La forza della coscienza (in rapporto a pena e pentimento)
Nessuno potrà mai dire a qualcuno: “Toglimi la coscienza”. La coscienza può essere manipolata, ingannata, circuita, sedotta, ma non può essere in alcun modo eliminata. Neppure la morte, che è solo trasformazione della materia in altra materia, lo può.
La coscienza è l’autoconsapevolezza della materia. Il luogo in cui può esprimersi è appunto quello della materia, e può farlo in infiniti modi: coi sensi, i sentimenti, l’istinto, la ragione…
Noi siamo destinati a sviluppare la nostra coscienza, per cui, anche nel caso in cui avessimo commesso delitti orrendi, i più spaventosi che si possano immaginare, l’unico modo per stare in pace con la propria coscienza, è pentirsene.
Non è vero che l’angoscia viene quando si prende coscienza della propria colpa, quando ci viene chiesto di ammetterla pubblicamente, quando ci si pente del delitto, del crimine, del reato compiuto. Al contrario, l’angoscia è tanto più forte quanto più sale il livello di coscienza pubblica del senso di umanità che si deve rispettare. Tardare l’autocritica, il proprio pentimento, al cospetto di una società in cui il livello di moralità è in costante aumento, significa soltanto illudersi di poterla fare franca, significa perdere tempo con lo sviluppo della propria coscienza, significa rischiare inutilmente la propria emarginazione.
Se il livello di moralità cresce, la società saprà perdonare i propri carnefici. Se i carnefici non si pentono, non trovano motivo per farlo, significa che il livello di moralità è ancora molto basso. E se è molto basso, non vi è poi tanta differenza tra vittime e carnefici. Sono le vittime, i loro parenti e i loro figli che, rinunciando alla vendetta, al rancore, all’odio personale, devono alzare il livello di moralità di una società, proprio per indurre i colpevoli a pentirsi.
Se un colpevole avverte che la società sarà in grado di perdonarlo, più facilmente egli sarà indotto a pentirsi, a dire la verità delle cose. Chi si pente può risparmiarsi la punizione prevista dalle leggi, che è sempre irrisoria a confronto di quella che il colpevole dà alla propria coscienza non pentendosi. Le punizioni andrebbero date soltanto a chi non si pente, ma contestualmente ai tentativi, reiterati, di indurlo a pentirsi, proprio per risparmiargli il carcere o altre pene.
Bisogna anzi fare attenzione a non esagerare con le pene, quelle troppo dure o che si protraggono eccessivamente nel tempo, poiché possono diventare un alibi per non pentirsi. Stando in isolamento carcerario, il detenuto non si sente più colpevole ma vittima di un sistema che vuole esercitare la sua vendetta su di lui. Dunque perché pentirsi quando il carceriere non manifesta alcuna umanità?
Il carcere dovrebbe avere una funzione transitoria, momentanea, da utilizzarsi per impedire al colpevole di ripetere nell’immediato i propri crimini. In realtà il detenuto va reintegrato nel contesto sociale, invitandolo a pentirsi pubblicamente, a testimoniare le ragioni del suo comportamento, a spiegare le motivazioni, gli impulsi, i ragionamenti che vennero fatti in occasione del reato o del delitto compiuto.
Non ci potrà mai essere alcun pentimento se non si permetterà al colpevole di chiarire il proprio comportamento. E in ogni caso, anche se il colpevole non volesse pentirsi, è necessario ugualmente offrirgli la possibilità di un reinserimento sociale. In fondo nessuno può sapere quando uno in coscienza è davvero pentito di quello che ha fatto. L’importante è metterlo in condizione di nuocere il meno possibile, cioè di privarlo di tutti i poteri oppressivi che aveva al momento di delinquere.
La cittadinanza dovrebbe essere disponibile alla reintegrazione del colpevole, ma va comunque tutelata e in tal senso essa deve fidarsi che il colpevole, una volta scarcerato, non ripeterà il proprio crimine. Ovviamente non può esistere al 100% una certezza del genere, ma d’altra parte anche il colpevole deve fidarsi che la società voglia davvero reintegrarlo.
A partire dal momento in cui un colpevole viene catturato e imprigionato, e gli si fa il vuoto attorno, per impedirgli di continuare a delinquere per mezzo di altri che stanno fuori del carcere, la società diventa più forte di lui e smette, almeno indicativamente, di avere paura. Ebbene, quello è il momento in cui la società deve fare il primo passo per avvicinare il detenuto con l’intenzione di reintegrarlo. E il modo migliore di farlo è organizzare dibattiti pubblici in cui egli possa avere la possibilità di chiarire la propria posizione, la possibilità di spiegare la causa della propria delinquenza, la sua volontà di pentirsi e la sua disponibilità a cambiare vita.
La collettività deve potersi fidare di uno che si espone pubblicamente e si assume delle responsabilità. Essa deve anche manifestare una certa disponibilità ad accettare l’idea che tra le cause della delinquenza di quel colpevole, vi possano essere dei concorsi di colpa da parte di qualcuno (inclusa la stessa vittima). Le colpe, in genere, non stanno mai solo da una parte, ma sono sempre frutto di circostanze complicate, i cui protagonisti sono molteplici.
Se un detenuto prende coscienza che, in mezzo alla società, qualcuno è disposto ad assumersi le proprie responsabilità in relazione alla di lui colpevolezza, il detenuto ne trarrà giovamento, sarà più disposto a pentirsi, a non ripetere il proprio reato o delitto o crimine.
Se poi il colpevole non avverte alcuna necessità di pentirsi, e la società non avverte alcuna necessità di reintegrarlo, preferendo punirlo col carcere, i reati e i delitti saranno destinati ad aumentare, sino al punto in cui qualcuno chiederà di esercitare la pena di morte, che nel passato venne abolita proprio perché considerata inutile come deterrente, semplicemente perché di fronte ad essa il colpevole non si ha più nulla da perdere (non a caso là dove esiste per un omicidio, l’assassino ne può fare indifferentemente molti di più). Un colpevole riterrà lo Stato un nemico istituzionale e cercherà di combatterlo in tutti i modi.
Quanto più si userà la forza per punire, tanto più la userà chi vorrà delinquere. Chi è più forte: la società o il singolo? la società o il gruppo? Se i gruppi vogliono distruggere la società, questa deve armarsi e difendersi, con o senza l’intervento dello Stato, il quale generalmente viene avvertito dalla società come un corpo estraneo, inutile, se non nocivo. Ma appena ottenuta la vittoria, la società deve organizzarsi in maniera tale che i delitti e i reati non si ripetano, e questo è un compito che deve svolgere il più forte, usando solo la forza della coscienza.
Non ha alcun senso lottare e vincere se poi non si pongono le condizioni per smettere di lottare.
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