Assassini Terroristi e Rivoluzionari (omaggio a Lenin)

Noi non sappiamo perché la natura ci fa così, con queste nostre caratteristiche psico-somatiche, da viversi in una limitata condizione spazio-temporale. Noi le ereditiamo da chi ci ha preceduto e dobbiamo cercare di gestirle in modo da non dover negare la nostra umanità.

Il compito che abbiamo è quello di essere noi stessi anche se vorremmo essere diversi (più forti, più sani, più belli, più ricchi ecc.). Chi non accetta la propria condizione è un alienato, nel senso che si è “diviso” dalla propria umanità.

Naturalmente questo discorso potrebbe far comodo a quegli alienati che governano gli individui, cioè a quelle persone che sono più alienate di altre e che vogliono far di tutto per sentirsi e apparire diverse, e che soprattutto non sopportano chi li ostacola in questo loro cammino di successo.

E’ proprio così che scoppiano le rivoluzioni. Quando gli individui non riescono più a gestire le loro caratteristiche psico-somatiche in determinati ambienti spazio-temporali, in maniera tale da non dover contraddire la loro propria umanità, cioè quando ci si trova costretti a far cose che non si vorrebbero e non si ha alcuna voglia di addebitare alle proprie caratteristiche la fonte delle proprie disgrazie, in quanto si ritiene vi siano cause molto più gravi, assolutamente insopportabili, indipendenti dalla propria volontà e anzi chiaramente dipendenti dalla volontà dei cosiddetti “poteri forti”, ecco che scatta l’esigenza di farla pagare a qualcuno e forse all’intero sistema.

La diversità tra un assassino, un terrorista e un rivoluzionario sta proprio in questo, che il primo elimina chi, secondo lui, ha caratteristiche migliori delle proprie e sembra sopportare meglio il peso delle contraddizioni sociali (si pensi p.es. a quando nella storia le comunità cercano un capro espiatorio, ma anche agli assassini a titolo individuale e che magari erano partiti semplicemente coll’intenzione di rubare, ma anche a quelli che per sentirsi “diversi” entrano nella criminalità organizzata). Ci si vuol fare giustizia da sé, a spese altrui (cioè di chiunque appaia stare meglio), nella speranza di poter migliorare la propria condizione personale, facendo leva solo sulle proprie capacità o su quelle del proprio clan.

Il terrorista invece fa di tutto per eliminare fisicamente i centri dei poteri dominanti (istituzionali, personali, economico-produttivi), e qui è impossibile che non vengano in mente i regicidi, le Brigate Rosse, Al Qaeda ecc. Il terrorista vuol compiere un gesto estremo, individualistico o di un piccolo gruppo isolato, che abbia rilevanza simbolica, possibilmente a livello mondiale; un gesto che si vuole far apparire come dettato da ideali di giustizia per l’intera collettività di oppressi.

Il terrorista s’illude sempre che il potere s’intimorisca, che scenda a trattative particolari con lui, quando invece di regola si fortifica, accentuando i suoi lati autoritari.

Nel mondo religioso il terrorista si serve spesso del tentativo di far coincidere martirio con suicidio. Oggi lo vediamo in alcune frange islamiche fondamentaliste, ma nel passato lo si poteva constatare anche tra i cristiani, i quali, con molta più astuzia degli odierni estremisti, facevano in modo che il loro martirio passasse per un assassinio di stato. Per far questo bastava dire di voler rispettare tutte le leggi dello Stato, ad eccezione di quella che impediva di credere nella divinità del solo Gesù Cristo (e non anche in quella dell’imperatore).

Si facevano ammazzare per un diritto giusto (quello di credere nelle proprie convinzioni), e trascuravano tutti gli altri diritti (sociali, economici, politici…), e per sembrare migliori degli altri credenti, in quanto appunto martiri dello Stato, amavano esasperare le situazioni, portarle a un punto di rottura insanabile, amavano anche infiltrarsi negli ambienti più prestigiosi del potere; infatti appena poterono, pretesero che la loro religione fosse l’unica ammessa e cominciarono a perseguitare tutti gli altri credenti.

I rivoluzionari invece sanno bene che se non insorge il popolo o comunque la sua maggioranza, o comunque quelli che non hanno più nulla da perdere e che non faranno marcia indietro, una volta presa la decisione di insorgere, quelli che non “giocheranno a fare i rivoluzionari”, proprio perché temono che in caso di sconfitta la reazione di chi comanda sarà spietata e crudele, ebbene costoro sanno con certezza che senza il popolo non esiste alcuna possibilità di successo. Tra questi rivoluzionari il più grande che la storia abbia mai avuto è stato Lenin.

Chi vuol fare il rivoluzionario e non cerca di capire come sia stato possibile che un uomo abbia potuto preparare nel proprio paese, stando all’estero, in neppure vent’anni, la più grande rivoluzione della storia, una delle pochissime ad avere avuto successo, per quanto successivamente tradita dallo stalinismo, non ha speranze di sorta.

ISRAELE: VERGOGNA SENZA PIU’ LIMITI

Israele assalta navi pacifiste
“Almeno 15 morti”, proteste
L’azione della marina israeliana nella notte contro il convoglio Freedom Flotilla che si stava dirigendo verso la Striscia per forzare il blocco e portare aiuti umanitari. I militari hanno sparato, le vittime sono almeno 15. I militari: “Dalla nave hanno sparato sui commando, trovate armi a bordo”. La denuncia delle ong: “Assalto illegale in acque internazionali”. Proteste ufficiali in Europa, convocati gli ambasciatori. Hamas chiama all’Intifada “contro le ambasciate”, scontri a Istanbul. Il governo d’Israele avverte i cittadini: “Lasciate la Turchia temiamo ritorsioni”. Farnesina: “Non risultano italiani tra le vittime”


11:09 Belgio: “Attacco sproporzionato”
L’attacco dei commando israeliano contro la flottiglia diretta a Gaza “sembra essere stato piuttosto sproporzionato” ed “estremamente deplorevole” la quantità di forza usata. Tuttavia, il diritto di Israele a vivere in pace resta un fattore “di immensa importanza”. Questo il commento del ministro degli Esteri belga, Steven Vanackere alle notizie sull’attacco alla flottiglia di attivisti diretta a Gaza.

11:08 Onu: “Shock per attacco”
Navi Pillay, alto commissario Onu per i diritti dell’uomo, si è detta oggi “scioccata” per l’assalto israeliano: “Sono rimasta scioccata dalle informazioni secondo le quali una missione umanitaria è stata attaccata questa mattina, causando morti e feriti mentre la flottiglia si avvicinava della costa di Gaza”, ha dichiarato Navi Pillay.
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Le balle per giustificare le guerre, in attesa delle prossime (sia balle che guerre). E voci di un accordo Russia-Berlusconi che se vere confermano almeno in parte quanto scrissi all’epoca delle visita del Chiavaliere in Israele

1) Un video in cui Saddam Hussein fa sesso con un ragazzino: così la Cia aveva in mente di screditare l’allora dittatore iracheno, pensando di riuscire in questo modo di aver gioco facile nell’invasione del Paese, nel 2003.

A rivelarlo al Washington Post è un ex agente dell’intelligence, che ha raccontato anche altre strategie messe a punto nell’”information warfare” project.

Il video con Saddam è “sgranato, come se fosse stato preso da una telecamera nascosta”, spiega l’ex 007. Ma abbastanza nitido e ambiguo da distruggere l’immagine del leader.

Un altro trucco pensato dagli agenti era quello di interrompere la programmazione della televisione irachena con una falsa breaking news, in cui un sosia di Saddam avrebbe dovuto annunciare di essere pronto a cedere il posto al figlio Uday.

L’ufficio dei servizi tecnici, addetto alla creazione di questi video falsi, negli ultimi anni era anche pronto a mandare in onda un filmato in cui si vede Osama bin Laden seduto intorno a un fuoco con i suoi fedelissimi mentre beve  con loro superalcolici, vietatissimi dall’Islam

Alla fine nessuno di questi filmati venne utilizzato. Alcuni funzionari  dell’agenzia sostengono che il piano venne bocciato come “inutile per i nostri obiettivi”, in quanto di fatto queste immagini non avrebbero avuto nella regione quell’eco che ci si sarebbe potuti aspettare. Altri ritengono invece che la cosa nonsia stata  portata a termine semplicemente per mancanza di fondi.

