A quali condizioni è possibile un ritorno al comunismo primitivo? (IV)

Ora, cerchiamo di capire, con esempi concreti, come poter uscire da questa empasse epistemologica.

Innanzi tutto noi dovremmo partire dal presupposto leniniano secondo cui l’operaio non è più rivoluzionario del contadino proprio perché è privo di tutto, eccetto la propria forza-lavoro, e anche perché non ha rapporti con la chiesa. In sé l’operaio – diceva Lenin – al massimo ha una coscienza sindacale. Per avere una consapevolezza della necessità di un superamento dell’intero sistema, nella sua globalità, occorrono gli intellettuali, che devono persuadere gli operai a non illudersi di poter migliorare la loro condizione di sfruttamento limitandosi a chiedere aumenti salariali e altri diritti di tipo sindacale.

Gli stessi dirigenti sindacali tendono inevitabilmente al riformismo. Per avere una coscienza rivoluzionaria bisogna saper fare della politica uno strumento per abbattere il governo in carica e rovesciare il sistema.

In quanto intellettuale, Lenin rappresentava, non meno dell’operaio, l’uomo completamente sradicato dalle tradizioni della terra. Ma, a differenza degli altri intellettuali di sinistra, non riteneva necessario che si formasse un enorme proletariato nazionale prima di pensare a come rovesciare il sistema. Secondo lui era sufficiente scardinare i gangli dei principali centri urbani, ove si gestiva tutto il potere politico-istituzionale. Una volta occupati con la lotta questi centri, il resto sarebbe venuto da sé: operai e contadini avrebbero capito molto facilmente che, diventando gli effettivi padroni dei loro mezzi produttivi, non avrebbero avuto motivo di rimpiangere l’autocrazia zarista.

Lenin era un politico e tale restò sino alla fine della sua vita, salvo gli anni in cui s’interessò di economia (per contestare i populisti e ampliare il Capitale con l’analisi dell’imperialismo) e di filosofia (per sviluppare le tesi hegeliane sulla dialettica e contestare gli empirio-criticisti).

Lenin purtroppo morì giovane, a 54 anni, di cui gli ultimi due vissuti con grandissima fatica. Anzi, tutta la sua vita fu vissuta in condizioni molto difficili, non solo per l’attentato terroristico, che lo segnò in maniera irreparabile, ma anche per il carcere siberiano (tre anni) e per il lungo esilio (16 anni): egli non ebbe il tempo materiale per fare altro che politica. Al pari di Marx e di Engels, ci lasciò un metodo di lavoro, non una dottrina da imparare a memoria.

Egli era sicuramente più interessato alla pratica politica che non alla teoria economica (per lui la politica era una “sintesi” dell’economia); della rivoluzione gli premevano di più gli aspetti tattici e strategici che non quelli meramente critici. C’era molta differenza tra lui e Marx. Se Machiavelli inventò la scienza borghese della politica, Lenin ha inventato quella proletaria, infinitamente più democratica.

Uno sradicato come lui, che aveva capito l’inutilità del terrorismo solo dopo aver visto giustiziare il fratello, e che per tutta la sua vita si pose come unico obiettivo quello di abbattere lo zarismo, risparmiando ai propri connazionali la sciagura della guerra mondiale e le nefandezze dell’oppressione capitalistica, che dovette organizzare immediatamente la difesa contro la reazione dei “bianchi”, appoggiati dall’interventismo straniero, dove poteva trovare il tempo per occuparsi del lavoro culturale? Alla fine della sua vita, sapendo benissimo dell’importanza di questa cosa, scrisse di sperare che altri lo facessero e che gli pareva ingiusto essere stato criticato per non averlo fatto.

Anche su questo, in effetti, aveva ragione: una volta compiuta la rivoluzione politica, avrebbe dovuto essere più facile compiere il lavoro culturale. Ma così purtroppo non è stato. Gorbaciov s’è lamentato che dal 1991 ad oggi il socialismo democratico non ha neppure fatto un passo in avanti: possiamo aggiungere che non l’ha fatto non solo sul piano politico, ma neppure su quello culturale.

Quando si parla di democrazia, si trascura completamente il socialismo, e quando si parla di socialismo, si ripetono tesi che hanno fatto il loro tempo. Lenin diceva che non ci può essere una politica rivoluzionaria senza una teoria rivoluzionaria: oggi possiamo aggiungere che una teoria, per essere davvero rivoluzionaria, non può fare a meno della cultura. Non avrebbe senso rifare una rivoluzione comunista per ripetere errori già compiuti.

