Ora, cerchiamo di capire, con esempi concreti, come poter uscire da questa empasse epistemologica.
Innanzi tutto noi dovremmo partire dal presupposto leniniano secondo cui l’operaio non è più rivoluzionario del contadino proprio perché è privo di tutto, eccetto la propria forza-lavoro, e anche perché non ha rapporti con la chiesa. In sé l’operaio – diceva Lenin – al massimo ha una coscienza sindacale. Per avere una consapevolezza della necessità di un superamento dell’intero sistema, nella sua globalità, occorrono gli intellettuali, che devono persuadere gli operai a non illudersi di poter migliorare la loro condizione di sfruttamento limitandosi a chiedere aumenti salariali e altri diritti di tipo sindacale.
Gli stessi dirigenti sindacali tendono inevitabilmente al riformismo. Per avere una coscienza rivoluzionaria bisogna saper fare della politica uno strumento per abbattere il governo in carica e rovesciare il sistema.
In quanto intellettuale, Lenin rappresentava, non meno dell’operaio, l’uomo completamente sradicato dalle tradizioni della terra. Ma, a differenza degli altri intellettuali di sinistra, non riteneva necessario che si formasse un enorme proletariato nazionale prima di pensare a come rovesciare il sistema. Secondo lui era sufficiente scardinare i gangli dei principali centri urbani, ove si gestiva tutto il potere politico-istituzionale. Una volta occupati con la lotta questi centri, il resto sarebbe venuto da sé: operai e contadini avrebbero capito molto facilmente che, diventando gli effettivi padroni dei loro mezzi produttivi, non avrebbero avuto motivo di rimpiangere l’autocrazia zarista.
Lenin era un politico e tale restò sino alla fine della sua vita, salvo gli anni in cui s’interessò di economia (per contestare i populisti e ampliare il Capitale con l’analisi dell’imperialismo) e di filosofia (per sviluppare le tesi hegeliane sulla dialettica e contestare gli empirio-criticisti).
Lenin purtroppo morì giovane, a 54 anni, di cui gli ultimi due vissuti con grandissima fatica. Anzi, tutta la sua vita fu vissuta in condizioni molto difficili, non solo per l’attentato terroristico, che lo segnò in maniera irreparabile, ma anche per il carcere siberiano (tre anni) e per il lungo esilio (16 anni): egli non ebbe il tempo materiale per fare altro che politica. Al pari di Marx e di Engels, ci lasciò un metodo di lavoro, non una dottrina da imparare a memoria.
Egli era sicuramente più interessato alla pratica politica che non alla teoria economica (per lui la politica era una “sintesi” dell’economia); della rivoluzione gli premevano di più gli aspetti tattici e strategici che non quelli meramente critici. C’era molta differenza tra lui e Marx. Se Machiavelli inventò la scienza borghese della politica, Lenin ha inventato quella proletaria, infinitamente più democratica.
Uno sradicato come lui, che aveva capito l’inutilità del terrorismo solo dopo aver visto giustiziare il fratello, e che per tutta la sua vita si pose come unico obiettivo quello di abbattere lo zarismo, risparmiando ai propri connazionali la sciagura della guerra mondiale e le nefandezze dell’oppressione capitalistica, che dovette organizzare immediatamente la difesa contro la reazione dei “bianchi”, appoggiati dall’interventismo straniero, dove poteva trovare il tempo per occuparsi del lavoro culturale? Alla fine della sua vita, sapendo benissimo dell’importanza di questa cosa, scrisse di sperare che altri lo facessero e che gli pareva ingiusto essere stato criticato per non averlo fatto.
Anche su questo, in effetti, aveva ragione: una volta compiuta la rivoluzione politica, avrebbe dovuto essere più facile compiere il lavoro culturale. Ma così purtroppo non è stato. Gorbaciov s’è lamentato che dal 1991 ad oggi il socialismo democratico non ha neppure fatto un passo in avanti: possiamo aggiungere che non l’ha fatto non solo sul piano politico, ma neppure su quello culturale.
Quando si parla di democrazia, si trascura completamente il socialismo, e quando si parla di socialismo, si ripetono tesi che hanno fatto il loro tempo. Lenin diceva che non ci può essere una politica rivoluzionaria senza una teoria rivoluzionaria: oggi possiamo aggiungere che una teoria, per essere davvero rivoluzionaria, non può fare a meno della cultura. Non avrebbe senso rifare una rivoluzione comunista per ripetere errori già compiuti.
Una cultura davvero rivoluzionaria – ecco l’aspetto che avrebbe messo in crisi anche uno come Lenin – non può essere elaborata da chi non ha alcun rapporto con la terra. Gli sradicati, coloro che vivono nelle città, quanti dispongono soltanto della propria forza-lavoro (manuale e/o intellettuale) per sopravvivere, nel migliore dei casi possiedono un grandissimo desiderio di liberazione, ma non possono avere il senso di una memoria di liberazione.
Lo si capisce semplicemente guardandoli difendere il diritto al lavoro, che per loro deve prescindere da qualunque preoccupazione di tipo ambientale. Il rispetto dell’ambiente rientra nell’ambito della sicurezza sul lavoro, ma non ha riferimenti prioritari alla tutela della riproduzione della natura. Questa viene concepita soltanto in funzione degli interessi dell’uomo.