Umanesimo integrale (I)
Se si vuole conservare la percezione dell’unitarietà dell’esistenza umana, che è poi la risultante della capacità di saper fare, in autonomia, quanto basta per sopravvivere; se si vuole avere uno sguardo d’insieme sulla gestione della vita, mettendo in relazione causale i fenomeni tra loro, cercando soprattutto di avvertire la propria esistenza in sintonia con le esigenze riproduttive della natura e cose simili, non ci può essere un’eccessiva specializzazione della cultura.
La vera cultura sta nel conservare la globalità, l’insieme dei processi vitali del proprio essere, che è sempre un’esperienza collettiva, la quale, a sua volta, non è la somma di esperienze individuali, ma la portante di ognuna di esse. Senza collettivo il singolo è un’astrazione.
E il collettivo non può certo essere lo Stato, come voleva Hegel, che ne aveva fatto una sorta di dio in terra. Il collettivo è tale soltanto in un contesto locale, tale per cui al singolo venga assicurata la percezione della globalità della vita.
La cultura più profonda non è necessariamente legata alla scienza, alla tecnica, alla specializzazione intellettuale, ma, senza escludere aprioristicamente queste cose, anzitutto ai sentimenti umani positivi.
La miglior cultura è quella che educa al miglior comportamento, individuale e sociale. Non ha senso avere una grande cultura intellettuale senza avere una grande pratica esistenziale.
Quando l’approfondimento della conoscenza riflette una condizione di vita alienata, divisa in se stessa, e non riesce a risolvere tale alienazione, significa ch’esso è inutile, anzi nocivo, poiché distrae dal vero bisogno, illude che si possa fare a meno di risolverlo.
Certo, non ha meno senso tentare di abolire ope legis la cultura astratta, però bisognerebbe cercare di non favorirla, promuovendo soltanto quella cultura che serve per soddisfare dei bisogni esistenziali. E quando tali bisogni vengono soddisfatti all’interno di un collettivo, fare una buona cultura potrebbe voler dire aiutare altri collettivi a comportarsi in maniera analoga. A livello mondiale avremmo così tante cose da fare che non ci sarebbe neanche un minuto di tempo per interessarsi di viaggi interplanetari.
Per il bene dell’intera umanità oggi dovremmo chiederci: è forse servito ad aumentare il benessere vitale del genere umano l’aver diviso la conoscenza in tante discipline specialistiche? Se si può ammettere un certo benessere per l’occidente industrializzato, lo si può ammettere anche per il Terzo mondo sfruttato da questo stesso occidente? Si può accettare che una certa cultura rechi beneficio solo a una piccola parte dell’umanità e non serva assolutamente a nulla alla parte restante? Con la cultura specialistica il divario tra Nord e Sud invece di diminuire si è ampliato, facendo aumentare la dipendenza neocoloniale. In questo momento la malnutrizione riguarda oltre due miliardi di persone. Un miliardo di persone non ha neppure da bere acqua potabile. A cosa è servita la nostra cultura specialistica in quest’ultimo secolo?
Ma c’è di peggio. Il benessere che l’occidente ha maturato non s’è realizzato senza effetti collaterali sullo stesso occidente e, di conseguenza, sul mondo intero. Si pensi solo ai sempre più gravi fenomeni d’inquinamento ambientale, all’esaurimento di quelle risorse non rinnovabili su cui s’è voluto concentrare l’utilizzo principale dell’energia, all’alienazione conseguente all’eccessiva urbanizzazione, alle crisi periodiche di sovrapproduzione tipiche del capitalismo, alle speculazioni finanziarie dovute agli eccessi di liquidità sui mercati, alle impennate improvvise della disoccupazione causate dalle crisi economiche e finanziarie, all’esigenza periodica di far scoppiare delle guerre locali per smaltire la produzione di armi e per accaparrarsi, se possibile, le ultime risorse energetiche del pianeta, e così via.
Abbiamo preteso un benessere meramente economico, frutto di ampie conoscenze tecno-scientifiche, senza badare alle sue conseguenze sociali, ambientali e soprattutto umane. Il vero benessere non può essere determinato in alcun modo dal prodotto interno lordo, che è un indicatore quantitativo che in realtà non dice nulla su come gli effetti di questo prodotto vengono redistribuiti alla collettività, per non parlare delle conseguenze non economiche ch’esso ha generato sulle persone e sugli ambienti in cui vivono. Che senso ha essere ricchi di beni materiali (mal distribuiti, per giunta) e poveri di tutto il resto?
