Meno akribeia e più oikonomia nella questione del celibato dei preti cattolici
Per attenuare il peso delle accuse che la stampa mondiale rivolge alla questione della pedofilia del clero cattolico, negli ambienti conservatori vaticani si va diffondendo l’idea che questo male sia più attinente all’omosessualità che non al celibato del clero. Come dire: vi sono più pedofili tra gli omosessuali in generale che non tra i preti cattolici in particolare.
Eppure i casi di pedofilia non riguardano i preti sposati. Perché dunque la chiesa romana è così restia a concedere il matrimonio ai preti? E’ l’unica chiesa al mondo che al clero secolare chiede l’assoluto celibato, salvo la dispensa che, obtorto collo ovvero per calcolo politico, concede a quei sacerdoti di rito bizantino o slavo che si dichiarano sottomessi al papa.
Nel nostro paese i preti cattolici sposati sono circa 10.000 (i celibi circa 35.000) e si riconoscono in varie associazioni (p.es. “Hoc Facite”, ma la più importante è “Vocatio” e il suo sito www.vocatio2008.it).
Ormai difendono la loro causa non solo autorevoli critici del Vaticano come p.es. Hans Küng (vedi il suo articolo su “La Repubblica” del 5/03/2010), ma anche esponenti di altissimo rilievo dello stesso mondo cattolico, come p.es. Schoenborn, Martini, Etchegaray, Hummes e altri cardinali, proprio alla luce dell’esperienza di oltre 100.000 preti che nel mondo hanno lasciato il sacerdozio a causa dell’atteggiamento ufficiale del papato verso la sessualità (e sono circa 1/4 di tutti i preti cattolici del mondo; negli ultimi 25 anni circa mille all’anno si sono spretati).
Perché continuare su questa assurda akribeia millenaria e non adottare invece il principio dell’oikonomia delle altre confessioni cristiane? Un principio che si basa sul noto assunto paolino secondo cui “è meglio sposarsi che bruciare”(1Cor 7,9).
* * *
E’ dai tempi del Medioevo euroccidentale (ufficialmente dal 1139, col Concilio Lateranense II) che si avanti con questa storia del celibato dei preti. Ancora oggi, se si legge un qualunque manuale di storia medievale, là dove si parla di corruzione del clero, l’autore mette sullo stesso piano il clero simoniaco con quello concubinario, senza rendersi conto che i preti hanno potuto sposarsi per almeno un millennio (e quelli ortodossi lo possono ancora oggi).
E’ vero che col Concilio romano del 386 venne per la prima volta stabilito che vescovi e sacerdoti sposati non potevano più convivere con le proprie mogli, ma questa norma fu ampiamente disattesa durante tutto l’alto Medioevo. Tant’è che i preti (cattolici), ancor prima che venisse fuori il decreto ufficiale, si risolsero a ricorrere all’unione di fatto (concubinaggio o nicolaismo), proprio perché si vietava loro d’avere una moglie legittima. La concubina non era l’amante ma la donna con cui si conviveva senza legalizzare l’unione. Ebbene, ancora oggi questa cosa dagli storici viene considerata scandalosa, mentre appare loro del tutto normale che i vertici ecclesiastici impedissero al clero di sposarsi.
Forse pochi sanno che per la chiesa romana il matrimonio è diventato un sacramento, da celebrarsi obbligatoriamente dal sacerdote, solo col Concilio di Trento. Prima non era neppure considerato un “sacramento” o comunque per legalizzare l’unione in ambito cattolico era sufficiente il consenso libero degli sposi. Questo perché sin dai primi padri della chiesa cattolica (Agostino, Girolamo ecc.), il matrimonio è sempre stato visto come una sorta di “peccato”, per quanto veniale fosse. Figuriamoci se lo si poteva tollerare in ambito chiericale!
* * *
E pensare che basterebbe rifarsi all’antica tradizione cristiana, sancita da vari documenti conciliari, per dirimere la controversia nella maniera più semplice possibile.
I canoni regolamentavano la cosa in maniera abbastanza precisa e nella sostanza, cioè nonostante alcune variazioni dovute allo scorrere del tempo, la chiesa ortodossa s’è mantenuta fedele ad essi.
Facciamo alcuni esempi. Il regolamento base (preso dal Nuovo Testamento) prevedeva l’accesso a qualsiasi grado dell’ordine sacro (diaconato, presbiterato e episcopato) da parte di chiunque avesse contratto un matrimonio legale una sola volta dopo essere stato battezzato (1Tim 3,2).
Si preferiva che i preti fossero sposati proprio per evitare eventuali usi impropri della sessualità, anche se la carriera episcopale, a partire dal VI Concilio ecumenico, si decise di riservarla soltanto ai monaci, che avevano l’obbligo della castità. Chi voleva diventare sacerdote restando celibe, non poteva più sposarsi, altrimenti sarebbe stato ridotto allo stato laicale. A dir il vero un prete poteva chiedere il divorzio per accedere alla carica episcopale, ma la moglie doveva essere consenziente e non poteva più risposarsi (poteva farlo solo se il marito sceglieva di diventare monaco).
Le uniche vere restrizioni (su cui oggi si potrebbe discutere), in campo matrimoniale, erano riservate più che altro alla donna, in quanto se uno voleva diventare sacerdote non poteva sposare una vedova o una ripudiata (che praticamente venivano considerate allo stesso livello), né una prostituta o una schiava (anche queste, grosso modo, messe sullo stesso piano) e neppure un’attrice, perché questa, esponendosi sulle scene, diveniva moralmente una donna di tutti. A meno che – beninteso – la donna non avesse cambiato completamente vita in virtù del battesimo, che quella volta veniva somministrato agli adulti, essendo una cosa seria e non, come oggi per la chiesa romana, uno strumento di rilevazione statistica.
La chiesa antica non impediva le nozze ai sacerdoti, però esigeva da parte loro una condotta irreprensibile. P.es. in caso di adulterio da parte della donna, questa, anche se si fosse pentita, era destinata a subire la separazione, oppure se fosse stata perdonata dal marito sacerdote, costui sarebbe stato ridotto allo stato laicale e all’interno della chiesa gli si sarebbe offerto un lavoro amministrativo. Lo stesso gli sarebbe successo se, in seguito a un’improvvisa vedovanza, avendo dei figli minori da accudire, avesse deciso di risposarsi. Inoltre era vietatissimo al prete sposare una propria nipote o, nel caso della propria moglie defunta, la sorella di lei.
Nella chiesa romana, a tutt’oggi, l’unica concessione che è stata fatta, oltre quella del matrimonio per i sacerdoti uniati, è stata l’abolizione del celibato obbligatorio per i diaconi non intenzionati a diventare sacerdoti.