Dalla Repubblica all’Impero: una transizione ancora possibile?

Con questo governo di centro-destra vien spontaneo chiedersi se stiamo assistendo agli ultimi colpi di coda della prima Repubblica o se invece non si stia formando un nuovo modo di fare politica.
In che cosa consisterebbe questo modo nuovo? Anzitutto nel fatto che il premier, una volta eletto dai cittadini, vuole considerarsi al di sopra delle istituzioni. Esattamente come gli imperatori romani, che non tenevano in alcuna considerazione le tradizionali istituzioni statali, preferendo puntare sull’esercito, su propri funzionari di fiducia, sul consenso demagogico delle masse e, indirettamente, su quello dei grandi proprietari terrieri, per i quali decisivo era il fatto che nessuna istituzione politica minacciasse il loro enorme potere economico (gli imperatori infatti si limitarono a togliere loro soltanto il potere politico).
L’esercito dava al principe la sicurezza relativa alla propria incolumità, alla società la difesa dell’ordine pubblico e all’impero quella dei confini. I funzionari, nominati personalmente dal sovrano, garantivano da possibili tendenze autonomistiche, specie nelle lontane province. Il populismo serviva invece per contrastare i reiterati tentativi, da parte delle istituzioni formalmente democratiche (la maggiore delle quali era il senato), di riprendersi il potere politico perduto o almeno di ridurre in maniera significativa quello dell’imperatore.
Il marcato individualismo degli imperatori si traduceva in un inevitabile culto della personalità, che non raramente sfiorava l’idolatria.
A quel tempo i mezzi e i modi per garantirsi il consenso delle masse erano la costruzione di imponenti edifici pubblici, la cui realizzazione richiedeva ingente manodopera, la possibilità di fare carriera politica, militare, amministrativa in maniera molto rapida, ma anche di poter frequentare luoghi di ozi e di divertimento che prima erano appannaggio di pochi, e così via. La ricchezza doveva essere, apparentemente, alla portata di tutti e nessuno doveva avere l’impressione che l’impero fosse terribilmente in crisi. Cosa che invece fu chiarissima a partire dal III secolo.
L’esigenza di una leadership imperiale assunse particolare consistenza proprio quando terminarono le imponenti rivolte schiavistiche. L’ultima significativa fu quella di Spartaco, mentre tutte quelle che avvennero nella fase imperiale, non riguardarono l’Italia, ma le province, cioè le colonie, dove il motivo prevalente era l’esosità fiscale dello Stato, che gli imperatori cercheranno di mistificare concedendo ai “provinciali” diritti pari a quelli dei “cittadini romani”.
Al tempo di Diocleziano l’esercito raggiungeva le 600.000 unità e il potere politico aveva quattro corti da mantenere (tetrarchia). Per difendere i confini dell’impero si era ripristinata la leva obbligatoria, pur senza rinunciare a un esercito di professionisti. Questo perché da tempo i ribelli interni all’impero si trovavano sempre più spesso a fare combutta coi barbari che vi premevano dall’esterno. Persino gli imperatori, piuttosto che cimentarsi in dispendiose guerre di frontiera, preferivano chiedere ai barbari di entrare nelle file dell’esercito romano, difendendo, contro altri barbari, gli stessi confini che prima cercavano di valicare.
La figura “magica” dell’imperatore non nasce per reprimere la resistenza degli schiavi, ma perché la gestione statale del senato stava mandando in rovina gli stessi cittadini romani, appartenenti a classi meno abbienti di quelle latifondistiche e imprenditoriali. Il senato non era minimamente in grado di difendere le categorie più deboli dalle vessazioni di quelle più forti, sicché, per cercare di risolvere questo problema (che fece scoppiare non poche guerre civili), invece di puntare sulla vera democrazia si preferì un’aperta dittatura.
Sotto questo aspetto le dittature fasciste che l’Europa ha sperimentato nel corso del XX sec., esprimono una sorta di “neo-imperialismo” in stile romano. Probabilmente se il nazifascismo non avesse perduto la guerra contro l’Urss, in Europa non avremmo avuto soltanto un quarantennale franchismo.