La nostra cultura occidentale ha questo fondamentale limite: è umanamente astratta, cioè non è in grado di risolvere i problemi concreti di un’intera popolazione locale senza far leva su risorse che non le appartengono. Noi occidentali ci muoviamo a livello nazionale sfruttando le risorse di popolazioni locali che vivono nel Terzo mondo.
Questa cosa non passa nei mass-media perché non ci torna comodo.
Eppure di esempi se ne potrebbero fare tanti. Prendiamo quello della cioccolata. I nostri paesi l’amano moltissimo. Essa viene prodotta, come materia prima, da singole comunità di villaggio africane e sudamericane, costrette, dai passati rapporti coloniali, a produrre solo questa merce, che viene venduta sui nostri mercati, ai prezzi decisi da noi, e se vogliono anche loro mangiare il cioccolato che producono devono acquistare da noi il manufatto industriale, che ovviamente ha un valore aggiunto di molto superiore. Conclusione? Più loro producono per noi e più s’indebitano. Al danno poi si aggiunge anche la beffa, poiché quando noi decidiamo di usare surrogati chimici per esigenze speculative, quelle comunità, che già avevano perduto la loro autonomia al tempo del colonialismo, si trovano letteralmente alla fame.
In Europa occidentale, al tempo della prima rivoluzione industriale, chi si arricchiva di più: il paese esportatore di lana greggia o quello importatore che la trasformava in tessuto? E quando i coloni americani volevano produrre le stesse cose degli inglesi, essendo della loro stessa nazionalità, con le loro stesse capacità e conoscenze, gli inglesi glielo permisero? Piuttosto che permettergli una cosa del genere furono disposti a perdere tutte le colonie americane. In una situazione del genere un qualunque aumento di “aiuti” alle popolazioni terzomondiali non farebbe che peggiorare la loro situazione.
La nostra cultura risolve problemi fittizi a una ristretta categoria di persone, che non ha problemi urgenti da risolvere. Per il resto essa non fa che illudere che per suo mezzo si possano risolvere i problemi concreti di tutti o che si possa comunque vivere dignitosamente nonostante questi problemi. E’ una cultura “drogata”, che propina miraggi quotidiani.
Non si può superare il limite di questa cultura semplicemente proponendone un’altra. Non ci si può limitare a fare della critica intellettuale. Perché si sviluppi una cultura effettivamente alternativa occorre un’altra esperienza di vita, in cui siano vissuti valori alternativi.
In questo il socialismo utopistico ha fallito e il leninismo ha ritenuto impossibile vivere socialmente e culturalmente dei valori alternativi se prima non si faceva la rivoluzione politico-istituzionale. In mezzo a queste due soluzioni vi è quella di Marx ed Engels, che si sono limitati a compiere un’analisi critica della struttura del sistema e quella di Gramsci, che ha compiuto un’analisi critica della sovrastruttura.
La vera cultura è solo quella che riflette valori autentici, perché realmente vissuti. E’ rischioso fare una rivoluzione politica se essa non nasce da un’esperienza che almeno in nuce già si presenti come prototipo della futura società. E’ più facile dimostrare politicamente la giustezza di determinati valori che non farlo sul piano sociale. Solo alla fine della sua vita Lenin aveva capito che non poteva trattare i contadini come una classe sottosviluppata. Il socialismo, in occidente, è nato come ideologia di intellettuali radicali borghesi, il cui elemento popolare era la classe operaia e si è sviluppato come politica riformistica (di aggiustamento delle contraddizioni del capitalismo) il cui elemento popolare sono diventati i ceti medi. Là dove il socialismo è andato al potere non ha rappresentato fino ad oggi un’autentica alternativa al capitalismo.
Non è possibile infatti creare alcuna alternativa vera al capitalismo se si prescinde dalla terra, cioè da un’esperienza in cui la terra permetta l’autoconsumo, che è la forma opposta dell’economia basata sul mercato e quindi sul valore di scambio.
Ma perché un’esperienza di socialismo agrario sia davvero politicamente “produttiva”, occorre che venga creata con l’intenzione di svilupparla come modello, di estenderla geograficamente, realizzando una rete che si ponga l’obiettivo di modificare radicalmente il sistema.
Una cultura alternativa deve essere anche politicamente rivoluzionaria, basata su un’esperienza sociale concreta, praticabile. La domanda in sostanza è: si può recuperare l’esperienza del socialismo utopistico in una direzione analoga a quella dell’autoconsumo pre-borghese (ovviamente senza alcuna forma di servaggio) all’interno di una società come quella capitalistica? In che misura questa esperienza può porsi in maniera alternativa al sistema borghese? Quali possono essere le sue condizioni di sopravvivenza?