Una cultura davvero rivoluzionaria – ecco l’aspetto che avrebbe messo in crisi anche uno come Lenin – non può essere elaborata da chi non ha alcun rapporto con la terra. Gli sradicati, coloro che vivono nelle città, quanti dispongono soltanto della propria forza-lavoro (manuale e/o intellettuale) per sopravvivere, nel migliore dei casi possiedono un grandissimo desiderio di liberazione, ma non possono avere il senso di una memoria di liberazione.

Lo si capisce semplicemente guardandoli difendere il diritto al lavoro, che per loro deve prescindere da qualunque preoccupazione di tipo ambientale. Il rispetto dell’ambiente rientra nell’ambito della sicurezza sul lavoro, ma non ha riferimenti prioritari alla tutela della riproduzione della natura. Questa viene concepita soltanto in funzione degli interessi dell’uomo.

A quali condizioni è possibile un ritorno al comunismo primitivo? (III)

Ci sono alcuni nodi che in Europa occidentale non abbiamo ancora saputo sciogliere, nonostante ormai due secoli di socialismo teorico e per certi versi anche pratico, ancorché nei limiti che conosciamo:

  1. l’odio nei confronti delle tradizioni (cultura e coltura) contadine, che oggi peraltro abbiamo quasi completamente distrutto, ovvero reso folcloristiche (utili per il turismo o per la nostalgia delle generazioni più anziane), quando non sono state addirittura incanalate in una produzione esclusiva per il mercato;
  2. l’indifferenza nei confronti delle questioni religiose, in luogo di un loro affronto culturale di tipo ateistico: il timore di cadere nell’anticlericalismo giacobino ha impedito alla sinistra di sviluppare l’umanesimo laico e, indirettamente, ha favorito l’ingerenza del clero negli affari civili, nonché il collateralismo dei partiti politici ai valori religiosi, per ottenere l’appoggio della chiesa;
  3. l’incapacità di vivere un’esistenza di tipo collettivistico, in quanto domina incontrastato l’individualismo borghese;
  4. l’eccessiva importanza data alla scrittura (che oggi è anche videoscrittura) rispetto ai rapporti umani;
  5. il rapporto feticistico che abbiamo nei confronti della scienza e della tecnica;
  6. l’esigenza continua che abbiamo di possedere qualcosa di materiale come forma di status symbol (o di identificazione personale);
  7. il bisogno di darci continuamente dei miti per sopportare meglio le frustrazioni della vita quotidiana.

Questi e altri condizionamenti hanno fatto sì (e la cosa è evidente anche in Marx ed Engels) che in Europa occidentale la sinistra radicale abbia del tutto trascurato il fattore del “libero arbitrio”, ovvero l’elemento soggettivo nelle scelte in direzione dell’alternativa. La sinistra è come se fosse in fase di attesa, non si preoccupa minimamente di organizzare un consenso di massa, è convinta di avere in tasca la soluzione magica alle fondamentali contraddizioni del sistema borghese, per cui, quando vede approssimarsi all’orizzonte il rischio di gravi catastrofi sociali o ambientali, assume l’atteggiamento di chi, dopo tante sconfitte, è in procinto di prendersi una meritata rivincita. Non si rende conto che la borghesia è così forte che, in assenza di una vera alternativa, sa sempre fare delle catastrofi ch’essa stessa produce, un’occasione per diventare ancora più forte.

Non solo, ma quando dice di voler fare un’opposizione radicale al sistema, la sinistra tende sempre a scindersi in tanti gruppuscoli rivali tra loro, ruotanti attorno a un unico leader carismatico, la cui funzione alla fine è proprio quella di dimostrare che la sinistra non ha alcuna alternativa praticabile.

Il Papa assolverà il Papi? Dati i (nostri) molti altri quattrini in ballo per le scuole private, cioè cattoliche, è quasi certa una nuova “pro stitùtio” della Chiesa. Del resto il bue non può dare del cornuto all’asino

Il motivo per cui la Chiesa alla fine farà finta di nulla e continuerà a dare spago a Silvio Berlusconi nonostante le critiche crescenti da Famiglia Cristiana alla Cei, è molto semplice e concreto: il ministro della Pubblica (d)Istruzione, tale signora Gelmini, vuole estendere a livello nazionale ciò che già è pratica corrente nella sua amata Regione Lombardia: vale a dire, regalare soldi pubblici a chi decide di mandare i figli alla scuola privata. Che in Italia è quasi sempre cattolica. Teniamo presente che la Regione Lombardia ha dato nell’ultimo anno ben 44 milioni di euro di sussidi a chi manda la prole alle private, cioè “dai preti” o “dalle monache”. Moltiplicando 44 per il bel numero delle regioni italiane salta fuori una cifra decisamente di tutto rispetto, dirottata dalle nostre tasche e da aggiungere ai più o meno 2 miliardi di euro che la Chiesa già incassa a vario titolo dal remissivo Stato italiano. Insomma, un altro modo per finanziare il Vaticano, ovvero quella Chiesa che non perde mai l’occasione per invadere la nostra vita politica, condizionare i politici condizionabili, e sono molti, anzi troppi, riducendo di conseguenza sempre di più la laicità della Repubblica italiana e di conseguenza la nostra libertà di cittadini italiani. Continua a leggere

