Miti sul comunismo primitivo e sogni su quello futuro
Interamente dedicato alla transizione dalle società comunistiche primordiali alle civiltà antagonistiche, il n. 27 (aprile 2010) della rivista n+1 (del sito www.quinterna.org), merita una serie di riflessioni, prima ancora che sui contenuti storiografici, sull’impostazione metodologica che regge la tesi fondamentale (che è storica e insieme politica), chiaramente delineata alla pag. 68, e che si può riassumere, nella sua prima parte, nel modo seguente:
- nella storia dell’umanità vi è stata un’unica fondamentale transizione, quella dal comunismo primitivo alle società divise in classe contrapposte;
- la prossima fondamentale transizione sarà quella da una delle attuali società classiste (il capitalismo) al socialismo democratico, che riprenderà l’organizzazione del comunismo primordiale in forme e modi ovviamente diversi.
Fin qui nulla da eccepire, anche perché è certo che sia avvenuto così e si può ipotizzare o auspicare che avverrà di nuovo così, in quanto solo un collettivismo autenticamente democratico è in grado di sussistere all’infinito.
Le perplessità emergono però nella seconda parte della tesi e riguardano proprio le modalità della transizione. Gli autori infatti guardano i passaggi epocali da una formazione sociale a un’altra coi criteri evolutivi del determinismo economico. Come ritengono politicamente inevitabile la transizione relativa ai nostri tempi, in quanto il capitalismo non è in grado di risolvere le proprie contraddizioni (e tutte le volte che ci prova non fa che peggiorarle), così ritengono che anche la prima transizione sia stata storicamente inevitabile.
Ma per sostenere l’inevitabilità di una transizione, bisogna rinunciare in un certo senso al concetto di “rottura”, che di per sé implica una scelta di campo consapevole e non solo una semplice costatazione di fatto.
Per Quinterna invece, come non è esistito una sorta di “peccato originale” per la prima transizione, così non esisterà una “apocalisse” per la seconda. In luogo di “rottura” gli autori preferiscono parlare di “società ibrida”, quella secondo cui possono coesistere degli elementi sociali che solo in apparenza sono opposti, negando con ciò uno dei presupposti fondamentali di qualunque storiografia marxista, e cioè che mentre ci può essere continuità tra un modello di sviluppo antagonistico e un altro, non ci può essere alcuna vera compatibilità tra socialismo e antagonismo. Detto altrimenti, come il socialismo non potrà mai svilupparsi dentro i confini del capitalismo, così l’obiettivo fondamentale che hanno avuto le prime civiltà della storia fu proprio quello di eliminare il comunismo primordiale.
Trattando del comunismo originario, quali sono questi elementi apparentemente opposti? Gli autori ritengono che detto comunismo si trovasse ancora largamente presente nell’ambito delle prime civiltà della storia, quelle cosiddette “fluviali”, alle quali ovviamente viene risparmiato l’appellativo di “schiavistiche”.
Essi non credono vi fossero particolari contraddizioni tra l’aspetto “naturalistico” del primo comunismo e l’organizzazione urbana delle prime civiltà. Sarebbe stato un errore degli storici borghesi (archeologi, etno-antropologi ecc.) vedere la nascita delle civiltà classiste nella piena urbanizzazione del territorio.
In realtà l’antagonismo sociale vero e proprio – secondo questo saggio monografico – sarebbe nato molto tempo dopo (in Europa p.es. con la civiltà greco-romana). Se nelle prime civiltà esistevano forme di “schiavismo”, non si ponevano certo “a sistema” di un modo produttivo e, al massimo, potevano essere equiparate a una servitù di tipo domestico. Gli autori non fanno differenza di forme nell’ambito dello schiavismo, non si parla neppure del rapporto oppressivo tra uomo e donna (che potrebbe essere considerata la prima forma di schiavitù) e si tacciono le devastanti conseguenze ambientali delle prime civiltà (deforestazioni con conseguenti desertificazioni), vedendo in esse, al contrario, un contributo alla bonifica delle zone paludose.
Per quale motivo Quinterna fa un’analisi storica di questo tipo, che contrasta non solo con quella della storiografia borghese, ma anche con quella di buona parte della storiografia socialista? Il motivo sta nell’analisi politica che essa dà della transizione che ancora deve avvenire.
Infatti, gli autori della rivista sostengono che se va considerata possibile “la persistenza di una struttura comunistica primitiva in ambiente sociale assai avanzato, alle soglie della forma statale”(p. 68), allora deve essere possibile anche il contrario, e cioè che si può anticipare “una struttura comunistica avanzata in ambiente sociale ancora arretrato, cioè con retaggi capitalistici”(ib.). In sostanza si postdata la fine del comunismo primitivo, così come si anticipa la nascita di quello futuro.