La differenza fra le dittature nazifasciste e quella che si sta profilando adesso è che le prime erano anzitutto un’espressione di forza militare, che doveva rimediare agli effetti disastrosi della I guerra mondiale e al tentativo di rovesciare il sistema borghese con una rivoluzione comunista (come già era avvenuto in Russia); la seconda invece si serve prevalentemente di strumenti mediatici, non avendo un forte nemico “in casa” con cui fare i conti. Entrambe comunque si ergono ufficialmente a difesa del popolo oppresso, frustrato nelle proprie aspettative e, ufficiosamente, a tutela del grande capitale: le prime soprattutto industriale e agrario, la seconda soprattutto bancario e finanziario.
E’ singolare tuttavia che l’imperialismo romano sia nato da esigenze tutte interne al sistema, la prima delle quali consisteva nel fatto che la riduzione notevole delle terre da conquistare (a causa dell’opposizione germanica, sarmatica, persiana ecc.), acuiva inevitabilmente i conflitti sociali interni, che non riguardavano soltanto quelli tra liberi e schiavi, ma anche e soprattutto, nella fase imperiale, quelli tra deboli e forti, all’interno della categoria dei cittadini “liberi”.
Gli imperatori non nascono perché i barbari premevano ai confini, né per le ribellioni schiavili e neppure per la resistenza dei cristiani. L’impero nasce perché il senato non era più in grado di controllare i conflitti sociali, cioè d’impedire che andasse in miseria una grande fetta della popolazione giuridicamente “libera”, vessata dai grandi proprietari terrieri, dai funzionari corrotti, dagli speculatori, dagli usurai e dal fiscalismo statale. E’ proprio questa popolazione che, mentre fino a qualche tempo prima era disposta a combattere contro schiavi, barbari e cristiani, ad un certo punto si trova a simpatizzare per costoro.
Avendo dalla loro parte gli eserciti (oggi diremmo i mass-media), gli imperatori pensavano di avere un potere illimitato e facevano di tutto per ostacolare le vecchie istituzioni di potere, che contro l’autoritarismo dei singoli sovrani opponevano quello delle vecchie classi sociali. Quanto più s’afferma l’idea di “dominatus”, tanto più la tradizionale classe dirigente cerca di liberarsene.
Gli imperatori erano apprezzati per le loro doti militari ma non erano amati dai senatori come leader politici, anche perché non avevano fatto alcuna carriera politica, spesso anzi provenivano da ceti molto umili, erano di origine non italica, tendevano – come facilmente fanno i militari – a semplificare le cose, a uniformarle, fidando nel fatto che le classi sociali alla base della loro popolarità non amavano le complicazioni della politica.
Erano uomini d’azione, che mostravano sui campi di battaglia il loro valore, sicché mentre sul piano politico preferivano applicare il principio dell’adozione nella loro successione, piuttosto che quello dinastico-ereditario, su quello amministrativo preferivano il principio della nomina personale di funzionari strettamente legati alla loro volontà.
Quello del senato e degli imperatori era lo scontro tra un arbitrio contro un altro arbitrio, e se nell’area occidentale ciò avrà effetti catastrofici per le sorti dell’impero, nell’area orientale invece la cosa si risolverà, per altri mille anni, facendo in modo che la chiesa cristiana svolgesse un ruolo di mediazione tra le istanze imperiali e la popolazione, senza che essa arrivasse a pretendere alcun ruolo politico. Cosa che nella realtà occidentale non riuscirà ad avvenire, in quanto la chiesa romana si sentirà sempre in opposizione alle istanze governative civili.
Gli imperatori furono una soluzione sbagliata a un problema mal posto. Fingendo di stare dalla parte del popolo oppresso, dapprima opponendosi ai senatori, in seguito sfruttando l’idea di una cristianità universale, essi usarono l’impero come una mucca da mungere, promettendo cose irrealizzabili e restando impotenti nei confronti della corruzione dilagante, delle tendenze centrifughe molto forti nelle province e soprattutto nei confronti della sfiducia verso le istituzioni.
Sarà proprio questo atteggiamento arrogante, assolutamente refrattario a riconoscere le cause della crisi sistemica, che indurrà le popolazioni locali a fidarsi solo di se stesse, ad abituarsi a vedere il “nemico” nella propria stessa patria e a rinchiudersi in un sistema sociale dove l’autogoverno e l’autoconsumo iniziarono a giocare un ruolo di rilievo.

