I comunisti oggi difendono lo status quo dell’industrializzazione borghese, senza rendersi conto che non può assolutamente bastare la socializzazione dei mezzi produttivi per assicurare la realizzazione di un socialismo davvero democratico. Non ci può essere alcuna vera democrazia contro le esigenze riproduttive della natura.
Con lo stalinismo abbiamo capito che una statalizzazione della proprietà poteva tranquillamente convivere con la più totale assenza di democrazia civile e politica. Oggi dobbiamo arrivare a capire che anche con la socializzazione della proprietà si rischia di non garantire affatto alcuna vera democrazia, in quanto se non si ripensano i criteri della produttività del lavoro, che non possono più essere quelli basati sull’industria, l’uomo finirà, devastando irresponsabilmente la natura, con l’autodistruggersi.
La desertificazione, causata dai disboscamenti, dalla cementificazione, dalla antropizzazione incontrollata dell’ambiente, dai mutamenti climatici dovuti a stili di vita insensati, dall’uso del nucleare (civile e militare) e anche da uno sfruttamento intensivo dei suoli agricoli, tutto questo già oggi rende impossibile, in molti luoghi del pianeta, la riproduzione umana. Non è vero che la natura è comunque in grado di superare i guasti provocati dagli esseri umani: non lo è certamente almeno finché gli uomini sopravvivono sul pianeta.
Per questo motivo dobbiamo pensare seriamente a come recuperare il tipo di esistenza vissuta sotto il comunismo primitivo. Il primo lavoro culturale che dobbiamo fare è questo, passando eventualmente attraverso la valorizzazione dell’autoconsumo del periodo feudale.
Quando Engels scriveva, nel testo citato sopra, che il passaggio dal comunismo primitivo allo schiavismo si verificò in maniera spontanea, attraverso l’accumulo di eccedenze alimentari, l’aumento della popolazione, la divisione del lavoro ecc., stava delineando una transizione con le medesime caratteristiche di naturalezza di quella che secondo lui si dovrà verificare tra capitalismo e socialismo.
Sia per lui che per Marx la violenza è tale solo da parte di chi si oppone a delle leggi oggettive, inevitabili. Gli uomini dovrebbero semplicemente prendere atto di queste leggi e accettare le necessarie trasformazioni. Dissero questo non solo per la transizione dal feudalesimo al capitalismo e da questo al socialismo, ma, purtroppo, anche per quella dal comunismo primitivo allo schiavismo.
Questo fu un grave errore, parzialmente giustificato dal fatto che gli studi etno-antropologici o etnostorici sul comunismo primitivo avevano appena raggiunto una rilevanza scientifica proprio nella seconda metà dell’Ottocento. Marx infatti evitò di dare alle stampe qualunque cosa su questo argomento: non si sentiva sufficientemente sicuro, anche perché attraverso i populisti russi era riuscito a comprendere l’importanza della comune agricola.
L’idea che una successione di determinazioni quantitative, ad un certo punto porti a una nuova qualità, era di derivazione hegeliana. Applicarla anche alla prima transizione della storia, senza chiamare in causa alcun fenomeno di violenza, è stato uno sbaglio. Lo sarebbe stato anche nel caso in cui si fosse attribuita un’opposizione violenta ai difensori del comunismo primitivo, facendoli passare per dei “reazionari conservatori”.
Si può anche pensare che per un contadino medievale passare dal servaggio al lavoro salariato in fabbrica sia stata una semplice questione di forma e che una vera resistenza allo sviluppo capitalistico sia stata compiuta solo dai feudatari (ancorché su questo potremmo trovare esempi del tutto opposti, e cioè resistenza contadina e condiscendenza nobiliare), ma è difficile pensare che da una condizione di piena libertà gli uomini siano passati tranquillamente a una condizione di piena schiavitù.
Abbiamo già detto che ci volle Lenin prima che il marxismo arrivasse a capire che la sovrastruttura può influenzare notevolmente il corso storico. Ora bisogna aggiungere che, oltre alla politica, anche la cultura può farlo, cioè anche la formazione di idee che divergono da quelle dominanti, come quella che il serpente propose ad Eva nel mito della caduta.
Se non si comprende questo, non si è poi in grado di spiegare il motivo per cui, in presenza di medesime condizioni economiche di vita, in un luogo si verificano determinati fenomeni, in un altro no. P.es. le cosiddette riserve produttive eccedenti il semplice bisogno di riproduzione immediata, non creano necessariamente l’esigenza di darsi un’organizzazione statuale, per il cui funzionamento occorrono addetti specifici. Un’organizzazione di questo tipo presume già una stratificazione sociale.
