione dell’eroe, spesso risulta d’ostacolo: p.es. quando ritiene che i metodi usati dall’eroe siano più violenti del previsto (le figure di Rambo e Callaghan sono emblematiche in tal senso). L’eroe si difende dicendo che con una criminalità così spietata è impossibile farcela seguendo le regole: col che la cinematografia americana veicola chiaramente un messaggio propagandistico, secondo cui le istituzioni vorrebbero rispettare le regole, ma la criminalità non glielo permette.
Nei film americani esiste addirittura una netta rivalità tra i corpi che devono tutelare l’ordine pubblico (spesso p.es. s’invoca la competenza giurisdizionale), e in ogni caso, anche se l’azione di tali corpi non è di ostacolo all’azione dell’eroe, è immancabilmente tardiva per la conclusione di un determinato caso. L’istituzione viene sempre vista come un intralcio burocratico o come una superfetazione, al punto che inevitabilmente s’impone la necessità di un “giustiziere” che agisca in assoluta autonomia, salvo l’aiuto finale che media tra lui e le istituzioni, per una riconciliazione che lo riporti nei ranghi della legalità formale, apparente.
In una cinematografia del genere è irrilevante per il regista andare a cercare le motivazioni storiche che spiegano l’agire dell’eroe. A volte le motivazioni dipendono dalla semplice presenza del “male”: l’eroe è buono perché esistono i cattivi. Il male che compiono i cattivi o è inspiegabile, dovuto alla casualità, al destino, a tare congenite…, oppure è determinato dai soliti motivi esistenziali: sesso, soldi, potere, torto subìto che viene vendicato (ma quest’ultima motivazione può essere usata anche per legittimare il comportamento dell’eroe).
In una società così fortemente antagonistica la vendetta non viene mai messa in discussione come principio, come regola di vita: l’unica differenza tra “vendetta personale” e “vendetta istituzionale” è che quest’ultima è patrimonio delle forze dell’ordine o dell’eroe che viene da esse autorizzato, per vie traverse, a compierla.
La cinematografia americana (almeno quella distribuita nei circuiti internazionali), esattamente come la società ch’essa riflette, fa solo psicologia o fenomenologia, non fa storia. Non è capace o non vuole spiegare le cause del male attraverso un’analisi delle contraddizioni storiche. Il male, per essa, ha origini soggettive, non collettive, perché è questo che le ha insegnato, sin dalle origini, la cultura calvinista. Può avere anche origini collettive (di clan, come p.es. nei film dedicati alla mafia), ma anche in questo caso si tralasciano le motivazioni storiche dell’agire criminale (al massimo si fa una saga, un’epopea, non meno mitica di quella dei Nibelunghi).
I registi sono costretti a comportarsi così proprio a causa dei valori culturali della loro società, poiché, se facessero davvero un’analisi storica, dovrebbero rinunciare all’idea fumettistica dell’eroe manicheo (che salva i buoni dai cattivi), cioè dovrebbero ripensare il criterio individualistico fondamentale su cui si regge l’intera società americana, che è nata proprio sull’illusione dell’onnipotenza dell’io, quell’onnipotenza assoluta che si regge sul possesso di capitali.
L’eroe cinematografico serve per illudere che nella vita reale ce la si può fare (persino in politica è sufficiente propagandare un motto molto semplice per ottenere milioni di voti: “yes we can”). L’illusione è quella di poter superare le contraddizioni restando individualisti, proprio perché le contraddizioni non vengono percepite come storiche e oggettive, strutturali al sistema, ma come limitate nel tempo, circoscritte nello spazio.
Ogni contraddizione è risolvibile se il singolo ha fiducia in se stesso. Per questo spesso nei film americani l’eroe dice a chi vuole migliorare se stesso (un singolo, una squadra sportiva, un corpo militare) o a chi vuole imitarlo nelle sue qualità, se ci crede veramente, se crede davvero nelle proprie possibilità, e se quello risponde di sì, glielo fa ripetere più volte, come se l’eroe stesse addestrando militarmente la propria recluta, le facesse assumere una sostanza psicotropa, allucinogena, che fa aumentare il senso della propria infallibilità. Questa metodologia è rinvenibile anche nelle loro sette religiose, per non parlare di quelle strutture di marketing in cui i commerciali vengono messi in competizione tra loro, previo lavaggio psicologico del cervello, e addestrati a puntino per raggirare gli sprovveduti.
Gli americani sono come dei bambini col bazooka in mano: possono distruggere qualunque cosa se i loro desideri non si realizzano, se incontrano qualcuno che cerca di far aprire loro gli occhi, se qualcuno minaccia le loro presunte sicurezze. Non avendo il senso della storia ma solo quello dell’interesse personale (o del collettivo di appartenenza, come nel caso dei militari), mitigato da retoriche patriottarde sulla “nazione eletta”, che li fa oscillare continuamente tra orgoglioso isolazionismo e avido imperialismo, per loro è molto facile, nel volgere di pochissimo tempo, esaltare qualcuno e fargli mangiare la polvere.
L’americano si ritiene il miglior cittadino della terra, il più intelligente sul piano tecno-scientifico, il più astuto sul piano economico-finanziario, il più forte militarmente, il più democratico politicamente, il più tollerante sul piano religioso, il più aperto agli stranieri, il più capace di valorizzare l’ingegno altrui, quello che può permettersi qualunque cosa.
Nella cinematografia americana i registi devono solo fare attenzione a non esagerare con questa esibizione di onniscienza e onnipotenza, altrimenti diventa difficoltosa l’identificazione con l’eroe da parte dell’uomo comune. Anzi, più aumentano le contraddizioni della vita reale e più l’eroe va umanizzato, raffigurandolo con difetti di carattere, con un passato non proprio limpido, con debolezze o eccessi che solo alla fine del film possono venire scusati, magari perché lui stesso si è sacrificato per salvare qualcosa o qualcuno d’importante.
Si potrebbero scrivere interi libri di analisi psicologica sulla figura dell’eroe nella cinematografia americana. P.es. l’eroe di un lungometraggio è molto diverso dall’eroe stereotipato dei serial televisivi (polizieschi), che è sempre perfetto e non muore mai. E’ la differenza che passa tra un prodotto fatto a mano e uno fatto in serie. Gli americani vogliono sentirsi i primi della classe in entrambi.