2) Il comandante in capo delle forze americane in Medio Oriente, il generale David Petraeus, ha ordinato una vasta espansione dell’attività militare clandestina allo scopo di creare scompiglio nei gruppi militanti e prevenire minacce in Iran, Arabia Saudita ed altri Paesi nella regione, secondo una direttiva segreta firmata a settembre e il New York Times ha avuto l’opportunità di esaminarla in parte. Continua a leggere

Il senso della democrazia diretta (in rapporto al federalismo)

Nella storia le tragedie avvengono soprattutto non quando si ha torto (come nelle dittature), ma quando si ha ragione e si pretende di averla (come nelle dittature che sostituiscono altre dittature). Cioè quando le proprie ragioni, che possono essere anche migliori di quelle altrui o di quelle precedenti temporalmente alle nostre, vengono imposte con la forza.

E’ sotto questo aspetto singolare che chi ha ragione e pretende di averla, non s’accorge che se c’è una cosa che contraddice la verità è proprio l’uso della forza.

C’è solo un caso in cui la forza smette d’essere tale e diventa diritto: quando è la forza della stragrande maggioranza di una popolazione (o di un intero paese). In questo caso si è soliti dire che vi sono più probabilità che la ragione stia dalla parte della grande maggioranza, ammesso (e non concesso) che sia possibile stabilire effettivamente la volontà di questa maggioranza. Il “non concesso” è d’obbligo là dove si pensa di stabilire tale volontà limitandosi a quella parodia di democrazia che è l’elezione dei parlamentari.

Quando la popolazione avverte l’esigenza di esercitare la forza come un proprio diritto, significa che non si sente rappresentata da chi la governa, ovvero che al governo si sta usando la forza contro gli interessi della grande maggioranza della popolazione, si sta usando la forza per violare dei diritti generali, che a tutti bisognerebbe riconoscere.

E’ a quel punto e solo a quel punto che alla forza di una risicata minoranza detentrice del potere, bisogna opporre la forza della grande maggioranza che lo subisce. Solo a quel punto la forza diventa violenza rivoluzionaria, avente cioè lo scopo di abbattere il governo in carica con una insurrezione popolare.

Tuttavia la storia ci dice che le tragedie avvengono proprio quando si è abbattuto il governo autoritario in carica. Infatti succede sempre che i trionfatori credono d’essere autorizzati a servirsi delle loro ragioni come occasione per imporre una nuova forza.

Col pretesto di dover abbattere tutti i nemici che ancora cercano di opporsi al nuovo governo, si impongono nuove servitù, nuove costrizioni, spesso peggiori delle precedenti. E il popolo, abituato a obbedire, ingenuamente le subisce, le accetta passivamente per il bene comune, pensando a una qualche “ragion di stato”.

Tutte le rivoluzioni sono fallite proprio perché i vincitori finivano col comportarsi come i vinti. Persino quando le ragioni sono state di tipo “socialista”, si è verificato questo fenomeno.

Bisogna dunque trovare il modo per scongiurare un’involuzione della democrazia. E l’unico non può essere che quello di affidare allo stesso popolo le sorti del proprio destino. Chi lo avrà guidato alla vittoria, dovrà riconoscergli la capacità di autogestirsi e di difendersi da solo contro eventuali nemici.

Il popolo deve sperimentare il significato della democrazia diretta, autonoma, localmente gestita, dove l’esigenza di affermare una qualche forma di centralismo può essere determinata solo da un consenso preventivo, concordato e motivato da parte delle realtà locali, che possono stabilire un patto tra loro al fine di realizzare un obiettivo specifico.

La democrazia o è diretta, locale, autogestita, o non è. La democrazia delegata, centralizzata, nazionale o sovranazionale ha senso solo se è temporanea e solo se le prerogative sono ben definite dalle realtà locali territoriali.

Se si escludono i momenti particolari delle guerre contro un nemico comune, occorre affermare il principio che vi è tanta meno democrazia quanto più chi la gestisce è lontano dalle realtà locali.

Ecco in tal senso è possibile usare l’idea di “federalismo” per spingere la democrazia verso obiettivi più significativi di quelli attuali, che non possono certo essere quelli di rendere il capitalismo più efficiente, né quelli di scegliere, come contromisura al rischio di una disgregazione sociale, di aumentare i poteri dell’esecutivo (che alcuni vorrebbero trasformare in “presidenzialismo”).

Per conservare l’unità nazionale non c’è bisogno di alcun presidenzialismo. Se le realtà locali (federate tra loro) sono democratiche, è la democrazia stessa, è la sua intrinseca forza etica e politica, a tenere unita la collettività nazionale e internazionale.

Ma perché questa democrazia non sia una mera formalità della politica, occorre che da essa si passi al “socialismo”, cioè alla gestione comune delle risorse vitali, alla socializzazione dei mezzi produttivi, in cui il primato economico passi dal valore di scambio al valore d’uso.

Beniamino Noia, non fatevi ingannare dal nome

Paolo Tizianel è uno di quelli che non molla. Musicista fin da ragazzo, raggiunta la matura età non ha lasciato perdere l’intenzione di fare musica per mestiere, per giunta restando a vivere in provincia. Nonostante venga ripagato molto poco, troppo poco rispetto alla sua interessante investigazione tra pop ed elettronica. Il suo ultimo progetto è solista e porta il nome indisponente di Beniamino Noia, volutamente poco accattivante (un aggettivo che fa a pugni con Paolo lo schivo). Una provocazione, visto che noioso di certo non è. Tant’è che è stato selezionato dall’Italia Wave festival per rappresentare il Veneto e sarà a Livorno il prossimo luglio con il suo “gradevole milieu fatto di dub, rilassatezza malinconica, uso della chitarra minimale, emozionale, intimistico e basi elettroniche”, come recita la motivazione della giuria. La sera di venerdì 28 maggio, alle 21.15, sarà in concerto al cinema Lux di via Cavallotti a Padova, armato di voce, loop station e computer, e ancora di chitarra e basso. Sarà accompagnato da una selezione di cortometraggi di animazione, proposti dall’Euganea Movie Movement, e dalla compagnia teatrale dei Carichi Sospesi, in scena con “Méchanicae”. Polistrumentista e compositore, Paolo ha alle spalle diverse esperienze in gruppo (Infinity Within, Descanto e Diva) e di musiche scritte per spettacoli teatrali (Tam Teatromusica, Abracalam e Carichi Sospesi). Si è dato da fare anche come organizzatore di concerti e di eventi, e non disdegna la contaminazione con fotografia e arti visive (vedi la collaborazione con la Valentina Nieli, aka Malta Bastarda, questo sì un gran bel nome d’arte!). Il suo primo album, “S/t”, uscito per PBM, è del 2008. C’è già tutta la sua vena malinconica, a tratti minimalista, ma anche ritmi lievi e spazzolati, songwriting e dance. Questa la sua autopresentazione: “Beniamino Noia nasce dall’incontro di diversi musicisti di talento che un giorno mi hanno detto “ Paolo, noi usciamo un attimo a comprare le sigarette, aspettaci qui. “ Sono passati cinque anni. Ma io sono tranquillo, so che torneranno; hanno dimenticato l’ accendino in sala prove. Oggi Beniamino Noia è un progetto che si basa su di una necessità, una profonda e intima esigenza, quella di non dividere il cachet con nessuno, per esempio. Per fare musica si avvale della voce, di una chitarra e di un basso elettrici, di una loop station , di un computer e di altri complessi macchinari tra cui una Micra bianca del 95 dotata di tutti i comfort, volante incluso, che vende a prezzo stracciato”. Infoweb www.myspace.com/beniamino noia.