In altre parole, se si può parlare di “comunismo originario” in presenza di un’organizzazione sociale evoluta (non definibile come “Stato”, in quanto questo è sempre uno strumento nelle mani della classe egemone), così oggi si può parlare di “comunismo in fieri” negli aspetti più propriamente tecnico-scientifici e produttivi della società, che attendono d’essere usati in maniera davvero “razionale” quando al posto della proprietà privata dei mezzi produttivi si sarà affermata quella sociale.
Cosa c’è che non va in questa analisi? Almeno due cose: la prima è relativa all’idea che vi possa essere uno sviluppo tecnico-scientifico indipendente, nel suo significato sociale e culturale, dalle esigenze di uno specifico modo produttivo. Cioè il fatto che oggi scienza e tecnica abbiano raggiunto livelli che solo molto debolmente potevano essere intuiti da uno dei più grandi geni dell’umanità, come Leonardo da Vinci, non può essere considerato di per sé come una forma di progresso, come qualcosa che meriti assolutamente d’essere conservato per quando si realizzerà il socialismo democratico.
Quando i Germani entrarono nell’impero romano d’occidente non eliminarono soltanto lo schiavismo come sistema produttivo, ma anche buona parte di quanto serviva per tenere in piedi una civiltà basata sulle città e sui commerci (dalle terme alle monete, tanto per fare un esempio), proprio perché non erano cose che ritenevano indispensabili per costruire una civiltà basata su autoconsumo rurale e baratto.
La seconda cosa che non va nell’analisi di Quinterna è che nella storia non esistono le evoluzioni, ma solo traumatiche rotture, le quali possono sì creare qualcosa di progressivo rispetto allo stadio precedente ma non in maniera automatica e tanto meno in maniera definitiva.
L’unica evoluzione esistita è stata appunto quella tutta interna al comunismo primordiale (in cui p.es. si passò dal chopper all’amigdala senza creare rivolgimenti di sorta), ma, a partire dal momento in cui si è rinunciato a questo sistema equilibrato di vita, qualunque aspetto di tipo “evolutivo” (p.es. nelle tecniche produttive o di scambio) ha sempre avuto enormi prezzi da pagare in termini sia sociali (sfruttamento del lavoro altrui e guerre di rapina) che ambientali (non può certo essere un caso che i maggiori deserti del mondo siano spesso prossimi alle civiltà antagonistiche).
L’evoluzione vista secondo le esigenze delle società classiste è sempre, inevitabilmente, una involuzione, più o meno culturalmente mascherata, mistificata, con caratteristiche sempre più gravi per i destini dell’umanità.
Ecco dunque spiegato il motivo per cui gli autori di questo saggio vogliono vedere strette analogie tra le due suddette forme di transizione. Se si pensa che il passaggio dal capitalismo al socialismo debba avvenire in maniera deterministica, come una inevitabile esigenza naturale, è più facile pensare che ciò si realizzi quanto più si accetta l’idea che il socialismo futuro debba essere tecnologicamente evoluto; ma se è così, allora anche il comunismo primitivo poteva e anzi doveva esserlo, senza che ciò fosse un riflesso di rapporti squilibrati tra gli esseri umani e tra questi e la natura.
Tuttavia a questo ragionamento si può obiettare che se c’è solo “evoluzione” e non “rottura”, non ci può essere neppure organizzazione della lotta rivoluzionaria, ma soltanto attesa passiva che le contraddizioni scoppino da sole, dopodiché si può facilmente immaginare che qualcuno, dall’alto della propria scienza, faccia capire alle masse che il capitalismo, stante la proprietà privata dei mezzi produttivi, non ha alternative, e che se invece accetta quella sociale, tutto il resto può rimanere come prima.
Ecco perché quando parliamo di miti nei confronti del passato comunismo, dobbiamo parlare anche di sogni in relazione a quello futuro. Di fatto noi oggi possiamo essere sicuri solo di due cose: la prima è che con uno sviluppo planetario del capitalismo (che ora ha investito anche vari paesi dell’ex-socialismo burocratico), la natura verrà completamente distrutta, con conseguenze inimmaginabili sul futuro dell’umanità; la seconda è che senza rivoluzione politica in senso socialista, il capitalismo durerà in eterno o comunque si evolverà in forme che non ne intaccheranno la sostanza (come già sta facendo quello cinese rispetto a quello occidentale).