A quali condizioni è possibile un ritorno al comunismo primitivo? (II)

Detto questo, viene ora da chiedersi che fine abbia fatto l’intuizione leniniana secondo cui una politica rivoluzionaria può modificare sostanzialmente dei processi storici oggettivi, apparentemente inevitabili. Guardando la parabola involutiva del “socialismo reale”, verrebbe da dire che la sua tesi era completamente fuorviante e che, in definitiva, avevano ragione quei marxisti da lui combattuti, quando dicevano che, prima di realizzare il socialismo, occorre che si affermi il capitalismo, cioè quel sistema produttivo in grado di spazzare vie tutte le resistenze provenienti dal mondo rurale (e religioso, poiché quest’ultimo si basa sull’ignoranza e la superstizione dei contadini).

In realtà Lenin aveva ragione nell’attribuire alla politica una funzione non meno rivoluzionaria di quella dello sviluppo di tipo capitalistico. Quello tuttavia che non si spiega è il motivo per cui, dopo la sua lezione, non si siano avviati degli studi per comprendere che, nell’ambito della sovrastruttura, non solo la politica può giocare un’influenza decisiva sui processi storici dell’economia, ma anche la cultura. L’unico, tra i grandi, ad aver provato a fare un’operazione del genere è stato Gramsci, ma viziandola con due limiti di fondo:

  1. Gramsci aveva nozioni molto scarse di economia politica e di storia dell’economia, per cui, quando affronta il tema della sovrastruttura, mette prevalentemente in rapporto la cultura con la politica e non la cultura con l’economia;
  2. quando inizia a scrivere i Quaderni, Gramsci era un uomo politicamente sconfitto, sicché tutta la sua analisi sulla necessità di conquistare l’egemonia culturale prima di quella politica è visibilmente idealistica. Il socialismo, in realtà, non ha alcuna possibilità di conquistare l’egemonia culturale finché il possesso dei mezzi di comunicazione resta saldamente in mano alla borghesia, e se anche riuscisse a conseguire questo obiettivo, conservando le proprie istanze rivoluzionarie, dovrebbe in ogni caso passare a una rivoluzione istituzionale, in quanto i governi borghesi non cadono da soli. Il socialismo non può limitarsi a rendere meno gravosa una determinata forma di sfruttamento, pretendendo di razionalizzare un sistema antagonistico.

Quello che oggi manca non è soltanto una politica di sinistra che martelli quotidianamente i partiti conservatori sulla loro gestione fallimentare dell’economia, ma anche una cultura socialista che cerchi di capire come le idee, nella storia, hanno influenzato i processi storici.

Nonostante la piena destalinizzazione, ancora oggi si ha a che fare con una sinistra radicale che considera la sovrastruttura un epifenomeno della struttura, o che, nel migliore dei casi, si limita a utilizzare, della sovrastruttura, soltanto l’aspetto della politica, impoverendo enormemente la possibilità di fare un discorso molto più allargato. Il quale, si badi, non diventa tale soltanto quando si vanno a ricercare in talune espressioni dell’ideologia religiosa o idealistica (si pensi solo alle eresie medievali) delle anticipazioni, più o meno confuse, del socialismo scientifico. Facendo un’operazione del genere (che resta gramsciana), difficilmente p.es. si arriverebbe a capire che influì molto di più sulla nascita del movimento borghese, nell’Italia comunale, l’astratta teologia scolastica, che riduceva l’esperienza della fede a una mera dottrina filosofica, che non la ripresa dei commerci con l’oriente islamico.

Non è un caso, in tal senso, che la sinistra non abbia ancora recepito, in profondità, i temi ambientalistici e anteponga a questi, sempre e comunque, quelli economici della produttività e del lavoro; non è un caso che, ogniqualvolta essa affronta gramscianamente i temi culturali, smetta d’essere rivoluzionaria; non è un caso che, quando svolge una politica operaista, si frantumi in mille rivoli e finisca col chiudersi in un ghetto autoreferenziale; non è un caso, infine, che quando la sinistra preferisce una politica più moderata, vicina agli interessi dei ceti medi, non abbia assolutamente nulla di socialista, neppure il riformismo degli utopisti pre-marxisti.

Ci si può altresì chiedere il motivo per cui l’erede della tesi marxiana secondo cui il protestantesimo costituiva la religione più appropriata per lo sviluppo capitalistico, non sia stato un altro marxista, ma un sociologo borghese: Max Weber.