7 commenti
  1. Follotitta
    Follotitta says:

    Caro Galavotti, la sua analisi del sistema imperiale romano e’ molto interessante e condivisibile. Ci sarebbe da ricordare che i vari imperatori, sin dai tempi di Augusto, mantennero formalmente intatto l’istituto senatoriale. Con la conseguenza, come giustamente sottolinea lei, di intaccare solo il potere politico e non quello economico di una classe sociale che, volente o nolente, fu sempre puntello del grezzo sistema di potere dell’ impero. Ed e’ con lo sgretolamento sociale della classe aristocratica e la perdita di consistenza del suo potere economico che l’ impero romano imbocca la via inesorabile della propria fine e la storia inaugura un nuovo capitolo intitolato Medio Evo o, come forse piu’ propriamente dicono gli anglosassoni, Dark Age.
    Ma quello su cui avrei voluto si fosse soffermato di piu’ e’ la attinenza fra il sistema impero romano e quello della destra italiana. Lo ha appena sfiorato e lo ha ricondotto solo alla anacronia di un leader che per proteggere i propri interessi cavalca con spregiudicatezza il risultato di intere stagioni di malcostume politico. Che appunto viene da lontano ed e’ sempre difficile, nei suoi fiumi affluenti e rigagnoli, da analizzare ed elaborare, sopratutto da quella parte politica che in teoria gli si dovrebbe opporre.
    Continuero’ a leggerla con piacere, trovando, ne sono sicuro, le risposte, quasi tutte, che cerco. La saluto e ringrazio. Follotitta.

  2. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Personalmente faccio fatica ad attribuire un valore sicuro al giudizio di quegli analisti politici che vedono nel berlusconismo l’ultimo colpo di coda della prima repubblica.
    Secondo me ci sono almeno due elementi che rendono questa modalità di governare assolutamente inedita rispetto alla prima repubblica: 1. l’uso fortemente politico dei mass-media (dei quali il più importante è la tv) per promuovere direttamente un determinato programma (a dispetto quindi dei congressi, dei convegni, del rapporto tra correnti interne al partito); 2. il rapporto diretto che il premier dice di avere col suo elettorato e che si sente titolato a usare in funzione anti-istituzionale.
    Quindi secondo me il berlusconismo da un lato esprime la corruzione politica della prima repubblica (esplosa con “mani pulite” e riassorbita impunemente dal sistema), dall’altro però ha inaugurato uno stile che, pur privo di mezzi non violenti (dal punto di vista militare), sta creando le condizioni per una riedizione, riveduta e corretta, del passato fascismo.
    Si tratta ora di capire se questo modello può trovare dei successori al “trono” (perché in fondo di una sorta di “monarchia” si tratta, seppur formalmente costituzionale), in grado di utilizzare i media con la stessa spregiudicatezza e di avere pari ascendente sul popolo, ovvero se per mantenerlo in piedi, in assenza di questa nuova figura carismatica, si sia costretti a ricorrere a mezzi più estremi e violenti (e dentro il pdl vi sono elementi che potrebbero benissimo farlo); oppure se i cittadini, resisi conto della demagogia populista del berlusconismo (che rischia di portare lo Stato alla bancarotta, non essendo in grado di tenere i conti sotto controllo, alla esasperazione dei conflitti sociali tra industria, sempre più delocalizzata, mondo finanziario indifferente alle sorti del paese e mondo del lavoro, non in grado di reggere il globalismo, il valore eccessivo dell’euro, i debiti ecc., fino alla rottura dei rapporti tra gli organi istituzionali dello Stato, ivi inclusi quelli tra centralismo statale, sempre più forte, e regionalismo, sempre più debole, e persino a una guerra ideologica tra credenti sempre più integralisti e laici sempre più in aumento, per non parlare del rischio di una guerra civile tra nord e sud, tra italiani e stranieri, tra ceti che in mezzo alle crisi s’arricchiscono sempre più e la dilagante miseria), a meno che dunque non vogliano, i suddetti cittadini, rivendicare maggiore democrazia.
    A questo punto però il discorso da fare è tutto sul concetto di “democrazia”, in quanto se lo circoscriviamo entro il mero orizzonte politico (e i politici però altro non sanno fare), non usciremo mai dai rischi di una riedizione del berlusconismo.
    Una democrazia che non sia solo politica ma anche sociale deve per forza essere vissuta su scala ridotta (locale), proprio perché si deve aver modo di rispettare la libertà di tutti. Oggi la politica è solo un’attività per i ceti benestanti e se anche il parlamentare non era benestante, quando ha iniziato la sua carriera, sicuramente (con gli stipendi e i privilegi che hanno) lo è diventato e diventandolo si è inevitabilmente distaccato dal vivere comune delle masse.
    Io sono addirittura arrivato alla conclusione che una democrazia veramente “sociale” non possa essere vissuta all’interno di uno Stato o di una Nazione. Una democrazia politica statuale è inevitabilmente formale, fittizia. È la democrazia parlamentare della classe borghese, come sono “borghesi” i concetti di Stato e Nazione.
    All’interno di uno Stato esistono le “istituzioni”, che rendono inevitabile l’esercizio della delega del potere e delle funzioni. Ma la democrazia o è diretta o non è, e se è diretta, deve esserlo a tutti i livelli: politico, sociale e culturale, e nella pienezza di tutti i suoi poteri.
    È dunque evidente che una democrazia del genere implica che sul piano socioeconomico viga l’autoconsumo, che è l’unica modalità che garantisce piena autonomia a qualunque comunità.
    ciaoooo

