Dal 2004 ad oggi i cosiddetti “Gruppi di Acquisto Solidale” (GAS) sono passati da un centinaio di unità a circa ottocento, tra quelli nazionali ufficialmente recensiti, dimostrando di saper recepire in maniera efficace non solo le preoccupazioni ambientaliste dei Verdi, e quindi anzitutto la necessità di promuovere un’agricoltura biologica o comunque ecologica, ma anche le esigenze sociali di un maggior controllo del territorio, delle sue risorse, al fine di valorizzare tutte quelle opportunità che possono favorire la “democrazia diretta”, autogestita.
Risultando da tempo assodato lo stato di crisi in cui versano le istituzioni della democrazia rappresentativa (al punto che oggi c’è chi parla di “dittatura della democrazia parlamentare”), le esperienze di coinvolgimento di cittadini nelle scelte pubbliche locali, in questo caso eminentemente economiche, costituiscono un tentativo di dare una risposta strutturata, regolamentata, alla crisi della democrazia dei partiti e delle istituzioni.
Quando i Gas parlano di realizzare una concezione più umana dell’economia non pensano soltanto a riformulare un’etica del consumo critico, ma anche a ripensare i meccanismi su cui si fonda la gestione dell’economia in generale. Cosa che non riescono a fare né le istituzioni né i partiti politici, anche se l’istanza comunale è inevitabilmente quella maggiormente coinvolta in queste iniziative dal basso.
I Gas infatti non parlano soltanto di “sostenibilità ambientale”, ma anche di “decrescita”, mettendo in dubbio la necessità di aumentare a tutti i costi il prodotto interno lordo, ovvero l’ovvietà di dar maggiore spazio agli indici quantitativi, l’inevitabilità dello stress da competizione, in una parola molte delle regole su cui si regge l’attuale capitalismo. Occorre cioè cominciare a subordinare l’economico al sociale.
Queste associazioni informali di persone e famiglie comprano direttamente da produttori selezionati facendo ordinazioni collettive; per la ricerca dei prodotti migliori, la raccolta degli ordini, il ritiro della merce e la sua distribuzione ci si avvale di personale volontario. La distribuzione, p.es., avviene a basso impatto ambientale, tramite consegne multiple in aziende, condomini, sedi di associazioni e parrocchie.
I criteri di selezione dei produttori sono alquanto rigorosi:
- devono essere tutti locali (non solo perché così è più facile controllare la qualità della produzione, ma anche per diminuire lo spreco di energia nei trasporti);
- tendenzialmente sono preferibili quelli piccoli, perché è più semplice controllarne e/o orientarne la produzione e poi perché favoriscono l’occupazione (essendo la loro produzione a più alta intensità di manodopera che di capitale);
- il loro prodotto dev’essere biologico o ecologico;
- il lavoro con cui lo si ottiene non deve essere lesivo della dignità umana e animale (p.es. non è ammesso il lavoro nero o la discriminazione per motivi di nazionalità, sesso, religione ecc.);
- dev’essere chiaro l’impatto che ogni prodotto ha sull’ambiente in termini di inquinamento, imballaggio, trasporto;
- dev’essere esplicitato quanto del costo finale di un prodotto serve a pagare il lavoro e quanto invece la pubblicità e la distribuzione (questo perché il costo reale di produzione non corrisponde mai al prezzo di mercato).
I produttori, inizialmente, vengono visitati senza preavviso, per vedere come lavorano e per chiedere loro se sono disposti ad accettare nuove condizioni di produttività e di smercio, anche perché i Gas vogliono premiare i produttori virtuosi, emancipandosi totalmente dalla grande distribuzione.
I Gas si preoccupano inoltre, ben sapendo che la logica del mero profitto è del tutto irresponsabile, di risparmiare sui consumi, recuperando o riciclando tutto quanto viene acquistato. Il consumatore vuole diventare un soggetto attivo dell’economia, pretendendo dal produttore il rispetto dell’ambiente e della salute umana.
Risparmiare sui consumi vuol dire tante cose, p.es. mangiare meno carne. La trasmissione “Report” del 17 maggio 2009 arrivò a dire che per 60 milioni di italiani non è sufficiente macellare 500 milioni di polli l’anno, 4 milioni di bovini e 13 milioni di suini: il resto dobbiamo importarlo.
Mangiando meno carne si fa un favore agli animali che vivono negli allevamenti intensivi, i cui spazi risicatissimi hanno termine solo il giorno della macellazione. A causa dei nostri appetiti, che difficilmente potremmo definire “salutistici”, visto che le carni sono spesso piene di ormoni per la crescita e di antibiotici, enormi estensioni di terreno fertile, nel Terzo mondo, vengono destinati alla coltivazione di foraggi e quindi sottratti a quegli alimenti che potrebbero nutrire le già povere popolazioni locali. Per non parlare del fatto che questi allevamenti industrializzati emettono più gas serra (18%) di tutto il settore dei trasporti mondiali (14%).
A dir il vero la prospettiva dei Gas è quella di sperimentare un modello replicabile in contesti diversi da quelli della pura e semplice alimentazione: p.es. la finanza etica, il turismo responsabile, il software libero, ma anche la telefonia, l’energia… Questo per avere col territorio un approccio non più esclusivamente consumocentrico ma globale. Non per nulla essi cominciano a organizzarsi come Reti (o Distretti) di Economia Solidale (RES e DES).
E già affiorano le polemiche con chi sponsorizza il cosiddetto “commercio equo e solidale”, poiché si ritiene sia meglio favorire i produttori locali che non quelli lontani, la conoscenza diretta della produzione che non quella indiretta, anche perché per l’ambiente è decisamente preferibile una filiera corta (a km0), in grado di garantire più freschezza e meno conservanti.
Insomma l’agricoltura biologica, basata su un rapporto molto stretto tra produttore e consumatore, sta diventando un’opportunità di recupero, nei nostri territori, di pratiche agricole sostenibili (un tempo tradizionali) e anche, se vogliamo, di relazioni sociali, con cui si cerca di trasformare qualitativamente la gestione dello spazio rurale, dell’ambiente e del territorio.