Dunque cos’è che ha impedito al marxismo di svolgere un’operazione culturale che mettesse in luce il ruolo specifico della sovrastruttura? Possibile che ogni volta che si affronta il nesso di economia e cultura, mostrando come questa possa influenzare quella, si debba rischiare di cadere nell’idealismo di matrice hegeliana? Cos’è che ci impedisce di sviluppare il marxismo, senza tradire la necessità di una transizione al socialismo democratico?

Se in occidente non riusciamo a capire il motivo per cui tendiamo pedissequamente ad accentuare il primato della struttura sulla sovrastruttura, o il motivo per cui, quando, analizzando quest’ultima, smettiamo d’essere rivoluzionari, noi continueremo ad avere, nei confronti dello sviluppo capitalistico, un atteggiamento del tutto rassegnato o, a seconda dei casi, del tutto illusorio, in quanto restiamo convinti ch’esso crollerà da solo, a causa delle proprie interne contraddizioni.

Cosa che in realtà non accadrà mai, proprio perché senza una reale e fattiva opposizione, che metta in chiaro un’ipotesi di superamento radicale dell’esistente, la borghesia non farà altro che curare le ferite delle proprie sconfitte, per poi tornare in campo più forte di prima. Basta guardare cosa è accaduto con la I guerra mondiale, col crack del 1929, con la II guerra mondiale e con la contestazione operaio-studentesca del 1968-69: ogni volta c’era la possibilità di una svolta radicale e ogni volta la si è sprecata.

Se il PD riuscisse a sciogliere l’enigma gay

Nella faticosa corsa alla segreteria Pd, molti, dentro e fuori il partito, valutano quello che un leader-candidato potrà mettere a disposizione delle proprie speranze e ambizioni. E’, in un certo senso, la guerra delle lobby, ora sindacali, ora sui temi etici come su quelli delle minoranze sessuali. Si sceglie così di appoggiare nella futura assise nazionale Pd, Franceschini o Bersani o Ignazio Marino. Bruciata sul nascere per una “simpatia” verso Franceschini, la improbabile candidata, Debora Serracchiani e con lei altre ineventuali candidature femminili. Il Pd resta un corpo macho, tutto coniugato al maschile, con nomi più o meno di spicco che fanno da aureola ai tre candidati maschi.

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A quali condizioni è possibile un ritorno al comunismo primitivo? (I)

Bisogna ammettere che né il Marx delle Formen né l’Engels dell’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato riuscirono a capire che la transizione dal comunismo primitivo allo schiavismo non ebbe alcun carattere naturale o necessario, ma, al contrario, un carattere particolarmente violento. E questo nonostante che proprio loro avessero chiarito una volta per tutte che i processi dell’economia borghese andavano considerati come “storici” e quindi destinati a un’evoluzione che li avrebbe portati alla fine.

Il motivo di questa incomprensione è dipeso da un preciso limite epistemologico interno alla loro concezione materialistica della storia, quello secondo cui i processi economici hanno un primato assoluto su ogni altro fenomeno sociale e non esiste sovrastruttura in grado di modificarli. Tutto il processo storico viene spiegato sulla base del livello delle forze produttive e del loro nesso coi rapporti produttivi, che quando diventa insostenibile, determina la necessità di un radicale mutamento di struttura.

La sovrastruttura può giocare un ruolo di legittimazione del processo o di contrasto, ma non può impedire un determinato corso storico, che ha proprie leggi oggettive, indipendenti dalla volontà umana. I processi storici sono in fondo dei processi naturali basati sulle leggi della dialettica, che Hegel aveva scoperto (la negazione della negazione, dalla quantità alla qualità, la compenetrazione degli opposti). La transizione da una formazione sociale a un’altra diventa, ad un certo punto, quando tutte le potenzialità produttive si sono esaurite, un fatto inevitabile. Anche la borghesia ha la pretesa di far passare il capitalismo come un fenomeno naturale, ma la differenza dal marxismo sta appunto nel fatto ch’essa non vede la necessità del suo superamento.

Come noto, questa visione deterministica della transizione fu rovesciata da Lenin, il quale sosteneva che attraverso la politica rivoluzionaria si poteva impedire che in Russia si formasse il capitalismo, passando direttamente dal feudalesimo al socialismo, senza rinunciare alle acquisizioni tecnico-scientifiche della borghesia. I bolscevichi avrebbero dovuto realizzare non solo il socialismo ma anche l’elettrificazione di tutto il paese.

Lenin diceva che gli operai, abituati a difendere i loro salari, non potevano avere una coscienza della fattibilità di questa transizione, però se venivano aiutati dagli intellettuali, avrebbero potuto dare facilmente il loro consenso. Quanto ai contadini, sarebbe stato sufficiente assicurare loro la proprietà della terra.

