Il senso della democrazia diretta (in rapporto al federalismo)

Nella storia le tragedie avvengono soprattutto non quando si ha torto (come nelle dittature), ma quando si ha ragione e si pretende di averla (come nelle dittature che sostituiscono altre dittature). Cioè quando le proprie ragioni, che possono essere anche migliori di quelle altrui o di quelle precedenti temporalmente alle nostre, vengono imposte con la forza.

E’ sotto questo aspetto singolare che chi ha ragione e pretende di averla, non s’accorge che se c’è una cosa che contraddice la verità è proprio l’uso della forza.

C’è solo un caso in cui la forza smette d’essere tale e diventa diritto: quando è la forza della stragrande maggioranza di una popolazione (o di un intero paese). In questo caso si è soliti dire che vi sono più probabilità che la ragione stia dalla parte della grande maggioranza, ammesso (e non concesso) che sia possibile stabilire effettivamente la volontà di questa maggioranza. Il “non concesso” è d’obbligo là dove si pensa di stabilire tale volontà limitandosi a quella parodia di democrazia che è l’elezione dei parlamentari.

Quando la popolazione avverte l’esigenza di esercitare la forza come un proprio diritto, significa che non si sente rappresentata da chi la governa, ovvero che al governo si sta usando la forza contro gli interessi della grande maggioranza della popolazione, si sta usando la forza per violare dei diritti generali, che a tutti bisognerebbe riconoscere.

E’ a quel punto e solo a quel punto che alla forza di una risicata minoranza detentrice del potere, bisogna opporre la forza della grande maggioranza che lo subisce. Solo a quel punto la forza diventa violenza rivoluzionaria, avente cioè lo scopo di abbattere il governo in carica con una insurrezione popolare.

Tuttavia la storia ci dice che le tragedie avvengono proprio quando si è abbattuto il governo autoritario in carica. Infatti succede sempre che i trionfatori credono d’essere autorizzati a servirsi delle loro ragioni come occasione per imporre una nuova forza.

Col pretesto di dover abbattere tutti i nemici che ancora cercano di opporsi al nuovo governo, si impongono nuove servitù, nuove costrizioni, spesso peggiori delle precedenti. E il popolo, abituato a obbedire, ingenuamente le subisce, le accetta passivamente per il bene comune, pensando a una qualche “ragion di stato”.

Tutte le rivoluzioni sono fallite proprio perché i vincitori finivano col comportarsi come i vinti. Persino quando le ragioni sono state di tipo “socialista”, si è verificato questo fenomeno.

Bisogna dunque trovare il modo per scongiurare un’involuzione della democrazia. E l’unico non può essere che quello di affidare allo stesso popolo le sorti del proprio destino. Chi lo avrà guidato alla vittoria, dovrà riconoscergli la capacità di autogestirsi e di difendersi da solo contro eventuali nemici.

Il popolo deve sperimentare il significato della democrazia diretta, autonoma, localmente gestita, dove l’esigenza di affermare una qualche forma di centralismo può essere determinata solo da un consenso preventivo, concordato e motivato da parte delle realtà locali, che possono stabilire un patto tra loro al fine di realizzare un obiettivo specifico.

La democrazia o è diretta, locale, autogestita, o non è. La democrazia delegata, centralizzata, nazionale o sovranazionale ha senso solo se è temporanea e solo se le prerogative sono ben definite dalle realtà locali territoriali.

Se si escludono i momenti particolari delle guerre contro un nemico comune, occorre affermare il principio che vi è tanta meno democrazia quanto più chi la gestisce è lontano dalle realtà locali.

Ecco in tal senso è possibile usare l’idea di “federalismo” per spingere la democrazia verso obiettivi più significativi di quelli attuali, che non possono certo essere quelli di rendere il capitalismo più efficiente, né quelli di scegliere, come contromisura al rischio di una disgregazione sociale, di aumentare i poteri dell’esecutivo (che alcuni vorrebbero trasformare in “presidenzialismo”).

Per conservare l’unità nazionale non c’è bisogno di alcun presidenzialismo. Se le realtà locali (federate tra loro) sono democratiche, è la democrazia stessa, è la sua intrinseca forza etica e politica, a tenere unita la collettività nazionale e internazionale.

Ma perché questa democrazia non sia una mera formalità della politica, occorre che da essa si passi al “socialismo”, cioè alla gestione comune delle risorse vitali, alla socializzazione dei mezzi produttivi, in cui il primato economico passi dal valore di scambio al valore d’uso.

Beniamino Noia, non fatevi ingannare dal nome

Paolo Tizianel è uno di quelli che non molla. Musicista fin da ragazzo, raggiunta la matura età non ha lasciato perdere l’intenzione di fare musica per mestiere, per giunta restando a vivere in provincia. Nonostante venga ripagato molto poco, troppo poco rispetto alla sua interessante investigazione tra pop ed elettronica. Il suo ultimo progetto è solista e porta il nome indisponente di Beniamino Noia, volutamente poco accattivante (un aggettivo che fa a pugni con Paolo lo schivo). Una provocazione, visto che noioso di certo non è. Tant’è che è stato selezionato dall’Italia Wave festival per rappresentare il Veneto e sarà a Livorno il prossimo luglio con il suo “gradevole milieu fatto di dub, rilassatezza malinconica, uso della chitarra minimale, emozionale, intimistico e basi elettroniche”, come recita la motivazione della giuria. La sera di venerdì 28 maggio, alle 21.15, sarà in concerto al cinema Lux di via Cavallotti a Padova, armato di voce, loop station e computer, e ancora di chitarra e basso. Sarà accompagnato da una selezione di cortometraggi di animazione, proposti dall’Euganea Movie Movement, e dalla compagnia teatrale dei Carichi Sospesi, in scena con “Méchanicae”. Polistrumentista e compositore, Paolo ha alle spalle diverse esperienze in gruppo (Infinity Within, Descanto e Diva) e di musiche scritte per spettacoli teatrali (Tam Teatromusica, Abracalam e Carichi Sospesi). Si è dato da fare anche come organizzatore di concerti e di eventi, e non disdegna la contaminazione con fotografia e arti visive (vedi la collaborazione con la Valentina Nieli, aka Malta Bastarda, questo sì un gran bel nome d’arte!). Il suo primo album, “S/t”, uscito per PBM, è del 2008. C’è già tutta la sua vena malinconica, a tratti minimalista, ma anche ritmi lievi e spazzolati, songwriting e dance. Questa la sua autopresentazione: “Beniamino Noia nasce dall’incontro di diversi musicisti di talento che un giorno mi hanno detto “ Paolo, noi usciamo un attimo a comprare le sigarette, aspettaci qui. “ Sono passati cinque anni. Ma io sono tranquillo, so che torneranno; hanno dimenticato l’ accendino in sala prove. Oggi Beniamino Noia è un progetto che si basa su di una necessità, una profonda e intima esigenza, quella di non dividere il cachet con nessuno, per esempio. Per fare musica si avvale della voce, di una chitarra e di un basso elettrici, di una loop station , di un computer e di altri complessi macchinari tra cui una Micra bianca del 95 dotata di tutti i comfort, volante incluso, che vende a prezzo stracciato”. Infoweb www.myspace.com/beniamino noia.