  3. Follotitta
    Follotitta says:

    Caro Galavotti, anche io credo che il belusconismo abbia poco o niente a che fare con la 1ma repubblica. E questo perche’ sono convinto che esso piu’ che un movimento politico sia una associazione di tipo elitario (una riedizione in chiave esecutiva della famigerata P2?), che ha poco o nulla a che fare con i propri elettori. Per questo a me risulta difficile fare paragoni. Con chi poi, con Cesare piuttosto che con Augusto, che era un politico piu’ che raffinato? Ma Cesare aveva bene in mente, se non il bene per cui combattere, il male da contrastare, e cioe’ l’ oligarchia senatoria con cui non era disposto a quei compromessi che avrebbero spianato la strada del potere imperiale ad Ottaviano Augusto. Berlusconi, da buon populista, il male se lo e’ dovuto inventare di sana pianta, ricorrendo a quel comunismo ormai morto e sepolto, che gia’ con la fine della guerra si era inborghesito ed aveva accettato pienamente le regole del confronto democratico ed istituzionale in una forma piu’ realista del re. Ed in quanto al bene, a parole e propangandato da tutti i telegiornali, quello del proprio paese, nei fatti qualcosa di molto piu’ personale, visto che nel frattempo la povera Italia e’ scesa sempre piu’ nella scala dei parametri economici e sociali degli istituti che studiano queste cose.
    Lei ha ragione a domandarsi sul dopo e giustamente paventa che ai danni irreversibili lasciati da un potere personalistico e demagogico non possa che far seguito un potere assolutista di tipo fascista. Come a dire che solo i militari e le squadre della morte possano succedere a Peron. Ma anche se Berlusconi non e’ Cesare e quindi non si prospetta una successione di tipo augusteo, L’Italia non e’ neanche l’ Argentina, almeno per adesso. Ci sara’ anche una opposizione con cui 1ma o poi bisognera’ pur fare i conti. Io non sono d’ accordo con l’affermazione di Montanelli che sosteneva che il nostro e’ un paese essenzialmente conservatore e che nulla e nessuno puo’ cambiarne la natura. In Italia c’ e’ sempre stata una forte opposizione al predominio della destra ed almeno 1/3 della popolazione ha idee progressiste. Questa opposizione ha sempre contato poco perche’ politicamente divisa, e’ andata avanti a forza di distinguo e scissioni, sfuggendo alle proprie responsabilita’ propositive. E allora?
    La sua idea di una democrazia che superi il concetto di parlamentarismo borghese per sfociare in una autonomia comunitaria basata sull’autoconsumo mi puo’ trovare perfettamente d’ accordo, anche perche’ vivo in un paese, gli SU, in cui il po’ di democrazia che c’ e’ e’ sopratutto a livello locale. Ma lei, caro Galavotti, non accenna minimamente a come attuare questa che, secondo me, e’ una drastica rivoluzione culturale. Ed in un paese che anni di berlusconismo hanno ridotto all’ analfabetismo morale, e’ dura. Bisognera’ 1ma cambiare la mentalita’ della gente e per far questo bisognerebbe che le forze progressiste si radichino sul territorio in modo da incidere positivamente sulle varie realta’ locali. Cosa che oggi puntualmente non avviene.
    Ma mi faccia continuare la sua sempre gradita lettura e se ne puo’ riparlare. Cordiali saluti. Follotitta.