Erano semmai gli intellettuali di sinistra, quelli che si richiamavano al marxismo, e i populisti, quelli che consideravano la comune agricola il baluardo più forte contro la penetrazione del capitalismo, i più difficili da convincere.

Infatti la lezione marxista ufficiale era tutta favorevole allo sviluppo capitalistico della Russia, onde permettere la nascita di un significativo proletariato industriale e lo sviluppo di un livello culturale tale da permettere il superamento delle influenze conservative delle tradizioni religiose. La lezione dei “marxisti legali” e degli “economicisti” era tutta deterministica, in linea con le tesi del Capitale e delle altre opere marxiane di economia politica.

In un certo senso Lenin fece una “rivoluzione contro il Capitale“, come disse Gramsci, ma non fino al punto da negare la necessità di attribuire all’industria un primato sull’agricoltura. Per tutta la sua vita egli considerò gli operai superiori ai contadini (in un paese che al 90% era rurale) e non mise mai in discussione né che fosse indispensabile avviare un’imponente e immediata rivoluzione industriale, né che la produzione economica dovesse essere controllata dallo Stato. Tuttavia, finché rimase in vita cercò di non inimicarsi le simpatie dei contadini, i quali, grazie al suo Decreto sulla terra, erano finalmente riusciti a diventare padroni dei lotti che coltivavano.

A onor del vero va detto che se non ci fosse stata la guerra mondiale e se questa non fosse stata catastrofica per la Russia, nessuno avrebbe preso in considerazione le sue tesi. Chiunque si dichiarasse marxista, considerava indiscutibile credere nel fatto che se una formazione sociale non ha esaurito tutte le proprie potenzialità, è impossibile che venga superata dalla successiva. Tutti erano convinti che il socialismo non avrebbe mai potuto svilupparsi in Russia senza prima passare per le forche caudine del capitale. Marx ebbe un ripensamento soltanto nell’ultimissimo periodo della sua vita, venendo a contatto coi populisti, e ponendo come condizione per un salto epocale dal feudalesimo al socialismo che quest’ultimo si realizzasse preventivamente nella parte occidentale dell’Europa.

Infatti gli unici a credere che il capitalismo non si sarebbe sviluppato in Russia, in quanto la comune agricola non gliel’avrebbe permesso, erano i populisti, con cui il giovane Lenin aveva profondamente polemizzato, dimostrando che il capitalismo in Russia sarebbe stato inevitabile e che anzi era già in atto nelle grandi città. Resta tuttavia singolare che proprio nel momento decisivo della rivoluzione del 1917, Lenin facesse suo il programma dei populisti (o meglio, dei menscevichi) relativo alla gestione collettiva della terra.

Purtroppo lo stalinismo non ebbe questa flessibilità nei confronti dei contadini (né l’avrebbe avuta il trotskismo, beninteso), per cui non si fece alcuno scrupolo nel far pagare a loro tutti i costi di una rivoluzione industriale e urbana che si volle imponente e accelerata, dietro il pretesto che, in caso contrario, non si sarebbe potuto reggere il confronto coi progressi dei paesi euroccidentali e nordamericani, e soprattutto con l’ansia di non riuscire a fronteggiare un nuovo, eventuale, intervento armato straniero, come quello degli anni 1918-20.

Se la Russia non avesse avuto risorse enormi, umane e materiali, un progetto del genere sarebbe presto abortito o lo stalinismo l’avrebbe fatto pagare alle nazioni limitrofe, come fecero i paesi europei al momento del colonialismo. Non furono comunque solo i contadini a rimetterci, ma anche quei comunisti che non avevano mai pensato di fare una rivoluzione per ottenere una dittatura peggiore di quella zarista. E ci rimise anche l’ambiente naturale, la cui incredibile vastità sembrava autorizzare lo sfruttamento più indiscriminato (esattamente come avviene oggi, a dimostrazione che nei confronti della natura non esistono differenze di rilievo tra capitalismo privato e socialismo di stato).

Dalla Libia con terrore: il documentario di Andrea Segre va in onda su Rai3

Nell’intervista al regista Andrea Segre per questa rubrica parlavamo del documentario “Come un uomo sulla terra”. Vi segnalo che andrà in onda la sera di giovedì 9 giugno alle 23.40 su Rai3. Il documentario, che si è già fatto notare in molti festival e concorsi, è stato girato con Dagmawi Ymer , un immigrato etiope incontrato da Segre a Roma, nel centro gestito dall’associazione Asinitas. Insieme raccontano l’Odissea di chi vuole raggiungere l’Italia passando o partendo dalla Libia. Lo stesso Dag ha subìto ogni genere di violenza sia dai contrabbandieri che gestiscono la traversata sia dalla polizia. Non dimentichiamoci che nell’agosto 2008 Berlusconi ha firmato un accordo con l’amico Gheddafi “contro il traffico dei clandestini” verso Lampedusa. A raccontare il tragico viaggio sono alcuni migranti, prima che la Marina italiana cominciasse a respingere i loro connazionali dal maggio scorso. La sorte di migliaia di uomini e donne africane è anche al centro della campagna nazionale “Io non respingo”, promossa da Fortress Europe, da Asinitas e dallo stesso Segre. Finora sono state raccolte più di 11 mila firme, tra cui quelle di Marco Paolini, Dario Fo, Erri De Luca, Marco Baliani: è possibile aderire online sul sito http://comeunuomosullaterra.blogspot.com

