Scienza e tecnologia
La scienza è una forma di conoscenza. Non è astratta come la filosofia, ma implica un’applicazione pratica, determinando un collegamento con la tecnologia.
Un’applicazione della filosofia può essere quella della politica, in maniera molto naturale e consequenziale. Ma non si può parlare di applicazione naturale della filosofia alla scienza, a meno che non s’intendano altre scienze astratte, come p.es. la matematica, la geometria ecc.
Viceversa nell’epoca moderna, quando si parla di scienza astratta, s’intende sempre qualcosa avente una pratica applicazione (p.es. la matematica applicata al calcolo automatico o all’informatica).
Per noi occidentali la tecnologia è parte costitutiva della scienza, al punto che facciamo fatica ad attribuire rilevanza scientifica a quelle forme di pensiero che non possono avvalersi di dimostrazioni pratiche, concrete, laboratoriali, e quindi riproducibili.
Il bisogno di darsi delle applicazioni pratiche per dimostrare la validità di determinate conoscenze astratte (che poi diventano “scientifiche” quando appunto trovano riscontri concretamente verificabili) è un bisogno primordiale, nato con la nascita dell’uomo.
Tuttavia solo in epoca moderna la scienza ha avuto un impulso straordinario. Ora qui dovremmo chiederci se questo nesso strutturale di scienza e tecnologia poteva svolgersi in maniera diversa, rispetto a quanto è accaduto a partire dall’epoca borghese, e se sì in che modo.
Noi non possiamo mettere in discussione che la conoscenza sia un diritto dell’uomo, però non possiamo accettare che questo diritto venga usato contro l’uomo stesso e l’ambiente in cui vive.
Il diritto alla conoscenza va gestito dal diritto a vivere un’esistenza umana. E perché sia umana, l’esistenza deve basarsi sulla soddisfazione del bisogno: bisogni collettivi, decisi dalla collettività.
Se il bisogno non viene gestito democraticamente, neppure lo sviluppo della conoscenza sarà democratico. E la prima forma di democrazia del bisogno, quella più elementare, primordiale, è l’esigenza di tutelare l’ambiente in cui si vive.
Se non c’è rispetto della natura, del suo bisogno di esistere e di riprodursi, non ci può essere rispetto del bisogno dell’uomo, poiché l’uomo, senza natura, non esisterebbe neppure, non avrebbe “natura umana”.
La natura umana è riproducibile solo naturalmente? Sino alla nascita dell’ingegneria genetica, sì. Oggi scienza e tecnica sono in grado d’intervenire anche artificialmente sul momento della riproduzione umana.
Tuttavia noi ancora non possiamo sapere quali conseguenze sul fisico e anche sulla nostra psiche potranno generare queste riproduzioni artificiali. I risultati sugli animali non sono stati esaltanti e anche quelli sulle piante sono forieri di problemi più gravi di quelli per la soluzione dei quali s’era voluto fare degli esperimenti azzardati.
La natura è maestra di vita, soprattutto in considerazione del fatto che non è stato l’essere umano ad averla prodotta, ma il contrario. La natura ha un’esperienza, collaudata nel tempo, infinitamente superiore a quella degli esseri umani.
Qualunque modificazione che l’uomo compie nei confronti della natura, avrà necessariamente delle conseguenze su lui stesso.
Forse la differenza tra la natura di tutti gli altri esseri animati dall’uomo consiste nella coerenza con la natura.Solo l’essere umano ,il più debole,ha fatto riferimento al contenuto più elevato della scatola cranica e conseguentemente alla risorsa che ne deriva per rompere la relazione con la natura e far forte solo l’aspetto tecnologico-artificiale in dimostrata opposizione alla natura,con le conseguenze che conosciamo.
Che sia la metafora del PARADISO PERDUTO?
Saluti
L.
La tecnologia, ovvero le applicazioni “pratiche” delle osservazioni speculative sulla natura delle cose è “diacronica”rispetto rispetto alle “medesime”.
Gran parte delle speculazioni della “mente”, si sono rivelate “scientificamente” scorrette solo quando, alla prova dei fatti si sono rivelate assurde alla prova pratica , mentre parimenti molte osservazioni “speculative” seppur basate su considerazioni “logiche” quasi inoppugnabili (viste con gli occhi odierni) erano del tutto corrette rispetto alla realtà.