  4. Enrico Galavotti
    Enrico Galavotti says:

    Io le crisi le guardo in maniera favorevole, non come i politici, che ne parlano (peraltro di continuo) solo allo scopo di giustificare la loro necessità di esistere, di governare per gestire appunto le crisi (risolverle sarebbe già una pretesa eccessiva), o anche di stare all’opposizione per dimostrare che il governo non è in grado di farlo (sicché la minoranza fa di tutto perché la maggioranza non le risolva).
    Questo gioco delle parti è funzionale soltanto alla sopravvivenza di un ceto sociale che non potrebbe mai ammettere che le crisi vanno considerate utili per superare un sistema in cui la politica fine a se stessa andrebbe abolita.
    D’altra parte s’è mai visto un politico “istituzionalizzato” capace d’interpretare la crisi come occasione per superare il privilegio che fa di lui un cittadino separato dagli altri, sulla testa del quale le crisi (economiche) hanno un impatto infinitamente minore?
    Se esistessero politici avveduti e lungimiranti, dovrebbero esser loro i primi a dire al paese che questo sistema di vita è soltanto autodistruttivo, per cui le crisi non gli sono congiunturali ma strutturali.
    Se un politico avesse la percezione che gli antagonismi che viviamo (tra uomo e uomo, tra uomo e donna, tra uomo-donna e natura, tra uomo-donna occidentali e resto del mondo) non sono risolvibili in maniera definitiva nell’ambito di questo sistema, farebbe proposte per uscire non semplicemente dalle crisi bensì dal sistema.
    Ora, siccome il sistema nasconde le proprie assurdità dietro miraggi, ipocrisie e vuote promesse, l’unico modo perché la gente si renda conto d’esser cieca dietro altri ciechi, è quello di sperare che le crisi siano sempre più gravi. In fondo le rivoluzioni sono state fatte proprio nei momenti in cui la vivibilità aveva raggiunto livelli incredibilmente bassi.
    Dunque, quando parlo di “autoconsumo” non m’illudo ovviamente che il sistema possa tollerare al proprio interno un’alternativa così radicale alla dipendenza dal mercato (oggi peraltro sempre meno controllabile, essendo globalizzato al 100%).
    Dico soltanto che, andando avanti di questo passo, l’autoconsumo sarà inevitabilmente un’idea da riconsiderare, proprio come fecero i Romani durante la gravissima crisi del III sec. o come fecero i socialisti utopisti quando videro le devastazioni prodotte dal neonato capitalismo industriale nelle città e nelle campagne.
    Bisognerebbe però parlarne, almeno astrattamente, prima delle rivoluzioni, onde evitare che ci si arrivi concretamente dopo aver sparso fiumi di sangue. In Urss, durante i 70 anni di socialismo reale non se ne parlò mai, e infatti oggi ne vediamo le conseguenze: sono passati da un socialismo da caserma a un capitalismo selvaggio.
    In questo momento, al massimo, potremmo pensare a istituire delle cooperative aventi come scopo precipuo quello di garantirsi un’autosufficienza alimentare la più ampia possibile.
    Autoconsumo potrebbe anche voler dire indurre le imprese di un determinato territorio a produrre anzitutto per soddisfare bisogni locali, prima che quelli nazionali o mondiali.
    Può anche voler dire passare direttamente dal produttore al consumatore, saltando la filiera dei 40 ladroni che speculano senza far nulla, impongono i prezzi che vogliono e hanno il vantaggio di far pagare l’iva dei loro prodotti a chi compra, che è la parte più debole.
    Autoconsumo può senz’altro voler dire cercare anzitutto di utilizzare al meglio le risorse del proprio territorio, accedendo a quelle esterne solo in casi imprescindibili (in Italia p.es. dovremmo puntare molto di più sul sole che non sul petrolio).
    Può anche voler dire, p.es., finalizzare gli studi scolastici e universitari alla valorizzazione di queste risorse locali, eliminando tutta quella formazione astratta e accademica che non ha una ricaduta mediata o immediata su detta valorizzazione.
    I programmi ministeriali andrebbero sostituiti con quelle decisi dalle comunità locali (cioè dagli Enti Locali Territoriali, che sono sicuramente molto più efficienti del nostro Ministero e che meriterebbero di gestire direttamente le nostre tasse).
    Insomma quanto meno forte è la gestione verticistica della società, tanto meglio sarà per tutti.
    ciaoooo

  5. Online Banking Security
    Online Banking Security says:

    @chels I know what you mean, its hard to find good help these days. People now days just don’t have the work ethic they used to have. I mean consider whoever wrote this post, they must have been working hard to write that good and it took a good bit of their time I am sure. I work with people who couldn’t write like this if they tried, and getting them to try is hard enough as it is.

  6. apartament
    apartament says:

    Po co wiele pleść… Bardzo dobrze napisany artykuł. Wpadłam do Ciebie przez przypadek klikając w wyszukiwarkach, ale masz we mnie od dzisiaj stałego czytelnika :) siema

I commenti sono chiusi.