Il capitalismo dal feudalesimo ad oggi

Intorno al Mille il capitalismo non nacque solo come reazione al feudalesimo in generale, altrimenti dovremmo chiederci il motivo per cui non sia nato anche in Europa orientale, dove il servaggio era pur sempre presente.

Il capitalismo è stato anche la conseguenza, più o meno inevitabile, di un certo tipo di feudalesimo: quello appunto dell’Europa occidentale, sviluppatosi sotto l’influenza del cattolicesimo latino. E’ stato, in un certo senso, una risposta sociale individualistica a un’affermazione politica individualistica.

Se vogliamo il capitalismo, ai suoi albori, cioè nella fase meramente mercantile e manifatturiera, non è neppure stato un’esplicita reazione al feudalesimo corrotto dei Franchi, dei Sassoni e soprattutto della chiesa romana.

Sarebbe meglio dire che, almeno nella sua fase iniziale, il capitalismo ha potuto convivere in maniera relativamente tranquilla col feudalesimo occidentale, proprio perché qui il livello di eticità dei poteri forti era piuttosto basso.

Essendo i vertici governativi (sovrani laici ed ecclesiastici) molto corrotti (i Franchi, che permisero al papato di diventare una potenza politica, avevano preso il potere con vari colpi di stato e cattolicizzarono con la forza i Sassoni), inevitabilmente col tempo lo era diventata anche la società (specie quella delle realtà urbane), e quanto più questa si corrompeva, tanto meno i vertici erano in grado di controllarla, salvo usare, di tanto in tanto, durissime contromisure (inquisizioni, scomuniche, crociate ecc.), le quali però incontravano resistenze ancora più forti, e non necessariamente in positivo, ma anche solo in negativo, come quando, p.es., dopo tutte le inaudite repressioni a carico dei movimenti ereticali medievali, scoppiò improvvisamente la riforma luterana, che certo non faceva della povertà evangelica uno stile di vita.

Il capitalismo euroccidentale ha incontrato un’opposizione esplicita da parte del feudalesimo soltanto quando ha preteso una rilevanza politica. Infatti, finché si è mantenuto entro i limiti dell’opposizione economica, è stato relativamente tollerato, nel senso che ci sono stati periodi di maggiore e minore acquiescenza, a seconda delle particolari situazioni.

Il primo vero scontro politico tra feudalesimo e capitalismo è avvenuto con la riforma protestante; il secondo con la rivoluzione francese (anticipata da quella americana, che però più che uno scontro tra feudalesimo e capitalismo, fu uno scontro nell’ambito del capitalismo, tra madrepatria e colonia, in quanto in quest’ultima il feudalesimo era praticamente inesistente. Gli inglesi giunti nel Nordamerica, ma anche i francesi, gli olandesi ecc., avevano sin dall’inizio l’intenzione di comportarsi come capitalisti, e hanno potuto farlo molto agevolmente proprio perché non incontrarono opposizioni di sorta, salvo quella indigena, che però non ebbe mai una direzione centralizzata per opporsi efficacemente: l’unica fu quella di Sitting Bull).

Si può in sostanza dire che il feudalesimo ha avuto il suo picco trionfale col Congresso di Vienna del 1815, cui subito dopo fecero seguito vari moti popolari che portarono alle rivoluzioni del 1848-49, sino alle ultime del 1860-61 e 1870-71.

La borghesia riuscì finalmente a rovesciare dal trono l’aristocrazia politica e a gestire il potere in proprio, senza peraltro riconoscere alcun vero diritto agli operai e soprattutto ai contadini che l’avevano aiutata in questa impresa. Ecco perché si parla, in riferimento all’Ottocento, di rivoluzioni tradite.

La borghesia non volle spartire il potere con nessuno, anzi, una volta acquisito definitivamente quello di tipo politico-nazionale, scatenò una fase colonialistica su scala mondiale (imperialismo), riducendo a un nulla il primato storico degli imperi coloniali di quelle nazioni che non erano mai diventate capitalistiche in senso industriale (Spagna e Portogallo) e che pensavano di poter campare di rendita in eterno.

Olanda, Francia e Inghilterra dominarono il mondo, proprio perché la borghesia, una volta andata al potere, non ebbe ripensamenti di sorta, voleva arricchirsi a tutti i costi, usando qualunque mezzo.

Al loro posto avrebbero dovuto esserci l’Italia e la Germania, che con l’Umanesimo, la prima, e la riforma protestante, la seconda, erano riuscite ad anticipare tutti. Ma la borghesia di questi due paesi fu pavida e, per timore di non farcela, cercò i compromessi coi poteri forti del feudalesimo: la chiesa in Italia, i latifondisti in Germania.

Ecco perché furono proprio questi due paesi a scatenare le due guerre mondiali o comunque a mettere gli altri paesi in condizioni di doverlo fare. Avevano bisogno di recuperare il tempo perduto, di rimettere in discussione la spartizione della torta coloniale. Avevano soprattutto bisogno di eliminare gli ultimi residui europei di imperi feudali: russo, turco e austro-ungarico. Cosa che se riuscirono a fare con gli ultimi due, nulla poterono col primo, dove l’inaspettata rivoluzione bolscevica, con un colpo solo, aveva posto fine tanto all’autocrazia zarista quanto al neonato capitalismo.

Gli operai e i contadini al potere preoccuparono così tanto le nazioni borghesi che, ad un certo punto, alle loro rivalità interimperialistiche prevalsero le intese anticomuniste. Si volle sì condannare il nazifascismo, ma solo rispetto alla democrazia parlamentare borghese.

Oggi la dialettica storica ci porta a questa situazione paradossale: proprio mentre il capitalismo occidentale è riuscito a imporsi a livello mondiale, riuscendo persino a dimostrare che il socialismo di stato non era in grado di reggere il confronto, le leve del potere economico sembrano trasferirsi alle potenze asiatiche (Cina e India), le quali, nel prossimo futuro, inevitabilmente, si sentiranno impegnate a togliere all’area occidentale (statunitense, europea e nipponica) anche le leve del potere politico.

La Russia sta cercando di recuperare i ritardi del proprio sviluppo capitalistico, sfruttando le enormi riserve della Siberia, ma non ha i numeri demografici sufficienti per farlo e non ha neppure (se non nelle grandi città, ma questo, al momento, vale anche per Cina e India) la mentalità giusta per compiere un’autentica rivoluzione borghese. Perché la mentalità cambi occorre acquisire l’ideologia dei diritti umani teorici, delle libertà giuridiche formali: è proprio questa ideologia che permette di mascherare le forme economiche dello sfruttamento.

Due incognite, al momento, restano il Sudamerica e l’Africa, che non riescono a liberarsi del neocolonialismo economico che le lega agli interessi del polo occidentale (anzi, in questo momento, stanno subendo anche la penetrazione delle merci e dei capitali cinesi). In ognuno di questi due centri del Terzo Mondo le nazioni, prese singolarmente, sono troppo deboli per potersi opporre con successo all’imperialismo del capitale.

Dal miracolo berluscone della bonanza per tutti alle lacrime, sangue e futuro incerto per (quasi) tutti. Scajola sì, Berlusconi no anche se ne ha combinate di molto peggio. Intanto l’avvocato Carlo Taormina ci spiega come nascono le famose leggi ad personam e dove punta il Chiavaliere

Mentre continua il Romanzo Berlusconale, che promette in ogni pagina benesse e bonanza per tutti, l’Italia comincia a sbattere la faccia contro muri che pare siano fatti di cemento armato e che non siano scalfibili dal blablablà miracolistico. Siamo già al lacrime e sangue, e alle manovre “correttive” di bilancio che rischiano di ricordare gli interventi – tardivi, scarsini e inefficaci – del Titanic. Mannaia sulle pensioni e sull’età dell’andata in pensione. Il tutto mentre le inchieste giudiciarie mostrano il ben godi nel quale se la spassavano e se la spassano le schiere di politici e tecnici che guidati dal tandem BB, Berlusconi Bossi, avrebbero dovuto reimpostare e reimpastare l’Italia facendola diventare un Paese finalmente civile e moderno, a democrazia inossidabie. Altro che Garibaldi e le camicie rosse, non a caso snobbati da questa belle gente.

