Ha senso lo Stato nella transizione al socialismo? (II)
All’origine del centralismo autoritario vi è il fatto che il comunismo sovietico, sulla scia di quello tedesco di Marx ed Engels, ha sempre considerato i contadini una classe culturalmente sottosviluppata e socialmente piccolo-borghese. A questa classe ha voluto sovrapporre, in un rapporto di subordinazione gerarchica, il proletariato industriale, che veniva considerato più rivoluzionario in quanto assolutamente privo di tutto.
Tuttavia il proletariato industriale è una classe socialmente sradicata, di provenienza, fino a qualche tempo fa, prevalentemente rurale. Ora, se è vero ch’esso non ha nulla da perdere oltre la propria capacità lavorativa, è anche vero che non è in grado di costruire un’autonomia produttiva della realtà locale. E una classe del genere, priva di alcun riferimento alla terra e alle sue secolari tradizioni, è fatalmente strumentalizzabile da quella intellettuale, priva anch’essa di radici rurali.
L’industria non garantisce in maniera relativamente sicura la sopravvivenza di una comunità locale, o almeno non è in grado di farlo meglio di una comunità rurale. Tant’è che quando essa subisce seri contraccolpi da parte della concorrenza (nazionale o internazionale), la sua chiusura o delocalizzazione determina la fine della medesima comunità o la riconversione produttiva di quest’ultima.
Per distruggere le comunità rurali, il capitalismo ha impiegato dei secoli, ma per distruggere una piccola o media industria (e oggi, a causa del globalismo, lo vediamo anche con le grandi) occorre un tempo infinitamente minore. Negli Stati Uniti intere cittadelle costruite nei pressi di una miniera diventavano dei fantasmi appena la miniera veniva considerata non più “produttiva”.
Nell’ambito dell’agricoltura basata sull’autoconsumo, un anno di siccità non faceva spopolare una comunità di villaggio. L’agricoltura, che includeva anche l’artigianato, veniva aiutata dall’allevamento, dall’uso comune di taluni arativi e prativi, dei boschi, dei laghi, dei fiumi, delle paludi e soprattutto da una cultura dell’assistenza reciproca.
Un prodotto industriale che subisce la concorrenza di un prodotto analogo, specie in un regime ove i trust monopolistici tendono a prevalere e dove non è più possibile applicare le regole del protezionismo senza subire gravi ritorsioni, rende molto debole l’azienda che lo produce in condizioni di inferiorità (anche se queste condizioni, in assenza di concorrenza, potrebbero risultare più che sufficienti per riprodurre il capitale investito). Il futuro di aziende del genere, in un mercato sempre più globalizzato, ove i nuovi competitori si avvalgono di un costo del lavoro molto basso e non hanno scrupoli nel raggirare le regole commerciali che col tempo si sono dati i paesi capitalisti, risulta legato a variabili del tutto imprevedibili, e questo anche quando l’apparenza è lì a mostrare un’azienda economicamente stabile.
A suo tempo, quando si cominciava appena a parlare di globalismo, il socialismo di stato aveva pensato di ovviare a questo continuando a pianificare dall’alto tutta la produzione, come agli inizi dello stalinismo, trasformando tutti (operai e dirigenti d’azienda) in meri esecutori materiali di decisioni prese da organi politici e amministrativi. In questa maniera si tolse definitivamente l’incentivo al lavoro, alla produttività. Per quale motivo infatti si sarebbe dovuto fare volontariamente un lavoro monotono, faticoso, pericoloso e per giunta sotto pagato, quando il prodotto del proprio lavoro (che virtualmente avrebbe dovuto avere un valore maggiore di quello agricolo, in quanto connesso a un imponente capitale fisso) veniva gestito da un ente, lo Stato, che in definitiva restava non meno estraneo del capitalista privato all’operaio del mondo occidentale?
Il socialismo di stato aveva funzionato nel comunismo di guerra (salvo rettificarlo con l’introduzione della Nep, finita la controrivoluzione), aveva funzionato con la nascita dell’industrializzazione, fatta pagare duramente al ceto rurale e all’ambiente in generale, aveva funzionato durante la II guerra mondiale, poiché tutta l’industria era stata trasformata da civile a militare, ma s’era rivelato completamente fallimentare nel periodo della stagnazione, preceduta da quella della destalinizzazione.