(vedasi la distanza terra -luna e il calcolo della circonferenza terreste , per non parlare della rotondità della terra).
La tecnogia quindi il derivato o il “cascame”(in senso positivo) è sempre stato condiziato dalle condizioni storico economiche , ovvero dal grado di sviluppo complessivo di ogni civiltà).
Per terminare questo “pistolotto scontato” appare chiarissimo che in ultima istanza La scienza astratte o le sue osservazioni e previsioni non sempre sono state recepite ,sovente sbeffeggiate.
Se il grado di sviluppo di una società (l’attuale) con il suo grado esasperato di esaltazione dell’individualismo e della ricerca “edonistica di profitto e piacere ” quale motore dello sviluppo ..(senza sapere la fine del percorso),può portare tranquillamente all’ignorare i risultati della scienza (osservazione della natura e del suo ciclo).
A dimostrazione che in ultima “analisi” siamo i padroni del nostro destino e che in naura esiste anche l’opzione del suicidio.
cc
Pc Quindi non sempre la realtà è quella che appare,mmentre quello che appare è sovente il solo “frutto ” del desiderio che le cose stiano così.
La realtà ma direi più sovente le conseguenze di una realtà che non appare è disconosciuta.
Le stesse ricerche della fisica sperimentale altro non sono che “prove”, ma la realizzazione di un laboratorio , non sono altro che la conseguenza delle speculazioni di scienze astratte.
Ovvero quali sono gli strumenti e i materiali che io devo assemblare ,se non so quello che cerco o che devo cercare.
Certo esiste anche il metodo alchemico e la scoperta “casuale”, che solo in seguito verra sistematizzata e utilizzata in modo più organico.
Esiste un rischio “però , nel metodo del proca e riprova ..se le dosi sono sbagliate può succedere che il ricercatore salti in aria insieme al laboratorio.
Per la serie del FARE senza sapere bene quali sono le conseguenze di questo.
caro Linosse la metafora della ricerca del paradiso perduto, o dell’oro o della pietra filosofale, senza metodo , porta alla ” metafora” sic della scoperta dell’INFERNO
Un esercizio mentale di poco conto…
Sembra ormai sempre più certa l’esistenza della cosiddetta Materia Oscura …
Ma se è oscura cosa ce ne facciamo…?
Beh, a quanto pare non è così poi tanto oscura se è vero che intaragisce con una delle forze “realmente” più sconosciute che esiste la gravità.
Ma se interagisce attraverso la gravita è evidente che influisce sullo spazio-tempo…
Ohboh, o detto anche tempo..!!!
cc
Io sto arrivando alla conclusione che la Terra sia soltanto un esperimento, una sorta di modello da verificare per l’intero universo. Al momento abbiamo sperimentato il comunismo primitivo, lo schiavismo, il servaggio, il capitalismo e il socialismo di stato.
A partire dal socialismo abbiamo cominciato a tornare indietro, cioè a recuperare quello che abbiamo perduto quando siamo passati allo schiavismo.
La storia delle civiltà antagonistiche secondo me potrebbe anche finire tra 500, mille anni al massimo, dopodiché si tornerebbe a vivere nel comunismo primitivo, in forme ovviamente diverse e soprattutto con una diversa consapevolezza del valore delle opzioni sperimentate.
Ma a quel punto la Terra non avrebbe più senso, in quanto la prova sarebbe stata superata o almeno capita (magari capita a costo di renderla un immenso deserto).
La Terra ci starebbe stretta (anche perché quelli che ci hanno preceduti da qualche parte saranno pure) e avremmo bisogno di colonizzare altri pianeti dell’universo, che per noi sono praticamente infiniti.
Che senso avrebbe un universo infinito se non esistesse la possibilità di renderlo abitabile come la Terra? Sarebbe uno spreco assurdo di risorse e di energia.
Noi dobbiamo toglierci dalla testa che esistano da qualche parte dio l’inferno il paradiso e tutte le amenità della religione. Nell’universo esiste solo l’essere umano, immortale per definizione, in quanto soggetto a perenne trasformazione, come ogni cosa nell’universo.
Questo essere, per diventare adulto ed essere in grado di colonizzare l’intero universo, deve prima capire cosa vuole dire avere il senso dell’umanità. Poi deve essere in grado di riprodurre materialmente le condizioni che hanno permesso la vita sul nostro pianeta.