Forse per colpa del deserto uzbeko m’è sfuggito qualcosa, ma mi pare che nella vicenda delle dimissioni del ministro Claudio Scajola giustamente volute da Silvio Berlusconi nessuno abbia atto rilevare un aspetto clamoroso. Vale a dire: se Scajola ha dovuto dimettersi per la faccenda di un po’ di quattrini di origine diciamo ignota per l’acquisto di un appartamento in pieno centro di Roma, come mai Berlusconi non si dimette per quel molto ma molto ma molto di più appurato su di lui? Dalla P2 a Mills la resistibile ascesa di Sua Emittenza diventato man mano il Caimano, il Cainano, l’Unto del Signore, l’Uomo d’Arcore, il Chiavaliere e infine Papino il Breve, in attesa di andare al Quirinale, è lastricata di faccende assodate e di bugie  e giuramenti clamorosamente falsi ben più gravi di quanto emerso su Scajola. Continua a leggere

Dalle religioni primitive al socialismo

Il fatto che i cristiani dicessero, già nei vangeli, che nessuno può dirsi dio se non Gesù Cristo, è stata, nei confronti del mondo romano, una forma di ateismo. Ma come mai questa forma di ateismo si sviluppò, mentre quella ebraica, che diceva le stesse cose e che costituì indubbiamente un passo avanti rispetto alle civiltà egizia e mesopotamica, non ebbe questa fortuna?

In altre parole, per quale ragione diciamo che il cristianesimo è una forma di ulteriore ateismo rispetto all’ebraismo? Il motivo sta nel fatto che nel cristianesimo dio non resta invisibile ma si può conoscere e si può farlo attraverso un uomo che pretende di dirsi suo figlio unigenito. Il dio dei cristiani non è il “totalmente altro”, ma è prossimo all’uomo, è talmente umanizzato che ha accettato di mostrarsi in tutta la sua debolezza, ha persino accettato, senza reagire, di lasciarsi crocifiggere.

Il cristianesimo è riuscito a tradire il Cristo, che di religioso non aveva nulla, umanizzando i contenuti religiosi dell’ebraismo, che vedeva dio come un’entità assolutamente “altra” rispetto all’essere umano.

Tuttavia, per gli ebrei, di allora e di oggi, il dio assoluto non doveva soltanto restare inaccessibile, doveva anche garantire sulla terra un luogo ove sperimentare il valore degli ideali religiosi. Per i cristiani invece – come noto – questo luogo può essere solo ultraterreno. Dunque com’è stato possibile superare l’ebraismo?

Ai Romani l’ebraismo faceva paura proprio per la pretesa che aveva di unire la religione alla politica, ma dopo la distruzione di Gerusalemme cominciò a far paura il cristianesimo, proprio per la pretesa che aveva di tenere separata la religione dalla politica. Infatti quando un imperatore chiedeva d’essere considerato una sorta di divinità e voleva avere una religione che ci credesse, non poteva certo aver fiducia nel cristianesimo e tanto meno nell’ebraismo.

Ma per quale motivo il cristianesimo faceva più paura? La ragione era una sola: “cristiani” si poteva “diventare”, “ebrei” si poteva solo “nascere”. L’ebraismo era una religione aristocratica e nazionalistica; il cristianesimo invece era democratico e universalistico.

Eppure noi oggi diciamo che gli ebrei avevano tutte le ragioni di desiderare un luogo in cui realizzare concretamente i loro ideali religiosi: non volevano dare per scontato che in questo mondo non fosse possibile alcuna vera forma di liberazione. Quindi sotto questo aspetto li consideriamo migliori dei cristiani, che rimandano tutto all’aldilà.

Il cristianesimo può dunque essere interpretato come una forma di ateismo nei confronti della teocrazia ebraica, per la quale non si può fare distinzione tra politica e religione; nel contempo però esso rappresenta, sul piano politico, un’involuzione rispetto all’ebraismo, proprio perché non crede possibile una liberazione terrena. Il cristianesimo ha potuto trionfare ideologicamente sull’ebraismo proprio nel momento in cui questo era uscito politicamente sconfitto nello scontro con l’impero romano.

Tuttavia gli imperatori, distruggendo militarmente Gerusalemme, si portarono per così dire il nemico in casa. Quando i Romani usavano la religione come strumento della politica, temevano chi voleva fare della politica uno strumento della religione, per questo vollero assolutamente far fuori l’ebraismo. Ma appena l’ebbero fatto, cominciarono a temere chi non era disposto a considerare la religione uno strumento della loro politica, e si trovarono a perseguitare, inutilmente, i cristiani per tre secoli, finché alla fine si arresero, e quando lo fecero, pensarono subito di usare il cristianesimo come prima facevano col paganesimo, con la differenza che dovettero rinunciare alla loro divinizzazione, al loro ruolo sacerdotale.

Il cristianesimo impose all’impero romano una separazione politicamente formale di chiesa e stato, benché nella sostanza ideologica fossero entrambi cristiani e intenzionati a reprimere chiunque non lo fosse.

Ma in origine come si poneva il cristianesimo nei confronti del paganesimo? Essendo di origine ebraica, il cristianesimo aveva già superato il concetto di politeismo. Al massimo possiamo dire che il cristianesimo sia una forma di “triteismo”, in quanto, nell’ambito della “sacra famiglia” (padre, figlio e spirito) vi è unità di sostanza nella diversità delle persone.

Tuttavia il superamento non è affatto avvenuto nel passaggio dal politeismo al triteismo. Già gli ebrei avevano capito che gli dèi pagani altro non erano che l’immagine riflessa dei vizi e delle virtù degli uomini. Gli ebrei preferivano un dio unico, invisibile, onnipotente, onnisciente, superiore al destino, capace di misericordia e di perdono, assolutamente virtuoso, proprio per impedire agli uomini di avere con questo dio un rapporto arbitrario, del tutto soggettivo. Jahvé pretendeva il rispetto dei patti, della legge scritta, altrimenti toglieva la sua protezione e lasciava il popolo in balìa dei suoi nemici.

Per i pagani gli dèi non avevano pretese così elevate: bastava il sovrano deificato ad averle nei confronti di se stesso. Le divinità pagane erano una forma di consolazione dalle frustrazioni quotidiane causate da una società schiavistica, erano un gioco intellettuale per chi scriveva commedie e tragedie, erano un modo che ogni città o classe sociale aveva di distinguersi dagli altri, erano una rappresentazione simbolica di forze naturali. I Romani non si servivano delle loro divinità per muovere guerra contro i loro nemici, anche perché, quando vincevano, rispettavano le divinità straniere, anzi spesso le adottavano, aggiungendole alle proprie.

La religione, per i Romani, era come una sostanza oppiacea, assolutamente innocua sul piano politico (semmai poteva dar fastidio a livello sociale, come quando, con i baccanali, si univa religione a lussuria). Nessun credente pagano, in nome del proprio dio, s’è mai opposto politicamente alle istituzioni dell’impero. Nessun pagano ha mai messo in discussione la divinizzazione dell’imperatore (al massimo l’obbligo di prestare sacrifici alla statua del sovrano lo riteneva del tutto formale).

Il paganesimo è sicuramente una religione più intellettualistica e alienata dell’animismo, del totemismo ecc., ma resta sempre una religione ingenua, primitiva, in fondo non violenta e anzi molto tollerante di altri culti e rispettosa dei cicli della natura.

Viceversa, il cristianesimo, proprio come l’ebraismo che l’ha preceduto e l’islam che gli è succeduto, è una religione politicizzata, che vuole imporsi nel nome del proprio dio, anche se non lo fa da sé, ma per mezzo di un proprio braccio secolare.

Dove sta dunque il vero motivo di superamento del paganesimo da parte del cristianesimo, quello che gli ha permesso d’essere considerato una religione non acquiescente ma contestativa? Sta anzitutto nel fatto che il cristianesimo ha inventato la separazione di chiesa e stato, che per un pagano sarebbe stata impensabile (e che invece anche un ebreo avrebbe accettato, benché soltanto al di fuori della propria nazione).