Non è curioso che l’inizio del crollo del “socialismo reale” sia avvenuto proprio nel momento in cui la nomenklatura insisteva di più nell’attribuire grande importanza al passaggio dallo “Stato della classe operaia” (dittatura del proletariato) allo “Stato di tutto il popolo”? S’era perso completamente il riferimento alla realtà. Il partito chiedeva ai lavoratori di guardare lo Stato in maniera del tutto idealistica, come una sorta di padre bonario, le cui azioni dovevano risultare ottime di per sé, a prescindere da qualunque riscontro concreto, soprattutto in considerazione del fatto che con la “guerra fredda” il socialismo mondiale continuava ad essere seriamente minacciato.
Il plusvalore estorto politicamente agli operai era servito solo in misura limitata ad accrescere la qualità della vita e, inevitabilmente, esso non poteva accompagnarsi a una progressiva democratizzazione della società. Stalin pretendeva che in tempo di guerra, per la difesa della patria, si lavorasse 24 ore al giorno, ma sotto Breznev, Cernienko, Andropov si poteva pretendere uno spirito di sacrificio senza dare, come contropartita, una qualità di vita né morale né materiale?
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Il socialismo futuro dovrà dunque essere di tipo rurale, in cui l’apporto dell’industria sarà ridotto al minimo, rispettando le compatibilità ambientali. Nessun socialismo potrà essere democratico se non sarà ambientalista. Questa cosa è stata completamente trascurata dai classici del marxismo.
L’autonomia produttiva dovrà basarsi sulla soddisfazione di bisogni locali utilizzando risorse interne. Non ha alcun senso che una comunità locale venga tenuta in piedi attraverso i salari che guadagnano gli operai di un’azienda, le cui materie prime provengono da chissà dove e le cui merci vengono vendute chissà dove. Questa cosa non avrebbe senso neppure se l’azienda fosse di proprietà degli stessi operai.
Il socialismo futuro non potrà avere nei confronti della scienza e della tecnica alcuna devozione feticistica. Anche perché un qualunque primato concesso all’industria implica l’impossibilità di rinunciare al primato del valore di scambio su quello d’uso. Il che non vuol dire che l’industria non debba esserci, ma semplicemente che la sua ragion d’essere andrà decisa dalla comunità locale che vorrà fruire dei suoi prodotti.
Una disquisizione molto lucida, indiscutibilmente. Però…
“Il socialismo futuro non potrà avere nei confronti della scienza e della tecnica alcuna devozione feticistica. Anche perché un qualunque primato concesso all’industria implica l’impossibilità di rinunciare al primato del valore di scambio su quello d’uso. Il che non vuol dire che l’industria non debba esserci, ma semplicemente che la sua ragion d’essere andrà decisa dalla comunità locale che vorrà fruire dei suoi prodotti.”
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Io trovo che sia invece esattamente il contrario. La tecnologia configura una società in cui il prodotto della mente ha più valore del prodotto delle braccia. Ciò comporta una profonda trasformazione del concetto stesso di lavoro. L’agricoltura stessa, con la tecnologia già esistente e sperimentata (penso alle vertical farms, non agli OGM), riuscirà a rendere la produzione agricola indipendente dai fattori atmosferici avversi, con un prodotto più sano ed affidabile.
Il socialismo deve unicamente venir inteso come razionalizzazione delle potenzialità capitalistiche, ove il capitale non è il denaro ma la capacità produttiva di ogni singola persona. Il denaro è solo il mezzo convenzionale di trasformazione del proprio capitale produttivo.
Una società tecnologicamente molto avanzata, sarà anche una società con più disponibilità all’equilibrio economico e quindi sociale, poichè a comandare il gioco è sempre l’economia, fin dai tempi di Noè.
Io comincio a nutrire dei dubbi sull’efficacia della scienza e della tecnica. Son più i problemi che creano dei vantaggi che offrono. E ai loro problemi si cercano nuove soluzioni scientifiche in un vortice che non sembra aver mai fine.
A rimetterci è sempre più la natura. Al punto da rendere inutile l’alternativa al capitalismo da parte del socialismo. Nessun socialismo sarà mai democratico se non sarà ambientalista.
Ma che cosa vuol dire essere “ambientalista” in un’area geografica nettamente dominata da scienza e tecnica? Io davvero non lo so.
Un pannello solare è davvero ambientalista? Fra 10 anni chi lo smaltirà?
L’unica realtà che non produce rifiuti è la natura.
L’unico animale che produce rifiuti non riciclabili in maniera naturale è l’uomo.
Devi ammettere Marco che qui c’è qualcosa che non quadra.
Caro Enrico,
qualchecosina ce lo siamo dimenticato per strada…
Cominciamo dalle cose più semplici: le due più grandi società “contadine” del mondo, sono rimaste quella cinese e quella indiana.
