Lettera aperta al capo del nostro governo. Più una breve considerazione sulla espulsione di Israele dalla Federazione mondiale dei sindacati dei giornalisti

Egregio signor Primo Ministro Silvio Berlusconi,

Lei ha dichiarato che “il nostro intervento in Afganistan è necessario”, così come a suo tempo ritenne necessario anche quello in Irak, che s’è visto essere invece niente affatto necessario. Non all’Italia, almeno. Desidero chiederle anche a nomi dei miei lettori perché mai, se è davvero così convinto della necessità di mandare nostri soldati a combattere nel lontano e non domabile Afganistan non ci manda Suo figlio Piersilvio. So bene che la patria potestà non è più quella di una volta, e che Lei quindi non può disporre di Suo figlio come le pare e piace, però potrebbe invitarlo pubblicamente a dare l’esempio. Per una volta tanto, anziché il solito “Armiamoci e partite!” noi italiani saremmo felici di ascoltare finalmente un inedito “Armiamoci e partiamo!”. So che lei non è uomo cinico, e che mai approfitterebbe di situazioni drammatiche per farsi pubblicità, per giunta sulla pelle di un suo familiare, però provi a pensare quale meraviglioso “effetto collaterale” avrebbe per Lei la partenza di Suo figlio soldato per l’Afganistan. Mi consenta: mica pizza e fichi!
In caso Piersilvio fosse contrario, Lei potrebbe far varare subito un’altra legge ad personam per risolvere il problema. E per rendergli più confortevole il soggiorno da bravo nostro “ragazzo in divisa” nel lontano Afganistan Lei potrebbe dotarlo anche di una bella scorta di escort. Non trova? Se fa un’altra telefonata al Suo devoto amico Giampy Tarantini vedrà che sarà felice di procuraLe anche questa “torta” e altre ancora alla bisogna.
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A quali condizioni è possibile un ritorno al comunismo primitivo? (VI)

Tornare al comunismo primitivo per noi oggi vuol dire tornare a una proprietà comune dei mezzi produttivi, in nome del primato del valore d’uso, favorendo la sinergia tra agricoltura e allevamento. L’industrializzazione deve essere ridotta al minimo indispensabile (a una forma d’artigianato), in quanto i suoi prodotti, in genere, ledono il diritto della natura alla riproduzione. Noi dovremmo ammettere soltanto l’industria di quei prodotti naturali visibili a occhio nudo. Scavare in una miniera o nelle profondità della terra è già indizio di civiltà, e noi dalla civiltà dobbiamo uscire.

E’ curioso notare come quanto più forti sono le contraddizioni sociali, tanto più si vanno a cercare risorse nelle profondità della terra. Gli indiani d’America, prevalentemente nomadi, si rifiutavano di praticare persino l’agricoltura, poiché temevano di “ferire la terra”. In effetti, quanto più siamo andati in profondità, tanto più abbiamo devastato la natura, e questa è stata tanto più devastata quanto più s’è cercato di trovare risorse energetiche equivalenti a quella solare, minacciando seriamente (l’abbiamo visto col nucleare) la stessa sopravvivenza umana.

Il criterio di alto o basso livello delle forze produttive non dà alcun vero indicatore circa il “benessere sociale” di una comunità umana. Non può essere un criterio economico di quantità a determinare il criterio sociale di qualità di un collettivo umano. Il socialismo scientifico ha ereditato dall’economia politica borghese un concetto di “benessere” che coincide troppo con “produttività” e molto poco con “socializzazione”. Più importante dell’economico non vi è solo l’ecologico ma anche il sociale.

Se un uomo primitivo potesse leggere quel che di lui oggi gli storici dicono, e cioè che essendo molto basso il livello produttivo del suo lavoro, era di conseguenza molto precario tutto il resto, ci obietterebbe facilmente che tutto è relativo. Un livello molto alto di produttività non solo non garantisce maggiore democrazia e maggiore ambientalismo, ma, stando ai risultati storici, si dovrebbe sostenere proprio il contrario: qualcuno (i più deboli) e qualcosa (la natura) hanno pagato caro il “benessere” esagerato che altri hanno voluto vivere.