Persino il bisogno di andare oltre un certo livello di eccedenza è già sintomatico di una incipiente divisione in classi. Una riserva che va ben oltre il semplice autoconsumo, implica una gestione centralizzata del bisogno, che rende prima o poi inevitabile il privilegio e quindi l’abuso. La necessità di avere un’eccedenza che superi abbondantemente il livello dei bisogni primari indica una sfiducia nella gestione collettiva di questi bisogni, nonché un rapporto artificioso con la natura, che sono cose spesso destinate a marciare in parallelo.
Ecco perché bisogna sostenere che dal comunismo primitivo allo schiavismo vi fu una traumatica rottura, rinvenibile in qualche maniera nei miti che già conosciamo e che vanno interpretati tenendo conto che chi li ha elaborati aveva tutto l’interesse a mettere in cattiva luce gli elementi del passato che voleva superare.
Il mito ebraico, p.es., sintetizza la transizione da una formazione sociale all’altra nell’omicidio dell’allevatore Abele da parte del fratello Caino, agricoltore. All’origine della nascita dello schiavismo vi sono stati duri conflitti tra nomadi e sedentari, tra allevatori e agricoltori, che sicuramente precedono i conflitti tra mercato e autoconsumo, tra valore d’uso e di scambio. La delimitazione di determinate aree geografiche, per lo sviluppo dell’agricoltura, confliggeva con gli interessi degli allevatori e delle popolazioni nomadi, che furono le più antiche della storia e per le quali tutto il mondo era la propria casa.
Molte di queste aree disboscate per le esigenze rurali, ma anche per quelle abitative e persino commerciali, finirono col desertificarsi, riducendo drasticamente il numero dei lavori inerenti all’allevamento, ovvero il numero di persone dedite al nomadismo. L’allevamento si riduce al minimo e diventa esso stesso stanziale, parte organica della stessa attività agricola, almeno sino a quando non subirà nuove, pesanti, trasformazioni con l’ingresso del capitalismo nelle campagne.
Non è certo un caso che, per quanto riguarda le popolazioni indigene del continente americano, noi attribuiamo il temine di “civiltà” agli imperi inca, maya e azteco, che non erano nomadi (come invece le popolazioni nord-americane, le cui abitazioni in tenda permettevano facili spostamenti) e che sicuramente praticavano lo schiavismo, tant’è che le popolazioni locali, rimaste all’autoconsumo, le fuggivano spaventate.
Il fatto che di questa traumatica rottura non sia esistita una documentazione esplicita, non vuole affatto dire che il passaggio sia avvenuto in forma indolore. La violenza è all’origine della nascita delle civiltà: si tratta soltanto di individuarla in quei racconti mitologici che, essendo stati scritti dai vincitori, la presentano come una scelta necessaria.
Senza ideologia, la trasformazione della realtà arriva sino a un certo punto. Sono le idee che inducono a compiere delle scelte decisive, tali per cui risulta molto difficile il ripensamento, e ci vogliono idee particolarmente mistificanti per opporre con successo l’individualismo al collettivismo originario.
Sono soltanto i miti e le leggende che documentano questi traumi, mascherandoli in varie forme e modi. L’eroe del mito deve sempre apparire come una figura positiva, assolutamente innocente, che ha subìto un grave torto e che, per questo, si è dovuto difendere con la necessaria durezza. L’eroe può anche avere dei difetti personali, ma essi non inficiano mai la versione ufficiale che la cultura dominante ha dato di lui. E’ sempre l’eroe di una civiltà classista, che ha tolto di mezzo un nemico volutamente dipinto come rozzo, crudele, spietato, arrogante, ateo o, a seconda dei casi, superstizioso in quanto ignorante, primitivo.
L’agricoltore Caino è miscredente, invidioso e violento, attaccato alla proprietà: per questo uccide il pio, ingenuo e generoso Abele, di professione allevatore. Così Ulisse nei confronti di Polifemo, Teseo nei confronti del Minotauro ecc. E’ facile immaginarsi che nella realtà devono essersi verificati dei processi capovolti, in cui tradizioni secolari (si pensi solo al matriarcato) sono state messe in crisi e alla fine distrutte dalla nascita inaspettata degli antagonismi sociali.
Sarebbe interessante mettere a confronto i miti pagani con quelli cristiani: gli uni tradirono il comunismo primitivo, gli altri il tentativo, fallito, di ripristinarlo, cercando di superare in maniera rivoluzionaria lo schiavismo. Ogni forma antagonistica ha bisogno di miti per illudere le masse oppresse che l’esistenza, nonostante lo schiavismo, è sopportabile e che il medesimo antagonismo è un fenomeno imprescindibile.