In quei luoghi in questo momento si sta combattendo la “più grande battaglia” per la sopravvivvenza del sistema “capitalistico mondiale”.
Le “periferie e il centro”(remenber)
In quei luoghi si può ancora estrarre (plus-valore)(remenber), di tipo classico, qui da noi la transizione è avvenuta da tempo..e il plus-valore ormai si trae esclusivamente da ingegneri,tecniciqulificati, precari, ricercatori, sottopagati, ovvero il plus-valore sta sempre meno nell’operaio classico che attiene a mansioni sempre più gestite da macchine tecnologicamente sempre più avanzate,tanto che “qualcuno già scrive di Mutamento antropologico del soggetto- oggetto che deve giudare il mutamento sociale (in parole semplici non è per un caso che “operai votino Lega qui al Nord).
Solo che qualcuno non se nè ancora accorto e temo non se ne accorga mai più ,ovvero se si tenta di fare il gelato senza il “latte”,il rischio è che il latte vada alle ginocchia.
Rimane il problema quindi di chi in qualche modo deve fare (uso un vecchio termine) l’avanguardia , ovvero di chi diventa per primo cosciente.
Oggi mi sembrano una bella banda di incoscienti……!!
La logica economica segue il suo corso, nel tentativo di far diventare consumatori cinesi ed indiani , e di sfuttare le ultime risorse planetarie in termini di Forza-lavoro e territorio e durare ancora un bel pò di annetti!
Mi restano ancora quindi “oscuri” alcuni passaggi della tua analisi.
Le sosietà rurali del passato vivevano in ben misere condizioni , ovvero, sì,in pace con la natura ,ma esposte a carestie, e sul pianeta c’era forse nemmemno un decimo della popolazione attuale.
Ora visto che tutto sommato una popolazione così numerosa bisogerà pure nutrirla ed è indubbio che soltanto un agricoltura di tipo moderno e tecnologicamente avanzato può fornire la” base” alimentare.
Per il momento ancora non vedo la fine del supermercato soppiantato da un tipo di agricoltura che va benissimo per agriturismo e “qualità , ma tempo ancora non possa fornire la quantità” massa “sufficiente.
Il modello da te proposto ancora non mi convince sul piano pratico per la mancanza di due elementi Gli o ggetti -soggetti del mutamento,la percorribilità economica della proposta visto che a livello mondiale..si sta facendo esattamente l’opposto.
Poi non è detto che “qualche scossone”faccia invertire la rotta del Titanic mondiale,dove l’orchestra suona e i passeggeri sono convinti ancora di un futuro radioso..e progeessivo nelle sorti ect,ect,ect..
cc
Banalmente chiediamoci quali sono ancora i prodotti finali su cui gira l’intero mercato e cominceremo a darci delle risposte.
La civilta’ rurale si e’ sviluppata nell’arco di 10000 anni,…
quella industriale si e’ sviluppata e disfatta in un misero secolo.
L’uomo distruggera’ se stesso,vivra’ sempre peggio fino all’estinzione totale sia di se stesso che dell’ambiente,…la vettura-macchina e’ stato un regresso per l’uomo,…le macchine che “allievano la fatica dell’uomo” sono un pregresso sia per la societa’ che per l’individuo e ci rendono indipendenti dai ricatti
alimentari.
L’incentivo va dato sugli acquisti dei trattori e delle macchine agricole non sulle vetture che servono solo a suicidarsi.
Le macchine agricole implicano uno sfruttamento intensivo dei suoli e sarebbero impensabili senza una produzione per il mercato. L’autoconsumo non ha bisogno di macchine.
Pensa che oggi nei nostri campi non passano più i trattori a rivoltare le zolle dopo aver ottenuto, a fine estate, quel che si era seminato o raccolto dai frutteti, ma si preferisce lasciare che l’erba svolga una funzione di concime naturale. Vengono eliminati solo gli arbusti che, nascendo vicino alle piante da frutto, tolgono risorse a quest’ultime.
Ma questa cosa era stata fatta per migliaia di anni, prima della rivoluzione industriale!
Gli indiani del Nord America erano così rispettosi della natura che si rifiutavano di infilarle il vomere dell’aratro, come invece facevano le civiltà mesoamericane.
Noi in Romagna avremmo tranquillamente potuto campare di allevamento e di agricoltura. Invece oggi l’unico allevamento che abbiamo è quello dei polli, ove viene sempre tenuta accesa la luce per indurli a mangiare di continuo.
Oltre a Cina e India non puoi non mettere tra i paesi contadini quasi l’intera Africa e buona parte del Sudamerica, senza considerare estese zone di altri paesi asiatici e del continente australiano.