Io vorrei ragionare col “se ipotetico”. Mi chiedo cioè se il genere umano sarebbe arrivato all’attuale livello di conoscenza scientifica senza lo sviluppo capitalistico. La risposta sembra scontata.
Tuttavia mi pongo anche un’altra domanda: siamo davvero sicuri che le nozioni scientifiche che abbiamo siano le uniche “scientifiche” possibili?
Varie civiltà che da millenni ci hanno preceduto hanno costruito cose che a noi sembrano impossibili. Tanto che ipotizziamo assurdamente l’aiuto di qualche extraterrestre.
Noi per curarci usiamo la sintesi chimica. Un tempo si usavano le erbe medicinali. Non era forse scienza anche quella?
Se si fosse proseguito in quella direzione, oggi forse non avremmo avuto la sintesi chimica, ma un perfezionamento della conoscenza delle streghe.
D’altra parte avremmo avuto la sintesi chimica senza la rivoluzione industriale? E avremmo avuto la rivoluzione industriale senza lo sviluppo capitalistico?
È mai possibile ch’io debba far dipendere la nostra attuale scienza da un processo storico-sociale del tutto disumano?
Questo quindi significa che ogni forma di lotta al capitalismo deve necessariamente comportare la fine della scienza che dipende da questo sviluppo? Ovvero che un ritorno all’autoconsumo ci porterà a rivalutare le erbe medicinali?
Per quale motivo l’uomo non sarebbe mai potuto arrivare alla sintesi chimica passando per uno sviluppo sociale basato sull’autoconsumo? Non avrebbe potuto scoprire ugualmente la chimica senza aver la pretesa di sostituirla alle erbe medicinali?
Oppure dobbiamo sostenere che, siccome tutta la scienza possibile è già racchiusa nella natura e non in quello che noi artificialmente possiamo produrre, da quando è nata la rivoluzione industriale noi non abbiamo fatto altro che perdere tempo? Non abbiamo fatto altro che porre delle condizioni rischiose per la nostra stessa sopravvivenza?
Qualunque percorso artificiale compiuto dall’uomo è in ultima istanza antiscientifico? Qual è la condizione per non renderlo tale?
La legge fondamentale della scienza sostiene che in natura qualsiasi processo finisce con il ripristino dell’equilibrio iniziale.
Ora se il percorso artificiale compiuto dall’uomo in modo contrario alla naturale evoluzione non altera l’equilibrio tutto finisce naturalmente bene;in caso contrario che sia voluto o no dal capitalismo,non conduce altro che al ripristino dell’equilibrio iniziale per cui più si è alterata la condizione più il ripristino si propone in modo energico,nel nostro caso la parte più colpevole è quella del capitalismo per cui…..
Come sempre “se la corda la tiri poco non suona,se la tiri troppo si rompe” per cui non resta altro che tenderla in modo corretto,cosa che si consegue con il metodo “delle approssimazioni successive”e con l’esperienza,le esagerazioni sono sempre controproducenti.
L.
Cari Linosse ed Enrico,
tra i molti perchè, esiste una certezza…manco la società “borghese” è eterna..nonostante tutti gli sforzi tesi a “negare ” che esiste una società borghese..
Non è una grande consolazione, ma è pur sempre un punto di partenza.
cc
Il problema è che non riusciamo a liberarci definitivamente delle civiltà basate sugli antagonismi sociali.
Avevamo pensato d’esserci riusciti col socialismo reale, ma è stato peggio: l’antagonismo da economico è diventato ideologico, da privato a statale.
E’ vero che nulla è eterno, ma questa trasformazione continua (ormai siamo arrivati a 5000 anni) dei conflitti sociali ha prodotto soltanto un perfezionamento delle armi con cui rischiamo di autodistruggerci.
L’unica speranza che abbiamo è che, a forza di provare gli effetti di questi disastri, aumenti anche la consapevolezza della loro evitabilità.
Anch’io vorrei essere ottimista e pensare che quando si toccherà un picco ultranegativo non resterà che ricominciare da capo, magari sospinti in questo da leggi di natura.
Quello che mi spaventano sono i deserti. Non credo si siano formati esclusivamente per motivazioni climatiche. Sono millenni che abbiamo un rapporto distruttivo con la natura, cioè da quando sono nate le civiltà schiavistiche.