La suddetta separazione è una forma di protesta politica, è la sconfessione della pretesa che i sovrani hanno di deificarsi, di rappresentare la divinità in maniera istituzionale. Non a caso i cristiani venivano definiti “atei” dai pagani.

I cristiani si sono “paganizzati” quando hanno tolto alla loro religione qualunque connotato di protesta sociale (quando p.es. sotto Costantino e Teodosio hanno smesso di parlare di uguaglianza sociale e di libertà di coscienza), e si sono “ebraicizzati” quando, col papato medievale, hanno sottomesso la politica alla religione.

Le due cose, in un certo senso, hanno marciato in parallelo, soprattutto in Europa occidentale: quanto più la chiesa pretendeva di porsi come Stato, tanto più la religione diventava una forma di evasione, perdeva il suo contenuto eversivo, anzi veniva usata per avvalorare le pretese integralistiche della teocrazia. Di qui lo sviluppo impetuoso dei movimenti ereticali, che volevano far recuperare al cristianesimo il carattere contestativo che aveva avuto all’inizio.

Quando, in epoca moderna, il cristianesimo s’è trasformato in socialismo, ha compiuto due operazioni simultanee: ha fatto di ogni uomo il dio di se stesso (umanesimo laico) e ha chiesto all’uomo di realizzare su questa terra la propria liberazione (socialismo democratico, egualitario).

Quindi in un certo senso ha ripristinato il valore politico dell’ebraismo e in un altro senso ha conservato l’universalismo del cristianesimo, togliendo però ad entrambi qualunque connotato religioso.

Ora non gli resta che recuperare del paganesimo ciò che questo aveva ereditato dalle religioni primitive: il rispetto della natura. Il socialismo democratico in occidente s’è sviluppato in senso “scientifico”, senza mettere in discussione lo sviluppo tecnologico e industriale della borghesia. S’è limitato a contestare l’appropriazione privata del profitto e l’assenza di una socializzazione dei mezzi produttivi.

Oggi invece il socialismo deve riscoprire il valore della terra, del rapporto naturale dell’uomo con le risorse del pianeta. Il socialismo deve diventare ecologista, mettendo al primo posto l’importanza dell’autoconsumo e del valore d’uso delle cose che produce.

Le radici delnociane di Comunione e Liberazione

Sia da destra che da sinistra Augusto Del Noce fu sempre considerato un filosofo “inattuale”, almeno finché le sue idee non vennero messe in pratica da Comunione e liberazione, grazie all’intermediazione del suo discepolo prediletto, Rocco Buttiglione.

Il motivo stava nel fatto ch’egli criticava sia il socialismo che il capitalismo, prospettando una terza via di tipo cattolico-integralista, simile a quella di Rosmini e Gioberti. Aveva una posizione a dir poco ottocentesca (da Concilio Vaticano I), per la quale la teologia andava strettamente unita alla politica e in maniera tale che questa, come una sorta di braccio secolare, si dovesse porre al servizio di quella.

Neppure la destra post-unitaria, neppure quella fascista avrebbero mai potuto riconoscersi in una posizione del genere, proprio perché esse volevano una chiesa al servizio dello Stato e non il contrario.

La tragedia – secondo Del Noce, che morì nel 1989 – stava proprio nel fatto che tutta la filosofia risorgimentale, avendo conservato, nel migliore dei casi, il principio di trascendenza soltanto in maniera formale, come un guscio vuoto, era destinata inevitabilmente al nichilismo, come già aveva dimostrato il fascismo e come – a suo parere – avrebbero presto dimostrato sia il consumismo americanista che il comunismo sovietico.

Dentro il concetto negativo di “immanenza” Del Noce metteva tutto quanto non fosse “sacro”, per cui ad es. non riusciva a vedere alcuna vera opposizione di Gramsci a Croce e Gentile: erano soltanto facce della stessa medaglia. Al massimo pensava, vedendo il crocianesimo come una forma di opposizione morale al fascismo, di poter far incontrare Croce con Rosmini.

Tutte le contraddizioni sociali del capitalismo le riassumeva nel conflitto ideologico di fede e ateismo, senza riuscire in alcun modo a intravedere né i limiti storici del nesso fede e politica, che in Europa avevano procurato immani disastri (corruzione a tutti i livelli, inquisizione, caccia alle streghe, crociate, guerre infinite di religione…), né i limiti oggettivi di un tale nesso, dovuti al fatto che nelle questioni di coscienza uno dev’essere lasciato libero di credere quel che vuole, senza forzature istituzionali di sorta.

Del Noce, nonostante la sua straordinaria cultura, non riuscì neppure a vedere il cattolicesimo come una forma di eresia rispetto alla chiesa indivisa dei primi sette secoli.

Aveva soltanto capito che Gentile era nettamente superiore a Croce, in quanto al principio di immanenza anticomunista aveva saputo dare una veste politica ben definita: lo Stato fascista, e tuttavia rifiutava Gentile proprio a motivo della pratica strumentale che quello Stato aveva nei confronti della chiesa.

Del Noce però ha sempre evitato di chiedersi che cosa sarebbe successo all’Italia (e alle proprie tesi integralistiche) se il fascismo avesse vinto la II guerra mondiale. Probabilmente un cattolico vetero-feudale come lui avrebbe accettato l’idea che uno Stato trionfatore del comunismo e una chiesa sottomessa per ragioni belliche avrebbero potuto trovare, in tempo di pace, una felice intesa attorno all’obiettivo comune dell’anticomunismo, così come oggi C.L. ha potuto fare con la destra berlusconiana e leghista, che di religioso han meno di un guscio vuoto.

Pur di non vedere l’ateismo comunista al potere, uno come Del Noce non avrebbe avuto scrupoli nell’allacciare un rapporto organico con un fascismo vincente, anche perché un fascismo del genere – come esattamente avvenne col franchismo – avrebbe sicuramente concesso alla chiesa molti più spazi di manovra.

Del Noce va dunque visto come uno degli anelli più recenti di quella lunga catena di fanatismo clericale che, partendo dalla teocrazia di papa Gregorio VII, è passata per tutta la fase controriformistica e anti-unitaria (a livello nazionale), trovando nel pontificato di Wojtyla-Ratzinger e in C.L. le sue conclusioni più retrive.

E con questo non si vuol affatto sostenere che l’ateismo debba avere l’avvallo di un qualsivoglia Stato politico (ché, in tal caso, si creerebbe un integralismo rovesciato), ma semplicemente che il cattolicesimo politico non è assolutamente in grado di garantire alcuna libertà di coscienza, né ai credenti non cattolici né ai non credenti.

Laverna, i nuovi talenti dell’elettronica in libera circolazione

Quando, chi, dove, come, quanto, perché: sono tante le domande che ho voluto fare ai tre curatori di un’etichetta discografica indipendente alquanto particolare. Laverna Netlabel propone musica online gratis, non solo in streaming ma da scaricare, a norma di legge. E’ specializzata in musica elettronica, una trentina gli artisti in catalogo, selezionati da Mario “Molven” Marino, Mirco Salvadori e Lorenzo Isacco.

Quando è nata l’etichetta?

Mario: Era il 2004 e il progetto Laverna Netlabel partì da subito come progetto più ampio rispetto a quello di una “semplice” etichetta musicale. La scommessa era quella di aprire uno spazio (di cui il sito web era solo una delle componenti) in grado di raccogliere e sviluppare progetti legati ad un certo tipo di suono (che semplificando potremmo definire “elettronico”) e ad una certa forme estetica, da sviluppare con dinamiche di tipo “collaborativo”. E’ una sorta di strana coincidenza cronologica. Se il 1994 io riconosco l’anno decisivo per il suono elettronico, la svolta qualitativa e le innovazioni musicali più importanti per etichette quali Warp, Apollo, Rising High, Fax, plus8..; il 2004 lo vedo in qualche modo come l’anno della svolta per quanto riguarda le modalità di diffusione dei suoni con l’esplosione delle licenze “Creative Commons” e il salto qualitativo delle netlabel (fino ad allora poco più di contenitori di file mp3 diffusi in Rete) che diventano vere e proprie etichette con stile e contenuti riconoscibili.
Resto in attesa del 2014…

Quale background vi ha portato fino a Laverna?

