L’identità di sé e la torre di Babele
L’identità sembra esserci data, ma di sicuro non sappiamo quale sia. Le nostre sembianze mutano di continuo, e spesso anche le idee, i comportamenti, i gusti… Se guardiamo le foto di quando avevamo pochi anni, ci riconosciamo solo perché siamo abituati a guardarle, ma chi ci rivede a distanza di tanti anni, stenta a credere che siamo proprio noi. Cos’è dunque che fa la nostra identità? Che cosa ci caratterizza in modo permanente? Che cosa, propriamente parlando, permette quel “riconoscimento” che non dipende da luoghi e circostanze?
Ogni volta che ci guardiamo allo specchio, vediamo qualcosa di diverso: aumentano le rughe, i capelli bianchi, gli occhi si appesantiscono… La “persona” è la stessa, diciamo, ma cosa vuol dire “persona”? Il cristianesimo dice che la l’identità è personale, ma se le fattezze cambiano di continuo, che cosa rende uguali a se stessi? che cosa ci fa unici e irripetibili? Davvero c’è qualcosa di immutevole in noi? Oppure siamo destinati a subire eterni cambiamenti? “Eterni” davvero o è soltanto un modo di dire? Noi p.es. avvertiamo con disagio la vecchiaia, la debolezza che ne consegue, la lentezza dei movimenti, l’incertezza o la fatica con cui facciamo le cose.
Nel corpo umano deve esistere un momento in cui lo sviluppo è massimo, dopodiché inizia il declino. Perché non riusciamo a fermarci in quel preciso punto? Se esiste una prosecuzione di questa vita terrena, chi non desidererebbe poter tornare ad essere com’era da giovane? Chi non vorrebbe avere la maturità di un adulto, come solo l’esperienza può dare, con la forza e la bellezza della gioventù, come solo la natura può permettere? E chi non vorrebbe poter modificare (in meglio ovviamente) ciò che anche da giovane non gli soddisfaceva?
Non potrebbe essere che l’identità sia soltanto il frutto di vari desideri che maturano col tempo? Ma se è così, cioè se, in definitiva, i desideri hanno un’importanza fondamentale per la realizzazione di sé, allora dovrebbero averla anche per il nostro aspetto fisico, per le sembianze carnali che noi vogliamo ci caratterizzino (se io sono nato cieco non voglio soltanto avere la vista, ma anche nuovi occhi, p.es. scuri come quelli di un bambino africano, e voglio che tu sia messo in grado di riconoscermi con questi nuovi occhi).
Tutti noi sappiamo che la realizzazione dei desideri incide molto sulla nostra psicologia, sul modo che abbiamo di esprimerci, di relazionarci… Qualcuno potrebbe anche desiderare d’essere più diplomatico, meno diretto, proprio perché, per quanti sforzi faccia, su questa terra non vi riesce, se non in minima parte. Ma per quale ragione dovremmo rinunciare alla materialità della vita fisica nella definizione della nostra futura identità? L’invecchiamento dovrebbe essere soltanto una cosa dello spirito, non del corpo. Se uno si sente giovane e ha ancora voglia di vivere, di lavorare, di produrre, di riprodursi… perché deve invecchiare nel fisico? La vecchiaia dovrebbe soltanto essere la conseguenza del rifiuto dei nostri migliori desideri, quelli conformi a natura.
Probabilmente l’origine di tutte queste domande dipende dal fatto di non rendersi conto di quanto sia sbagliata la parola “identità”, che di per sé, purtroppo, tende a escludere la “diversità”. La persona è fatta di desideri e di libertà; la libertà è il modo e lo strumento per realizzarli, nella consapevolezza che le cose col tempo possono cambiare e che quanto si realizza non può essere ottenuto a scapito dei desideri altrui.
“Essere se stessi” in fondo non vuol dire nulla, se non si è capaci di essere “altro da sé”, o quanto meno se non si è capaci di cogliere l’altro come “diversità”. Siamo identici e diversi, siamo e non-siamo, siamo essere e siamo nulla, o meglio siamo soltanto qualcosa, poiché nulla è creato e nulla distrutto, ma tutto trasformato.
E’ l’aut-aut che va abolito. La libertà, coi suoi desideri, non può accettare l’identità senza la diversità. Gli omosessuali spesso accusano gli eterosessuali di non accettare la diversità; eppure, se ci pensiamo, l’omosessualità appare come un rifiuto istituzionalizzato della diversità di genere nel rapporto di coppia. Il concetto di “diversità” o di “alterità” non può mai essere ipostatizzato.
Ognuno di noi è nello stesso tempo “sé” e “altro”. Definire una volta per tutte chi è “emittente” e chi “ricevente” significa impoverire al massimo la dialettica nel rapporto umano. Noi siamo fatti anzitutto e soprattutto di libertà, la quale rende possibile ogni cosa.
La libertà deve soltanto capire quando i desideri sono umani e naturali. Noi dunque siamo una tabula rasa che viene modificata dall’esperienza, e la natura ci permette di capire quali di queste esperienze possono davvero giovarci e quali no. Solo che per poterlo capire occorre che i desideri siano sani e che la libertà venga usata nel migliore dei modi: cosa che non può certo essere definita a priori e tanto meno una volta per tutte.
Per poter capire al meglio il significato di tutto ciò, occorre vivere un’esperienza sociale in cui i desideri e la libertà di un individuo non siano antitetici (almeno non in maniera irreparabile) a quelli di un altro, cioè non siano così contraddittori da determinare, ad un certo punto, la rottura del collettivo, la crisi traumatica dei suoi interessi generali.
L’identità ci è data, ma a condizione di viverla in un’esperienza i cui valori siano condivisi, altrimenti è solo un’astrazione. Tutti parlano di identità, ma riferendosi a cose completamente diverse, come se vivessimo sulla torre di Babele.