Infatti un alto livello produttivo non può basarsi sul necessario (come nell’autoconsumo) ma sul superfluo, non può capire la fatica ma solo la comodità, non è interessato a risparmiare ma a sperperare, antepone sempre l’interesse individuale a quello collettivo, nonché l’artificioso macchinismo alla riproduzione naturale delle cose. Ecco perché diciamo che tutto quanto esula dall’autoconsumo va considerato come frutto di un’alienazione sociale, di uno sradicamento dalla terra.

Bisogna inoltre fare molta attenzione alle origini materiali del “benessere sociale”, che non può dipendere in alcun modo da fattori esterni (esogeni) alla comunità locale. Se una comunità è “benestante” semplicemente perché commercia con altre comunità, possiamo stare sicuri che prima o poi tra queste comunità scoppierà una guerra. Venezia, p.es., fruiva di rapporti commerciali privilegiati con Bisanzio, ma questo non le impedì di saccheggiarla orrendamente nel corso della quarta crociata.

Se il livello del benessere non dipende prevalentemente da fattori interni (endogeni) alla sopravvivenza della comunità locale, è inevitabile il ricorso alla guerra. Chi imposta il benessere sul commercio, aspira ad aumentarlo di continuo e non tollera in alcun modo variazioni che ne limitino la portata.

Si dirà che le crociate sono scoppiate quando ancora in Europa occidentale dominava l’autoconsumo. Sbagliato. Le crociate sono avvenute quando l’inizio dello sviluppo borghese era avvenuto in modo tale da togliere all’autoconsumo le sicurezze che aveva avuto un tempo. Alle crociate parteciparono sia i contadini affamati che i borghesi e i latifondisti loro affamatori.

La pace tra una comunità e l’altra può essere garantita solo se è nettamente prevalente l’autoconsumo, mentre il commercio va limitato alle eccedenze o al superfluo. Non può riguardare neppure quelle cose ritenute essenziali che non si riescono a produrre in quantità sufficiente: anche se queste cose fossero pochissime, sarebbero comunque sufficienti a minare l’indipendenza di una comunità.

La mancanza di elementi essenziali alla propria sopravvivenza ci rende facilmente ricattabili, esposti alle mire espansionistiche altrui. La proprietà collettiva dei principali e fondamentali mezzi produttivi deve esser tale da garantirci la riproduzione senza l’aiuto di forze esterne. A meno che la dipendenza non sia assolutamente reciproca: p.es. gli allevatori possono aver bisogno degli agricoltori e viceversa. E’ però difficile, anche se non impossibile, che una comunità possa fare affidamento, per assicurarsi la sopravvivenza, alla volontà di membri che non le appartengono, pur sapendo che questi sono costretti a comportarsi nella stessa maniera.

Quando prima si diceva che occorre tornare al comunismo primitivo, passando eventualmente per l’autoconsumo feudale, s’intendeva appunto escludere che il feudalesimo sia fallito a causa dell’autoconsumo, come spesso sostengono gli storici: il feudalesimo è fallito per il servaggio e per il clericalismo che gli era connesso in maniera ideologica.

Il servaggio ha portato a cercare un’alternativa non solo a se stesso, ma anche all’autoconsumo: il libero mercato (libero perché formalmente o giuridicamente i contraenti, che comprano e vendono, sono liberi, si sentono equivalenti). Un’alternativa che in realtà non ha fatto che produrre nuove contraddizioni antagonistiche, ancora più gravi delle precedenti.

Lo sviluppo del capitalismo non ha costituito alcuna vera alternativa all’autoconsumo medievale, anche perché ha fatto pagare le proprie conseguenze al mondo intero. L’illusione di una libertà individuale, connessa all’uso della scienza e della tecnica, nonché all’accumulo di capitali facili attraverso l’industria o il commercio, è stata la tentazione n. 1 che ha provocato la morte dell’innocenza originaria dell’autoconsumo.