La pochade berluscona continua. E la terra che continua a tremare in Abruzzo sembra una metafora e un preludio

Il continuo tremare della terra a L’Aquila pare non solo il migliore paradigma del G8 delle grandi potenze in affanno e la migliore metafora della precarietà della loro potenza e benessere, ma somiglia sempre di più a un brontolio che può diventare ruggito e se non travolgere o fare scappare a gambe levate quegli otto potenti del pianeta almeno divorarne uno: il Cavaliere da qualche nostro lettore soprannominato a ragion veduta il Chiavaliere. Solo un malato di delirio di onnipotenza e di massimo cinismo poteva decidere di organizzare in una città terremotata, e quindi destinata ad altre scosse telluriche quanto meno di assestamento, una sfilata come quella del G8. Cosa ne guadagneranno i terremotati da questa passerella di primi ministri è un bel mistero, però si è capito cosa vorrebbe guadagnarci in auto pubblicità il Cavaliere-Chiavaliere. E meno male che non gli è venuto in mente di spostare di colpo tutto a Viareggio….

Il Berlusconi nato e cresciuto nelle tv e nella pubblicità, dove si può scrivere il copione a dire le cazzate più piacevoli per fare il solletico al pubblico, ha un modo molto semplice per migliorare la realtà: negarla e sostituire ad essa un fondale di cartapesta e di lustrini, di quelli che sono la fortuna delle sue tv commerciali. E così oltre a bastonare il giornale Repubblica e minacciare in blocco la stampa estera, mossa particolarmente idiota alla vigilia dell’arrivo in Italia dei massimi rappresentati proprio dei Paesi di quella esecrata stampa estera, il padrone gozzovigliatore di palazzo Graziosi e villa Certosa comincia a tagliare le gambe anche all’Istat, rea di dire come stanno le cose riguardo la salute, malferma, dell’economia e non solo dell’economia della nostra Italia.  Del resto ai più sfugge che il Cavaliere tramite la fida e promossa ministro per meriti ignoti signora Gelmini sta demolendo a ritmo accelerato l’istituzione che più di tutte prepara le persone a poter comprendere ed analizzare la realtà, vale a dire la scuola pubblica. La politica della sconosciuta signora Gelmini, Dio solo sa perché addirittura ministro della Pubblica Istruzione, è un obbrobbrio su sui prima o poi varrà la pena tornare. Continua a leggere

i lefebvriani: “Gay come nazisti”

Ora, speriamo, Benedetto XVI prenderà posizione chiara e netta, altro che riabilitazione, riavvicinamento alla gerarchia vaticana e perdono verso i lefebvriani, quella specie di setta religiosa staccatasi dalla Chiesa ufficiale perché contraria a qualsiasi riforma voluta dal Concilio Vaticano II. L’ennesima sfida hanno pensato di rivolgerla verso la comunità omosessuale tedesca che si prepara, come nel resto del mondo, a festeggiare i Gay Pride e i 40 anni dei moti di Stonewall. La bordata dei lefrebviani tedeschi, che ha scatenato polemiche in Europa e anche da noi, è quella di aver paragonato “i gay come i nazisti”. Detto da loro,potrebbe indurci ad ilarità, ma le parole sono così forte  e vergognose da dimenticare il sorriso.

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Il tragico disastro di Viareggio è solo la punta dell’iceberg di una Italia sempre più allo sbando. Con profittatori di vario tipo oggi vincenti. Dai giudici della Consulta ai cessi dei treni di lusso ormai siamo ovunque alla perdita della decenza e del senso civico

Il disastro di Viareggio è un altro allarme, più grave del solito, del fatto che l’Italia ha il fiato grosso, è sempre più allo sbando perché i servizi pubblici, dalla scuola alla sanità, dalla televisione ai trasporti, sono sempre più assediati dagli interessi di chi punta alle privatizzazioni da spartire tra gli “amici” o almeno ad affiancarli per accaparrarsi le parti più lucrose. La concezione di servizio pubblico infatti non è più quella di creare più diritti e più occasioni per i cittadini, ampliandone la qualità della vita, bensì quella di approfittare dei servizi per lucrarci su. Una volta chi era in politica e nell’amministrazione pubblica ne approfittava anche, ovvio, come da sempre e ovunque nel mondo, però sceglieva quel mestiere perché ne era capace e gli piaceva. Oggi si va in politica e nelle amministrazioni pubbliche non per capacità e passione, e poi magari se capita anche lucrare, ma perché attirati dalla possibilità di lucrare. Si va al molino non per produrre la farina ed è ovvio che ci si infarini, cioè si intaschi un po’ di farina di soppiatto, ci si va senza saper fare farina decente e già con l’intento di infarinarsi. Ma non in quantità fisiologica, bensì patologica. E il molino intanto va in malora….