Le deforestazioni hanno provocato desertificazioni, che purtroppo sono diventate irreversibili.
caro Enrico,
quando si giunge alla mia età, è tempo di sintesi e di riflessioni.
Sono “un bradipo intellettuale”,(e anche molto estemporaneo e disorganizzato).
Nella sostanza, troppo lunghi per me sono i tempi della ricerca,e altro non mi resta che “ruminare”il poco appreso.
E’ tempo di sintesi “personale” e di riflessione, non per pigrizia , se vuoi per mancanza di tempo.
Pur “conoscendo” tutti i rischi di una sintesi “volgarizzata”, temo che ormai dopo una lunga riflessione circolare( a mò di calendario maya)non riesco a staccarmi da una condizione primigenia che più o meno ..recitava così ..”L’uomo sceso dagli alberi della savana , ha cominciato a pensare(con tutto ciò che ne consegue)all’arte alla bellezza, che vuoi al governo , alla politica , a Pancia piena.
Prima era un tantino occupato.
Detto ciò “sociale” ed” economico”, per non so quale strana “legge”, cominciano indissolubilmente ad essere connessi, che so, magari in rapporto dialettico.
I deserti non mi spaventano più,e perchè mai tutto sommato , in ULTIMA ANALISI dovrebbero spaventare ?
cc
Errare è umano perseverare è distruttivo
Caro Enrico
Riguardo alle considerazioni sulla desertificazione e cambio climatico invio un articolo del Pais di oggi 10/5
“I cambiamenti nel termometro del pianeta, uniti al disprezzo della società per l’ecosistema, hanno dettato il crollo di prospere civiltà antiche, come la maya, la sumera e quella dell’isola di Pasqua. Una lezione per non dimenticare.
Non abbiamo bisogno delle predizioni del cambiamento climatico per sapere come il collasso ecologico può finire con una civiltà; il passato ci offre abbondanti esempi: tempi maya abbandonati, il fecondo Sahara invaso dalle dune, imperi scavati dalla desalinazzazione, culture precolombiane spianate per Il niño, l’isola di Pasqua dissestata per la deforestazione, i vichinghi sloggiati della Groenlandia per il freddo… Le malefatte del clima cangiante compongono un lungo rosario di calamità.
L’auge e la caduta delle colonie vichinghe in Groenlandia hanno a che vedere col riscaldamento e raffreddamento del pianeta
Le siccità e la salinizacione dell’acqua si accanirono con la culla della civiltà nella fertile Mesopotamia
La distruzione dei boschi ebbe parte di colpa nel subitaneo pendio della cultura di L’Argar, ad Almeria
Del fondo ecologico di quelle catastrofi abbiamo tardato abbastanza a darci conto. Benché oggi il cambiamento climatico e le sue conseguenze pesano enormemente sul nostro presente e futuro, per molto tempo si considerò l’ecosistema un attore secondario nella storia. Preferivamo attribuire i crolli sociali alle invasioni, ribellioni o crisi economiche, minimizzando l’impatto delle siccità, le inondazioni o la desertifiacazione. Ma ormai non si può più continuare a ignorare il fattore ambientale.
Lo sanno bene gli archeologi, climatólogos e paleoantropólogos che sono usciti a revisitar il passato. Hanno frugato nei sedimenti del suolo e nel polline preistorico, letto negli anelli degli alberi, interpretato mostre del letto marino e scrutinato le foto dei satelliti. Con l’informazione ottenuta hanno ricostruito per computer alcune delle fluttuazioni climatiche che scossero la vita del nostro ancestros.
Le sue indagini lanciano nuova luce sui miti di siccità leggendarie ed inondazioni di dimensioni bibliche. Dopo tutto, non erano pura fantasia. Prendiamo l’epica sumera di Atrahasis, del secolo XVIII prima di Cristo. Le bacheche conservate nel Museo Britannico rendono conto delle siccità, le fame nera e la siccità che si accanirono con la culla della civiltà. Gli abitanti della fertile Mesopotamia si imbatterono con un problema difficile: la salinización delle sue terre per l’abuso dell’irrigazione. Optarono allora per sostituire la coltivazione di grano per quello dell’orzo, molto più resistente al sale. Ma con gli alti livelli di evaporazione, il sale continuò ad accumularsi e le terre li’si trasformarono in bianche, dicono le bacheche. Così finì il momento di gloria di Sumer.