Mirco: “ho iniziato da giovane”…verrebbe da dire! Più che giovane da vero e proprio adolescente, ad ascoltare musica non canonica. Per me è sempre stata una compagna inseparabile ed insostituibile. Nei primi anni ’80 mi sono avvicinato alle radio libere (così si chiamavano…) e non le ho più lasciate. Son partito da una piccola emittente sulla riviera per finire a creare uno dei programmi più ascoltati nel NordEst Italia. Si chiamava ‘Nocturnal Emission’ e lo conducevo assieme a Massimo Caner, guru ricercatore del suono new-wave ed elettronico, tutt’ora in azione. Da un po’ di tempo a questa parte siamo ospiti di Andrea De Rocco e del suo “Diserzioni” in onda su Sherwood Radio: con lui abbiamo inaugurato una nuova esperienza radiofonica (Disermission) che si occupa esclusivamente di suono elettronico e va in onda con frequenza quindicinale la domenica pomeriggio. Un percorso, il mio, partito dal country-rock (?!) ed approdato al suono elettronico di ricerca. Nel mezzo una serie di esperienze che ancora pulsano di vera vita come la collaborazione più che ventennale con il mensile specializzato Rockerilla per il quale curo la pagina recensioni produzioni Net e non solo, le esperienze di produzione discografica con Laverna Net come dj micromix, la nuova avventura artistica con gli Infant T(h)ree e l’incarico di art director sempre per Laverna Net Label.

Mario: ..ahimè a causa dell’età il background parte dai lontani anni ’80 ai quali, guarda caso, faccio risalire le fondamenta storiche del suono che amo ancora oggi. Una certa “elettronica” (di matrice “wave”) che ha iniziato a formarsi con le produzioni di formazioni storiche quali Wire, Cocteau Twins, Cabaret Voltaire, Clock DVA.. Che si unisce ad una militanza “politica” che nella mia personale esperienza personale ha sempre significato prima di tutto un impegno per tenere in vita la purtroppo asfittica scena culturale locale che, se non fosse per la generosità di singoli individui che si impegnano da anni gratuitamente nel territorio, sarebbe ancora più povera e arretrata di quanto non lo sia oggi, sopratutto nel confronto con gli altri paesi europei nei quali sono previsti riconoscimenti, incentivi, programmi radiofonici e televisivi nei canali pubblici, finanziamenti..

Lorenzo: il mio background è presto raccontato. Son quello che spesso viene definito un “musicofilo”, ho cominciato a 12 anni ascoltando Devo e Pink Floyd, e ho fatto un giro a 360 gradi per la musica, fermandomi in molte stazioni. Una di quelle più viscerali è la musica elettronica, ed in particolare l’ambient ed i generi ad essa affini o derivati. Ho fatto un po’ di anni di radio, in una piccolissima radio localissima, ed ora ho anche una piccola etichetta (oltre a Laverna, s’intende) discografica, e una piccola società di management.. Da 20 anni lavoro ed ho lavorato in differenti ruoli, vicino al mondo dello spettacolo. Naturale il passaggio poi, a Laverna, con tutto l’entusiasmo e la convinzione di poter fare esplodere un potenziale incredibile grazie al concetto di collaborazione proprio di Laverna.net sin dagli albori: una forza esplosiva.

Di cosa campa una net-label visto che i download sono gratis?

Mario: Una Netlabel in sè non ha nessun tipo di introito in quanto diffonde musica “free”, cioè liberamente e gratuitamente scaricabile dalla Rete. Tuttavia ci sono delle attività collegate come gli eventi musicali live che abbiamo organizzato in varie occasioni (come l’evento del 10 Dicembre 2009 al Candiani di Mestre) che hanno come unico scopo quello di diffondere un messaggio estetico e un contenuto, e che riusciamo a mettere in campo solo grazie alla generosità dei musicisti e di tutti quelli che collaborano a titolo assolutamentegratuito!
E’ il solito vecchio discorso: ci sono delle attività umane che non hanno un immediato riscontro economico e che nei paesi più avanzati sono riconosciute come valore sociale e in quanto tali sono finanziate e sostenute. In Italia sopravvivono grazie ai ritagli di tempo di alcuni testardi individui..

Lorenzo: L’etichetta ha una filosofia ben precisa: pubblica in download gratuito, e come tale, anche l’impegno dell’artista che decide di pubblicare con noi, sa in partenza che le regole sono quelle della gratuità. Questo non incide sulla qualità del prodotto, se non per qualche caso ove l’artista stesso ha deciso di raggiungere o non raggiungere una determinata qualità, ma mantenendosi su standard di assoluto rispetto. Di cosa campa.. ognuno di noi, di un altro lavoro..

Chi sono i vostri utenti tipo? e quanti sono?

Mirco: trattandosi di una label che opera in rete il numero degli utenti è estremamente ampio in quanto Internet è ‘patria’ del suono elettronico per antonomasia. I nostri utenti arrivano dalle esperienze le più svariate ed appartengono a quella categoria che noi prediligiamo: “open minds people”

Mario: Non c’è un utente tipo ma possiamo misurare in modo preciso il numero di download, ovvero il numero di volte che ogni release viene scaricata. E possiamo dire che per alcune releases la cifra è di tutto rispetto tenendo conto del fatto che trattiamo un suono “di nicchia” (anche alcune migliaia di download)..

Quanti artisti conta la vostra scuderia?

Mirco: il bello di una Net Label è che non conta poi molto il numero degli artisti o delle uscite che si producono in un anno ma la qualità delle cose che si fanno. Laverna ha iniziato il suo percorso lentamente ma ora sta viaggiando a pieno ritmo. Abbiamo parecchi nomi interessanti in catalogo, sia italiani che stranieri e altri ne stanno arrivando. Laverna si sta pian piano definendo come etichetta capace di produrre cose decisamente di alto contenuto artistico e di estremo valore sonoro. Siamo tre tipini molto attenti alle scelte per cui le proposte vengono vagliate traccia per traccia e tutte devono avere dei requisiti che siano in linea con la ‘politica sonica’ della label.

Mario: beh è una “scuderia” molto dinamica, forse molto più variabile della media di un etichetta musicale, nel senso che si aggiungono sempre nuovi musicisti e alcuni artisti che hanno pubblicato in passato con noi non è detto che lo faranno ancora in seguito. Il criterio guida viaggia su un doppio binario: da un lato lo stile musicale, dall’altro lato il musicista, tenendo conto di tutto quelle che ci siamo detti finora, deve collegarsi allo spirito “collaborativo” e “orizzontale” del progetto..

Lorenzo: difficile rispondere, un po’ perché in quest’ultimo anno, ed oggi ancor di più, abbiamo incrementato del 300 per cento il numero delle uscite. Gli artisti che sono nella “nostra” scuderia o semplicemente ruotano attorno ai progetti di Laverna sono molteplici: alcuni hanno proseguito e si ripropongono con una certa continuità, altri hanno virato verso altre scelte artistiche. Altri ancora hanno terminato, il loro percorso, pubblicando il loro saluto con noi.. diciamo che tra habitué ed occasionali, oltre la trentina..

Quali sono i vostri musicisti più scaricati?

Mirco: senz’ombra di dubbio direi che ‘The Last dj’ di Gigi Masin è il disco più downlodato in assoluto.

Mario: Poi ci sono alcuni nomi “emergenti”: Enrico Coniglio e gli LLS04. Abbiamo anche un “supergruppo” nato da una interessantissima combinazione di elementi ed esperienze diverse: Gli “Infant T(h)ree”..

Quali gli artisti più originali e/o innovativi?

Mirco: facendone parte non posso parlarne ( ; ) quindi, a parte quella produzione, devo dire che ogni uscita ha una sua peculiarietà, ogni artista che decide di ‘stampare’ per Laverna porta con sé originalità ed innovazione.