Le tangenti, le bustarelle e le creste, cioè la corruzione e l’approfittare, sono ormai diventate talmente diffusa da costituire di fatto una nuova tassa, a quanto pare non inferiore al 4% del reddito nazionale. Oppure con l’accaparrarsi la polpa migliore, come fa per esempio Comunione e Liberazione con la sanità in Lombardia, costituendo tra l’altro la base di potere anche economico del governatore della Lombardia Roberto Formigoni, e come la la Chiesa con le scuole private, sempre più foraggiate a spese dell’istruzione pubblica e in spregio alla Costituzione. Beh, certo, già la Fiat e le altre industrie padano tifavano per il colonialsimo italiano e la campagna di Russia perché lucravano ingordamente sulle commesse per le forze armate, così come gli ufficiali si lasciavano comprare per dare disco verde all’acquisto di forniture scadenti, compresi armamenti patetici e munizioni da cilecca. Con i “nostri giovani” mandati allegramente al massacro.

Il disastro di Viareggio dimostra in modo tragico come e quanto sia falsa la campagna sulla “sicurezza” lanciata dal centro destra che abbaia “al lupo, al lupo!” contro gli extracomunitari in modo da irregimentare meglio i cittadini e distrarli dai veri problemi, sempre più gravi e sempre più difficilmente risolvibili. Specie da una compagnia di giro così miseranda come quella che sempre più chiaramente e sbracatamente è la stalla e la truppa del Cavaliere, avvinta a lui come una sanguisuga o come una prostituta per spillare favori di tutti i tipi e ridicolmente in difesa dei suoi vizi da suburra o da tycoon con venature da delirio di onnipotenza, pur sul viale del tramonto verso la quarta età. Nel giorno in cui è diventata legge l’incivile normativa sul reato di clandestinità, è bene far notare che in Italia l’emergenza non è l’arrivo di extracomunitari e neppure la delinquenza che a volte si annida tra di loro, anche se in misura minore di come si annidava tra gli emigranti italiani che per esempio hanno esportato non solo le loro capacità di lavoro, ma anche la mafia negli Stati Uniti, in Costa Azzurra e altrove. La vera emergenza in Italia è il nostro record europeo di treni vecchi, vita media 22 anni!, di autostrade malmesse, per raggiungere il livello di quelle tedesche servirebbero cifre ormai proibitive, non meno di 250 miliardi di euro! La vera emergenza in Italia è si la sicurezza, ma intesa come sicurezza nei luoghi di lavoro, nei quali abbiamo il record europeo delle morti chiamate chissà perché “bianche” quando invece sono nere, nerissime.

E poi quando capita un massacro come quello di Viareggio ecco che ci infiliamo subito una bella pubblicità, allegra e sbarazzina, magari dello yogurt che rende la vita bella e snella, così chi dalla home page di un giornale vuole passare all’articolo e leggere di quel’inferno si deve sorbire almeno qualche secondo di allegria consumistica, spesso decisamente demenziale… Mors tua, vita mea, però qui si esagera. Vita et publicitas mea! Ne capitassero di tragedia come quella di Viareggio! Sai che pacchia per i banner, per gli introiti pubblicitari, per le vendite, per la spinta ai consumi… per il carnevale dei vivi e le loro anime morte. Diciamo la verità: ormai siamo fuori registro, siamo andati fuori di testa in modo allarmante. Forse più di quanto siano andati fuori binario i vagoni cisterna che hanno vomitato l’inferno nella stazione di Viareggio. Continua a leggere

Approvato il Ddl sulla sicurezza. Inizia la caccia a migranti e stranieri

Credo, sinceramente, che un Paese che dimentica la sua storia, anche la più umiliante, andrà in corso a derive pericolose; calcoli fatti male sulla pelle dei più deboli ma che investirà la stessa popolazione che su quei calcoli, cercava di poggiare le proprie, fragili sicurezze. Noi, che fino agli anni Sessanta e oltre, andavamo a cercare una vita dignitosa, su treni maleodoranti, con la valigia fermata dallo spago; noi che ancor prima ci rifugiavamo in patrie più solide e prosperose in cerca di danaro per vivere e magari di più, lasciati in quarantena come si trattasse di appestati; noi che dal sud contadino e gramo, ci riversavamo sulle promettenti Torino e Milano e quanta solitudine, quanta fatica a leggere in bella mostra sui portoni: “Qui non si affitta a meridionali”. Forse a pensarci bene, un po’ tanto razzisti lo siamo sempre stati e le vicende  dei nostri nonni o dei nostri padri, poco ci toccano e meno ci interessano.