Noi non ci accorgiamo di questa prevalenza semplicemente perché non ci conviene: il rapporto economico è ancora neocoloniale, c’è poco da fare. Se pagassimo il caffè il prezzo effettivo del lavoro che costa, noi finiremmo col bere solo l’orzo. L’ha detto Castro all’Onu.
Certamente da noi i servizi assorbono 15 milioni di lavoratori su quasi 23 milioni, ma se togli i 900 mila impiegati nell’agricoltura e i 2 milioni nelle costruzioni, gli altri non sono forse nell’industria?
Certo non possiamo chiedere all’Istat di misurare l’effettiva entità del plusvalore estorto agli uni e agli altri, ma sicuramente quello operaio resta ancora molto rilevante. Chi dice che il nostro è un paese del terziario avanzato, lo dice anche per togliere agli operai qualunque rilevanza sociologica.
Il disastro su tutti i fronti è comunque a livello di agricoltura, che si sta sempre più abbandonando, rendendo il nostro paese dipendente dall’estero non solo sul piano energetico ma ormai anche su quello alimentare.
Noi dovremmo lentamente ma progressivamente costruire comuni agricole nei territori lasciati incolti, andarcene dalle città, sempre più invivibili, puntare il più possibile sull’autoconsumo, limitando al massimo la dipendenza da fattori esterni (mercato, borse, banche, assicurazioni…) che non riusciamo assolutamente a controllare. Questa cosa da tempo la fa la comunità per tossici di S. Patrignano, benché riceva sostanziosi finanziamenti pubblici, e tutti pensano che sia solo una comunità di recupero. Invece da lì gli ex-tossici non se ne vanno e nessuno chiede loro d’andarsene. Riceveranno un salario prossimo alla zero, ma in compenso l’essenziale ce l’hanno.
Dalla I PARTE di
Ha senso lo Stato nella transizione al socialismo?
“E’ questo il motivo per cui oggi bisogna pensare a un altro modo di difendere le conquiste rivoluzionarie. L’accentuazione eccessiva dell’importanza dello Stato pare essere il riflesso di una sfiducia nelle capacità auto-organizzative delle masse. Gli uomini devono liberarsi da soli delle loro contraddizioni antagonistiche, non possono aspettare che qualcuno lo faccia per loro. Qualunque accentuazione del ruolo dello Stato finirà col deresponsabilizzare le masse. La gestione della democrazia non può essere delegata al centralismo.”
Assistiamo giorno dopo giorno allo smantellamento della nostre capacità ed indipendenza individuali in tutte le scelte,da quelle della propria salute(per prendere ,non dico un’antibiotico ma una banale aspirina dobbiamo chiedere il parere e la ricetta del medico “curante”) a quella spirituale che vorrebbe tenerci incollati al confessionale e possibilmente al cilicio
da ostentare con orgoglio.
Tutte le capacità personali ed autonome ,conoscenze anche pratiche ,acquisite nel corso di secoli con la saggezza pratica trasmessa di generazione in generazione si stanno sfumando,la coscienza sociale indebolendo,non parliamo della solidarietà che in certe regioni più “sviluppate” viene considerata un’eresia.
Chiedete ad un ragazzino di piantare che so una piantina di prezzemolo e fissatelo, vedrete con quale considerazione vi guarderà .
Tutto è nell’onnipotente carrello del supermercato dall’oggetto più inutile alla casa;chiedete e vi sarà dato, dopo esibizione e verifica della carta di credito!
Allo stesso tempo e con lo stesso ritmo frenetico(o nevrotico?) si riempiono i cassonetti della monnezza ,altri “carrelli ma di merce in disuso”, instancabili ,di altri supermercati che devono essere più discreti,senza pubblicità e nascosti alla vista possibilmente lontano,molto lontano.
Poca dimestichezza nell’ intervenire ,anche in casi banali,per far fronte a piccoli danni di apparati e casi umani,che senso avrebbe:tutto si deve cambiare e bisogna distruggere nel tempo più breve possibile altrimenti la dinamica socialconsumista non reggerebbe all’intoppo!
Freud aveva già trattato la nevrosi distruttiva e il suo effetto sulla personalità per cui ,chiusi ogni giorno nelle nostre “riserve” dotate di telecomando ,assistiamo lentamente e tristemente annoiati alla trasformazione del precedente animale sociale a quello dell’animale affetto da anomia regressiva ma in un’ambiente sempre più artificiale e stracolmo di oggetti in buona percentuale inutili.
Le catene che ti tengono immobilizzato non sempre sono di ferro .
Salui
L.