Umanesimo integrale (II)

Una cultura è tanto più profonda quanto più riflette dei valori umani universali. Un qualunque altro approfondimento specialistico è rischioso, poiché può diventare artificioso e quindi inutile alla sopravvivenza della specie umana, anzi pericoloso quando viene associato a modelli di comportamenti basati sul primato dell’individuo. Esiste sempre un limite al di là del quale è bene non andare.

Per avere la sicurezza di un rispecchiamento del genere, occorre che il soggetto viva questi valori. La sicurezza può essere solo il frutto di un convincimento interiore prodotto dalla constatazione dei fatti. La scienza può essere solo questa. Si constatano fatti trasmessi di generazione in generazione e ci si convince del loro valore.

Un socialista non può parlare di queste cose senza viverle nello stesso tempo. Anche la scrittura va rivoluzionata. Si deve scrivere solo ciò che può essere usato creativamente. Lenin, in questo senso, è stato un grande maestro. Il suo realismo, il suo senso della concretezza erano assolutamente eccezionali. Ciò che gli difettava era soltanto la capacità di tradurre i valori umani in valori politici, fino al punto da considerare questi subordinati a quelli. Lenin cioè aveva una visione prevalentemente politica della realtà; invece bisogna averla prevalentemente umana.

Lenin ha indubbiamente superato Marx sul piano politico e, con l’analisi dell’imperialismo, anche su quello economico (e l’ultimo Lenin ha aperto la strada al gramscismo, riconoscendo che la rivoluzione poteva essere fatta anche partendo non dalla politica ma dalla cultura: l’importante era realizzare un medesimo obiettivo). Ora però bisogna superare anche Lenin, edificando sulle fondamenta del socialismo democratico (inaugurato dalla perestrojka gorbacioviana) l’esperienza dell’umanesimo integrale (che ovviamente non ha nulla a che vedere con quello delineato da J. Maritain).

Non è dunque più possibile soffermarsi troppo sull’analisi: se la politica è una sintesi dell’economia, l’uomo è una sintesi di tutto. Non ci può più essere analisi senza una proposta risolutiva del problema. La sintesi dev’essere “chiusa” quanto ai presupposti scelti, la cui importanza non può essere relativizzata (p.es. non si può prescindere dalla socializzazione dei mezzi produttivi), ma deve essere “aperta” in rapporto alle soluzioni operative da ricercare. Non esiste mai un unico modo di affrontare al meglio determinati problemi.

Una sintesi “chiusa” deve impedire che uno stesso fenomeno possa essere letto in modi assolutamente opposti (può esistere p.es. una proprietà personale degli strumenti del lavoro, ma non può esistere quella privata, che escluda la proprietà altrui, altrimenti non è neanche il caso di parlare di “socialismo”).

Se e quando si verificano interpretazioni opposte di un medesimo fenomeno, che risulta fondamentale ai fini della sopravvivenza di un collettivo, inevitabilmente le proposte risolutive di determinati problemi non verranno mai prese con la dovuta serietà. Se c’è il relativismo nelle premesse, ci sarà anche nelle conclusioni. E questo tornerà soltanto comodo a chi ha un interesse di parte da far valere contro quelli collettivi.

Ci possono essere proposte diverse sul modo di affrontare uno stesso problema, ma non devono esserci due modi totalmente opposti. I modi possono essere equivalenti, convergenti, paralleli ma non opposti. Quando sono opposti è perché in realtà esistono dei conflitti di classe, degli antagonismi irriducibili, degli interessi antitetici. Magari in forma latente, ma pronti a esplodere.

Naturalmente nessuno potrà impedire che si formi un’opposizione insanabile, ma non si potrà neppure impedire che, nei limiti della democrazia, le si dia aperta battaglia. E’ giusto permettere agli uomini una scelta di campo, ma sarebbe profondamente ingiusto illuderli che la loro libertà consista solo in tale scelta. La libertà va costruita sulla scelta fatta. E chi non la condivide o accetta di stare in minoranza o se ne deve andare altrove.

In questo senso è bene chiarire che un problema non va mai affrontato né prima che si ponga né dopo che si è posto, ma nel mentre si pone. Prima è troppo presto, dopo è troppo tardi. L’uomo deve vivere nel presente. Deve svegliare il passato, che tende ad assopirsi, e deve frenare il futuro, che tende a correre.

Ma allora qual è il senso umano della storia? Ricondurre tutto a unità, perché dall’unità frantumata è nata la divisione e dalla divisione la specializzazione, la quale dell’unità non ha più alcun ricordo.
Dalla divisione sono nate le religioni. Ora, si possono ricondurre a unità le religioni? Dal punto di vista religioso no, ma da quello umanistico sì. Una religione non può essere superata (definitivamente) da un’altra religione, così come un’alienazione non può risolvere un’altra alienazione.

Una religione può essere superata solo se il credente ritrova in essa le origini umanistiche ch’erano state negate agli albori delle civiltà, ma un credente che riesce a trovare nella propria religione le tracce umanistiche da cui essa, stravolgendone il contenuto, è nata, non può che smettere d’essere credente. Può passare da una religione all’altra, ma, alla fine del suo processo evolutivo, dovrà inevitabilmente diventare ateo, poiché l’ateismo è un’espressione naturale dell’umanesimo integrale.

Si badi, qui non si vuole sostenere che la conoscenza sia inutile ai fini del benessere vitale. Per non essere “felici” come gli animali o come i pazzi, occorre sviluppare anche il lato della conoscenza. Il problema semplicemente è: fino a che punto occorre svilupparlo? Quali sono i limiti epistemologici oltre i quali è bene non andare? Esistono delle priorità da salvaguardare per la riproduzione della specie umana?

Da un lato ha torto Qoelet quando dice che la conoscenza non fa che aumentare il dolore; dall’altro però ho torto Ulisse quando vuole oltrepassare le colonne d’Ercole. La conoscenza non può essere fine a se stessa, altrimenti Qoelet ha ragione. E non si può neppure impedire con la forza ch’essa resti legata a un’esperienza in cui non si crede più, altrimenti ha ragione Ulisse. Il fatto che l’unità sia migliore della divisione non implica ch’essa debba essere imposta, altrimenti la divisione sarà sempre legittima. Il primo valore fondamentale da tutelare è la libertà di coscienza.