Mario: Gigi Masin è il nome storico, il musicista più noto e con più esperienza. Poi ci sono alcuni nomi “emergenti”: Enrico Coniglio e gli LLS04. Poi abbiamo anche un “supergruppo” nato da una interessantissima combinazione di elementi ed esperienze diverse: Gli “Infant T(h)ree”..

Lorenzo: Abbiamo trovato molto interessante ed innovativa al release di Enrico Coniglio, musicista di acclamato valore a livello mondiale. Una sorpresa si è rivelato, poi, #11 degli LLS04, una coppia di musicisti, coppia anche nella vita. Siamo in attesa delle tracce audio di Emanuele Errante (che già ha collaborato con noi in occasione dello spettacolo “Futuribile notte d’inverno” al centro Culturale Candiani di Mestre). Ma poi tutti, tutti i musicisti che hanno prodoto qualcosa per noi hanno riscontrato il nostro entusiasmo ed il risconto del pubblico.. Come Monosonik, Halo XVI, Molven, Vain Foam, Paolo Veneziani, Mono-drone. Gocce di poesia di Gigi Masin, e sicuramente e molto gli Infant T(h)ree.

Il termine “elettronica” è un po’ vago: voi abbracciate un po’ tutto, dalla dance all’ambient, oppure no?

Mirco: non posso che darti ragione, oramai con il termine elettronica si tende a catalogare tutto ciò che non è canonico o mainstream. Noi ci occupiamo di suono elettronico inteso come suono di ricerca che ha come base, come comune denominatore il fascino dell’esperienza Ambient. Da li partiamo per andare alla ricerca di sempre nuove frontiere sonore, lontane comunque dall’inascoltabile frastuono della musica (?) tristemente convenzionale.

Mario: Se inizialmente il nostro progetto di net-label si proponeva di diffondere attraverso la Rete le produzioni musicali di artisti del nostro territorio, in una fase successiva e forse più matura, ci proponiamo un superamento totale e definitivo di ogni distinzione di carattere geografico utilizzando come unico criterio di scelta e di pubblicazione del materiale, come dicevo, il suo intrinseco valore e anche le affinità di spirito relative al metodo di lavoro del musicista. E’ chiaro che inizialmente si è pubblicato materiale differente come stile, mentre da molto tempo ormai abbiamo creato un percorso musicale legato ad uno stile preciso che potremmo in qualche modo definire: ambient elettronico tra l’IDM, il downtempo e la sperimentazione… Non avrebbe senso attraverso una label tentare di rappresentare tutta la scena elettronica, pena il rischio di fare un pasticcio incomprensibile.

I suoni sono tutti elettronici o c’è l’inserimento di strumenti “veri”?

Mario: Se inizialmente il nostro progetto di net-label si proponeva di diffondere attraverso la Rete le produzioni musicali di artisti del nostro territorio, in una fase successiva e forse più matura, ci proponiamo un superamento totale e definitivo di ogni distinzione di carattere geografico utilizzando come unico criterio di scelta e di pubblicazione del materiale, come dicevo, il suo intrinseco valore e anche le affinità di spirito relative al metodo di lavoro del musicista. E’ chiaro che inizialmente si è pubblicato materiale differente come stile, mentre da molto tempo ormai abbiamo creato un percorso musicale legato ad uno stile preciso che potremmo in qualche modo definire: ambient elettronico tra l’IDM, il downtempo e la sperimentazione…

Lorenzo: dipende da quale musicista intendiamo: scuramente ci sono strumenti acustici, altri elettrificati, ed in fine completamene elettronici.. In particolare gli Infant T(h)ree usano strumenti “veri”, come anche Enrico Coniglio, Halo XVI, LLS04.. Dipende dalla sensibilità e dal percorso artistico finora svolto dall’artista (o gruppo d’artisti), e dalla propria curiosità.. E’ comunque pratica sempre più comune e riconosciuta, e ci si apre a nuovi orizzonti artistici

Molti artisti di elettronica dal vivo non interagiscono con la loro strumentazione nè creano in diretta ma propongono una pappa già bell’e fatta: ha senso allora un live set?

Mirco: ti posso assicurare che l’interazione avviene eccome! Se tu prendi un file e lo vai ad incastonare all’interno di un loop che hai appena creato ritagliandolo da un campione a sua volta registrato al momento ti assicuro che stai ‘suonando’ ed interagendo con la macchina e creando suoni assolutamente non pre-confezionati. Io credo si debba sfatare questa fiaba metropolitana per cui elettronica=freddezza ed inespressività. C’è più poesia in un drone dilatato per 20 minuti che non in una canzone pop qualsiasi. La potenza dell’ambient sta proprio nel suo riuscire ad interagire prepotentemente con la tua immaginazione per portarti in territori altri, lontano dal clamore insulso della realtà quotidiana con le sue canzoncine.

Mario: Oltre alle pubblicazioni di release nel nostro sito Laverna.net, da molti anni ormai costruiamo eventi dal vivo e dunque il tema della musica elettronica nella sua dimensione live per noi è molto sentito. Per un musicista che si ripropone di eseguire esibizioni Live è una continua ricerca di una interazioni in presa diretta con il suono. Le possibilità sono infinite (interfacce, filtri, multi effetti, elaborazione in tempo reale di strumenti alettrici che entrano nella scheda audio, ecc..). Ma mentre i tuoi “colleghi” musicisti non hanno difficoltà a godersi la tua performance, la vera difficoltà secondo me è fare capire ai non addetti ai lavori che durante il tuo live-set stai davvero “suonando” mentre interagisci con queste interfecce che sono in tutto differenti rispetto ai classici strumenti musicali.

Il formato mp3 è pratico ma ammazza la qualità del suono….

Mario: mah.. non è stata trovata una risposta definitiva a questo interrogativo. Ci sono diverse opinioni. La “perdita” di qualità dei file mp3 pur essendo oggettiva è alla fine percepita soggettivamente in modo diverso. Io non sono un fanatico audiofilo. Se un brano è bello lo è anche in mp3..

Lorenzo: beh una volta era sicuramente vero, ora non più così tanto.. L’MP3 è tecnologia che è stata sviluppata dal Prof. Brandenburg nei primi anni ’90. I primi MP3, che è una tecnologia che sfrutta l’eliminazione delle frequenze superiori al limite di udibilità umana, tagliandole brutalmente nei primi esempi. Poi si son fatti passi da gigante, sia con altre tecnologie di compressione audio che ottengono una migliore percezione acustica (purtroppo è sempre quella la prova da fare.. ascoltare.. non c’è miglior giudice del nostro orecchio!), sia abbinando una straordinaria tecnica di codifica che si chiama SBR (Spectral Band Replication). Ci sarebbero poi altre tecnologie ed altri sorprendenti risultati. Però non ha molto senso scendere in particolari tecnici, credo.. E’ chiaro che l’MP3 è di qualità inferiore della qualità del CD audio, e il CD audio inferiore al vinile.. ma dati gli straordinari passi avanti che si son fatti ed (da non sottovalutare) il crescente disinnamoramento per l’audiofilia, pongono l’MP3 ancora sulla ribalta delle tecnologie di compressione, anche perché.. la fruizione probabilmente, va sempre più verso un ascolto da cuffiette e lettore mp3 sul cellulare, o suoneria per cellulare, contro un tempo in cui si bloccavano le proprie attività per ascoltare un disco (alti tempi)..

Diritti d’autore: qual è la vostra posizione al riguardo?

Mirco: in Italia siamo in fase afasica rispetto alla cultura, il ‘comportamento televisivo’ regna sovrano, l’ignoranza sta devastando la maggioranza delle giovani menti. Cerchiamo perciò di diffondere cultura nuovamente ed al meglio e senza orpelli. Noi di Laverna lo stiamo facendo.

