Peter Gabriel, cover da camera
Anni di astinenza e poi finalmente arriva un nuovo disco, ma non sazia. Peter Gabriel non ritrova la vena creativa a sessant’anni – pretendiamo troppo? – e reinterpreta canzoni altrui, in versione da camera. Niente basso né batteria né ritmiche etniche che tanto care gli furono. Parte bene, e come potrebbe essere altrimenti, con un capolavoro: “Heroes” è bella sempre e comunque, dolente come piace a Gabriel – gli archi mi ricordano Philip Glass, da risentire l’integrale dei suoi quartetti suonati dal quartetto Paul Klee – o gioiosa come l’ha voluta Craig Armstrong in “Moulin Rouge”. Una riuscita “The boy in the bubble” di Paul Simon al rallentatore è affidata soprattutto al piano, “Mirrorball” degli Elbow si apre a sonorità più sinfoniche. E poi? Meglio lasciare ai Talking Heads la nervosa “Listening wind”, “The power of the heart” alla voce inimitabile di Lou Reed e “Street spirit” ai Radiohead, il resto sono ed erano canzoni minori e mediocri e Gabriel non le salva dall’inutilità. E dalla noia.
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