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Da oggi a Roma riapre il Gay Village: una festa per tutti

Chissà perchè ogni volta che si parla di iniziative gay o glbt, saltano fuori come novelle margherite, problemi burocratici, permessi non consentiti, discussioni su chi, come e dove può e deve essere fatta la manifestazione. E puntuale, come ogni anno, si erano riaccese le condizioni – alcune improponibili e inaccettabili – su dove si dovesse tenere il Gay Village curato dal DiGay Project di Imma Battaglia. La manifestazione, per i pochi che non la conoscono, è oramai un appuntamento annuale estivo che, tra concerti, dibattiti, musica, divertimenti e cultura, raccoglie migliaia di persone ogni sera nella splendida cornice capitolina; osannata anche dai tanti turisti gayfriendly che si recano a Roma.

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Quante guerre e saccheggi per il controllo del petrolio. E quanta rapina nel fissare, a Londra, il prezzo del barile….

E’ arrivato in libreria il volume del quale vedete qui sopra la copertina. Lo ha scritto il mio amico Benito Li Vigni, per molto tempo dirigente dell’Eni assai vicino ad Enrico Mattei e responsabile delle strategie di quell’ente per l’area del Mediterraneo. E’ stato Li Vigni a fare riaprire a Pavia  l’inchiesta sulla morte di Mattei, inchiesta conclusa con l’accertamento che l’aereo del “padrone” dell’Eni non è caduto per cause accidentali, bensì perché fatto esplodere con una bomba. In tema di petrolio Li Vigni è uno dei massimi esperti esistenti al mondo. Nel libro, oltre a riportare pagine di storia normalmente tenute nascoste ma che è bene conoscere, traccia scenari futuri soprattutto per quanto riguarda le reali riserve mondiali di petrolio e la conseguente durata della stagione dell’oro nero. Stagione ormai avviata alla fine e che aiuta anche a capire perché tanto nostro “interessamento” all’Iran. Interessamento che, come per l’Iraq, nulla ha a che vedere col tanto nostro decantato amore per la democrazia e molto invece con i precedenti e gli interessi coloniali, nella fattispecie inglesi, e imperialisti degli Stati Uniti e dell’Occidente in generale. Il libro ha anche il merito di svelare il modo artificioso e truffaldino con il quale viene calcolato per gli acquirenti il costo del barile di petrolio per carburanti. Le Borse del petrolio sono due, il NYMEX di New York e l’IPE di Londra, ma è a Londra la sede della società PLATT’S che stabilisce il prezzo del petrolio dal quale si ricavano i carburanti. La PLATT’S prende in esame circa 130 tipi di petrolio, tra loro molto diversi, e per fare il prezzo NON si riferisce a quelli che costano meno….

Ho avuto l’onore e il piacere di essere citato nel libro tra le persone che l’autore ringrazia, dato che ho convinto l’editore Baldini-Castoldi-Dalai a pubblicarne il lavoro e ho aiutato lui a snellirlo dalle oltre 500 pagine iniziali. Perciò, per evitare mi faccia velo l’amicizia, mi limito a riportare la presentazione che l’editore fa e del libro e dell’autore.

“Benito Li Vigni, uno dei massimi esperti internazionali in fatto di oro nero, indaga a tutto campo sui legami tra «mondo del petrolio» e potere politico-finanziario e inquadra con lucida obiettività le verità nascoste che riguardano il futuro dei giacimenti, le guerre, le tensioni geopolitiche e l’uso dell’«arma petrolifera» da parte dei maggiori produttori, primo fra tutti la Russia. Lungo una sorta di cintura che lega il Sud del mondo, passando dall’Iraq al Sudan e alla Nigeria, per arrivare in Venezuela e Colombia, gli «imperi del profitto» si scontrano e si alleano, alternando una brutale violenza a subdole strategie di potere. La fame di petrolio spinge a mutamenti epocali negli assetti politici internazionali, basti pensare alla silenziosa colonizzazione cinese dell’Africa e a un evento impensabile come l’affacciarsi della flotta militare di Pechino nel Mediterraneo, o alla possibilità che Cuba ridiventi l’epicentro di nuovi sconvolgimenti legati alla contesa dei giacimenti nel Golfo del Messico. Continua a leggere