Mario: Io sono un ultra sostenitore delle licenze libere e addirittura del copyleft, pur ritenendo sacrosanto il fatto di attribuire i crediti al creatore originario della musica. Ma non tutti i musicisti concordano su questo.
Tuttavia, come sempre, è nel momento in cui entra in gioco il discorso economico che nascono i problemi. Nel nostro caso, la scena musicale di riferimento è talmente limitata come numero di fruitori che il problema non si pone. Anzi considero la svolta “Creative Commons”, l’occasione per uscire dalle ambiguità: non ci guadagno nulla dalla pubblicazione dei miei brani (tanto era così anche prima per noi..) ma almeno resta chiara l’attribuzione dell’autore del brano e la mia musica potrà avere una maggiore diffusione rispetto a quella della tradizionali etichette..
E’ come se si stesse tornando un po’ alle origini della musica, prima dell’avvento del disco, dove il musicista otteneva i propri guadagni solo dalle esibizioni dal vivo..

Lorenzo: Beh.. per un non musicista è un po’ difficile rispondere anche per chi è musicista e vorrebbe che il mondo lo osannasse (come sogno nel cassetti, intendo). Ma, brevemente, dal mio punto di vista, il fatto che un ente dichiari di tutelare i diritti dei suoi affiliati, ma alla fine ti costringe a pagare anche per la tua musica, ricalcola le eccedenze economiche dando di più “ai ricchi” e niente ai “poveri”, ed altre cose, è quantomeno ridicolo.. La CCL, licenza sotto la quale pubblica Laverna tutti i propri contenuti, ti permette di raggiungere più persone, per la gratuità della proposta, ti permette di tutelare i diritti dell’autore, in modo non poi così tanto differente da altre forme più “pubblicizzate” (od istituzionalmente riconosciute). Detto questo, i diritti d’autore sono sacrosanti e non si può prescindere dal pensare di tutelarsi in tal senso. Poi, è giusto anche pensare se val la pena spendere dei soldi a fronte di quello che si prevede possano rientrare con lo stesso meccanismo, oppure affidarsi alla tutela con formule gratuite ma perfettamente funzionanti. Noi, con Laverna, abbiamo scelto la Common Creative License e ne siamo fieri.

www.laverna.net, www.myspace.com/lavernanet

Il golpe bianco di Berlusconi&C, la logica ridicola dei Bertolaso e Frattini, il “giornalismo” sallustiano e affini. Siamo a livelli postribolari

La cosa più grave del nuovo scandalo governativo, la pochade conclusa con le dimissioni del ministro Claudio Scajola, è quanto ci ha tenuto a dichiarare e poi ovviamente smentire il solito Silvio Berlusconi, più Papino il Breve che mai: 1) “E’ in atto un complotto della magistratura contro di me”, cioè di fatto contro il governo; 2) “In Italia c’è troppa libertà di stampa”. Detesto l’allarmismo, l’infinita serie di “al lupo, al lupo!” che ha degradato il giornalismo italiano, la qualità dell’informazione e della vita sociale, ma questa dichiarazioni del Chiavaliere sono ormai da golpe bianco.

Un capo di governo che ormai da una ventina d’anni, cioè da quando aveva incaricato Vittorio Sgarbi del killeraggio televisivo contro la magistratura, ha la fissa contro uno dei tre poteri istituzionali su cui si fonda la Repubblica italiana e qualunque Stato democratico è uno scandalo che può permettersi solo lo Strapaese. Una vergogna e un cancro ormai diffuso che nessun altro Paese civile o anche solo semi civile ha. Il Capo dello Stato dovrebbe puntare i piedi e costringere questo novello untore di dimensioni kolossal a dimettersi o comunque a piantarla. Non si vergogna Napolitano, e con lui gli altri vertici dello Stato, a figurare di fatto come capo di uno Stato dove a dire del primo ministro la magistratura ordisce complotti contro il suo governo?

E non si vergognano gli altri vertici dello Stato a figurare come vertici di uno Stato dove a detta del primo ministro in persona la magistratura, cioè una delle tre colonne costituzionali portanti del nostra assetto democratico,  da anni e anni “complotta” contro l’esecutivo? Cioè contro un altra di quelle tre colonne.

Prima di proseguire, vale la pena di notare l’imbecillità che consegue dall’uscita di Guido Bertolaso contro il film di Sabina Guzzanti, reo di “stravolgere la realtà” e “mettere in cattiva lice l’Italia”. Caro Bertolaso: se il film della Guzzanti, che è solo un film, sputtana l’Italia, che fa del buon nome e dell’immagine dell’Italia l’ossessivo sparare a zero del capo del governo contro la magistratura? Ci dica, ci dica, caro Bertolaso. Forse lei pensa che questo prolungato delirio del signor primo ministro Berlusconi faccia onore all’immagine dell’Italia? La migliora? E, immagine a parte, cosa pensa che faccia al corpo dell’Italia? Embé, certo, la spazzatura è bene nasconderla sotto il tappeto… Che deve essere sempre un tappeto rutilante, e più la spazzatura abbonda e puza e più il tappeto deve essere splendido splendente. Una filosofia e una morale del menga. Un bel tombino dorato sopra il pozzo nero. E vvaii!! Vai con il massaggino al centro polisportivo…. O con le bonazze a palazzo Grazioli.

E che ne pensa Bertolaso di un ministro come Scajola che si ritrova a sua insaputa “regalato” di una bella casa nel centro di Roma? Ce la fa fare, Scajola, una bella figura all’estero? O fa cagar dal ridere anche oltre frontiera?

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Tam Teatromusica riparte da trenta

Dall’8 maggio scattano due mesi di gran festa per i 30 anni di Tam Teatromusica: la storica compagnia padovana più che autocelebrarsi vuole riflettere e rimettere in discussione tutto il suo lavoro nato dalla relazione tra immagine e suono. Non per gli addetti ai lavori ma per il grande pubblico, fuori dalla sua “tana”, l’ex oratorio delle Maddalene in via Verdara, organizzando una mostra al centro culturale Altinate/San Gaetano (in via Altinate in centro storico a Padova), raccogliendo il suo archivio in una trentina di dvd e pubblicando una monografia. Il tutto sotto il titolo di “Megaloop”. “Non c’è nessun intento nostalgico –sottolinea Michele Sambin, padre del Tam – vogliamo piuttosto riprendere i temi della nostra lunga ricerca, fissandoli nella memoria prima che vadano perduti, per ricostruire un’altra nuova nostra opera intitolata “Megaloop””. Il loop è una tecnica musicale che permette di sovrapporre sullo stesso anello di nastro o altro tipo di supporto tante incisioni: “E’ come il nostro modo di far teatro, senza principio e fine – aggiunge Pierangela Allegro, ideatrice dei “festeggiamenti” - affidandoci alla composizione piuttosto che alla narrazione. La relazione tra immagine e suono e non il testo è il motore del nostro far teatro”.

La mostra si aprirà l’8 maggio: “L’obiettivo è quello di non limitarci alla semplice esposizione di documenti come foto, manifesti, video – spiega il curatore, Riccardo Caldura, una collaudata esperienza nel modo dell’arte contemporanea – il pubblico deve poter cogliere la creatività di chi fa teatro, conoscendo da vicino gli oggetti scenici, che saranno rimessi in gioco in alcune performance serali, affidate a diverse generazioni di attori del Tam: una sorta di “clip” teatrali di breve durata per un numero limitato di spettatori. Importante è poi la riscoperta delle radici artistiche di Sambin attraverso un centinaio di disegni preparatori dei suoi spettacoli, riagganciandosi ai suoi primi lavori degli anni ’70 a Venezia”. In programma anche altri eventi collaterali alla mostra (aperta fino al 6 giugno, ore 10-19), come conversazioni e tavole rotonde, workshop e visite guidate. Coinvolti come custodi gli studenti del Dams dell’Università di Padova, soprannominati “miniloop”. Il libro monografico (presentazione il 21 maggio alle 17) è curato dal critico Fernando Marchiori e racchiude gli scritti di Cristina Grazioli, Riccardo Caldura, Antonio Attisani e Veniero Rizzardi. L’Archivio Tam, che verrà presentato al pubblico il 18 maggio alle 17 e resterà consultabile in mostra, raccoglie in 30 dvd 74 opere dal 1980 al 2009. Infoweb www.tamteatromusica.it.