Il vero e l’intero
Nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, per dire che “il vero è l’intero” Hegel mostra un esempio di grande squisitezza: “Il boccio scompare nella fioritura e si potrebbe dire che quello viene confutato da questa; similmente, all’apparire del frutto, il fiore viene dichiarato una falsa esistenza della pianta e il frutto subentra al posto del fiore come sua verità”.
Il vero è l’intero nel senso che solo dopo aver constatato un certo sviluppo, si può dire che cosa sia una determinata realtà e quale sia la sua verità.
Detta così, sembra una banalità, ma se l’applichiamo alla teologia, contiene un aspetto alquanto eversivo. L’assoluto, cioè dio, può essere dato, nella filosofia hegeliana, solo alla fine di un determinato processo, non certo prima. Concetti come “principio”, “cominciamento”, “creazione”… non sono che vuote astrazioni. Persino dio deve prima “incarnarsi” per essere qualcuno; e “incarnarsi” per Hegel poteva significare solo una cosa: “negarsi”.
Ciò che resta uguale a se stesso e non si nega, non vale nulla, anzi è nulla, in quanto mera astrazione, la cui vuotezza al massimo può essere intuita, certamente non compresa, e quel che non è intelligibile, è inutile, vacuo. Su questo Hegel scherzava poco.
Da qui all’ateismo come postulato di qualunque pensiero metafisico il passo era breve, ma lo faranno soltanto i suoi discepoli più radicali.
Hegel era stato comunque il primo a capire che il significato della vita, dei suoi valori e soprattutto della libertà (il principale dei suoi valori) sta nella negatività che va superata, cioè nella contraddizione che deve trovare una mediazione, un punto di raccordo col suo opposto.
Tuttavia, dire che la vera verità si ha solo nell’interezza della realtà, è come dire che la verità assoluta non può mai essere compresa, poiché nessuno è in grado di dire – se non giusto Hegel, che però su questo fu sempre molto contestato – quando la realtà ha raggiunto la propria interezza (che per lui coincideva con la Prussia del suo tempo, di cui il proprio idealismo voleva rappresentare la quintessenza teoretica).
L’Umanesimo e il Rinascimento non sono forse nati dopo mille anni di Medioevo? E allora perché gli intellettuali, gli artisti erano convinti che le loro basi stessero nell’antichità greco-romana? E se dopo altri mille anni di epoca moderna si tornasse al Medioevo, cosa dovremmo pensare? Qual è la verità della storia se la parabola conclusiva di una civiltà fa recuperare lo stile di vita, la cultura, la mentalità della civiltà precedente?
Il senso della storia sta forse nel rivivere il passato in forme e modi non coincidenti, ma semplicemente simili, equivalenti? E se invece stesse nella necessità di fermare questo continuo andirivieni, cercando una soluzione relativamente stabile?
Noi sappiamo che il servaggio s’è formato a causa dei limiti insopportabili dello schiavismo e che la modernità (col suo profitto economico e la finzione egualitaria del diritto) s’è formata a causa della crisi del servaggio, ripristinando in un certo senso la schiavitù, con la variante del rapporto salariato, in cui il lavoratore è formalmente libero. Il problema però è appunto quello di trovare una soluzione che ci impedisca di rimpiangere il passato o di illuderci di poter avere un futuro radioso.
Noi dobbiamo star bene nel presente, dobbiamo cioè fare in modo che il concetto di “intero” possa trovare il suo riscontro nel presente, in modo da poter aver chiari i limiti entro cui bisogna vivere per affermare la verità delle cose.
Dopo seimila anni di civiltà dovremmo aver capito cosa è bene e cosa è male per noi umani. Non è possibile sostenere che alla verità non possiamo arrivarci finché l’intero non si sarà realizzato.
Infatti, anche solo per via negativa, vedendo i risultati nefasti delle tante civiltà, già sappiamo in maniera relativamente sicura che per ottenere la liberazione umana occorre la proprietà comune dei mezzi produttivi, il rispetto della libertà di coscienza, la tutela dell’ambiente naturale ecc.
La verità assoluta è un concetto astratto, filosofico: ci basta conoscere la differenza tra verità soggettiva e oggettiva, cioè tra arbitrio e necessità. Il processo della negazione della negazione non dovrebbe durare all’infinito, poiché se da un lato dà speranza, dall’altro angoscia. E’ infatti avvilente pensare che debba sempre esserci una negatività da superare.
Non è possibile che l’uomo non riesca a trovare pace con se stesso, che sia sempre indotto a negare la propria umanità, per poi necessariamente doverla recuperare. Anche perché in tale processo di continuo superamento del negativo non si è mai sicuri al cento per cento di aver scelto l’opzione più giusta, quella definitiva.
Spesso il superamento è solo illusorio, è solo una modifica della vivibilità della contraddizione che più ci affligge: l’antagonismo sociale. Non viene negata la sua sostanza, ma soltanto le sue forme, finché nuove forme creano l’esigenza di un loro nuovo superamento.
Il superamento della negatività non può essere una questione di forma, lo sforzo di un diverso adeguamento dell’io alla realtà. L’essere umano ha bisogno di certezze. Non possiamo sentirci obbligati da chissà quale destino a vivere tutte le forme possibili della negatività, prima di arrivare a capire qual è la verità delle cose.
La negatività potrebbe anche essere così forte da non permetterci di porre più alcuna domanda.
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