Le dune del Sahara rinchiudono una storia simile. Per il ghiaccio della cima del monte Kilimanjaro (Tanzania) sappiamo che quattro millenni fa una siccità frustò l’Africa per 300 anni! Nel nord africano, l’immensa savana tappezzata di vegetazione si trasformò nel deserto che conosciamo. I suoi abitanti emigrarono alla valle del Nilo, e dove pascolavano elefanti e zebù transitarono solo cammelli. Gli scienziati attribuiscono il fine delle precipitazioni abbondanti e stabili all’alterazione del regime di venti e piogge, causata per le oscillazioni periodiche dell’orbita terrestre che fanno variare la radiazione solare ricevuta in ogni emisfero.
Un’altra siccità mostruosa intervenne in uno dei maggiori enigmi archeologici: la sparizione dei maya. I sedimenti dei laghi dello Yucatan conservano la memoria di una successione di siccità a partire dal secolo IX, una delle quali durò 150 anni. A niente valsero i sacrifici ai dei, le preghiere dei sacerdoti piumati: urbi e centri cerimoniali furono abbandonati. Gli investigatori dell’Università della Florida, EE UU, responsabilizzano del fatto all’Astro Re, ad un ciclo di 208 anni di maggiore attività solare che si sviluppò in quelle date.
Neanche uscirono meglio affrancato gli abitanti dall’isola di Pasqua. Tra i secoli XIII e XVII della nostra era fiorì lì una società relativamente sofisticata; ma quando sbarcarono gli europei in 1722 trovarono gli isolani infossati nella fame ed il ritardo; del suo splendore sussistevano solo le colossali statue di pietra. Che cosa forza irresistibile li restituì alla barbarie? Ora sappiamo per l’analisi botanica che una ragione fu la deforestazione. Sia per il disboscamento smisurato, sia per l’arrivo di topi che finirono con le sue palme, i nativi rimasero senza materia prima per le sue capanne, attrezzi e canoe, e senza combustibile per fare fuoco.
Anche la distruzione dei boschi ebbe parte di colpa nel subitaneo pendio della cultura di L’Argar (Almeria), una delle prime società urbane dell’Europa Occidentale. Il polline ed i resti di carbone raccolti nel Sierra per José González Carrión (Università di Murcia) ed i suoi collaboratori raccontano il passaggio di un ecosistema di pinete e rovereti ad un altro di cespugli ed arbusti, con molti incendi in mezzo. La domanda di legno per il settore minerario e di terreno per il pascolo, sommata all’eccesso di popolazione, spinsero alla cultura argárica al precipizio.
A volte il cataclisma lo produsse una combinazione sfortunata. Verso l’anno 1.600 prima di Cristo, un cocktail di terremoti, piogge torrenziali e desertización spazzò dalla mappa la cultura seppi, creatrice delle prime piramidi in terre americane. Il geologo David Keefer e l’antropologo David Sandweiss, dell’Università del Maine (EE UU), hanno trovato le orme del sisma che erose le valli della costa centrale peruviana. Di seguito, le piogge di El Niño trascinarono il materiale eroso al mare, formando una barriera di sabbia che dopo i venti inviarono entroterra. La frangia costiera divenne in un terreno incolto, e la polvere si divorò a Caral, l’urbe più antica dell’America.
Segnalare la capacità umana per mutare l’ecosistema non deve farci dimenticare che, in occasioni, la pressione dell’ambiente funzionò come stimolo. “Il clima poco benigno aiutò a modellare la civiltà”, afferma con rotondità l’antropologo britannico Brian Fagan, autore di La lunga estate. La sua opera abbonda di esempi di come i cambiamenti ripidi stimolarono l’adattamento umano, specialmente durante gli ultimi 15.000 anni di tempo caldo.
Esempi? La discesa del livello del mare nell’ultima glaciazione che creó un ponte naturale nello stretto di Bering, attraverso il quale gli asiatici colonizzarono il continente americano. O le fluttuazioni orbitali che 6.000 anni fa debilitarono il sistema monsonico, aprendo una fase arida che mosse le popolazioni disperse a rifugiarsi in enclavi con acqua, foraggi e terre produttive: i primi nuclei urbani.
Nel bacino dell’Ebro, in concreto, la crisi” forzò un cambiamento culturale, obbligando i cacciatore-esattori a diventare agricoltori sedentari”, spiega Penélope González, esperta dell’Istituto Pirenaico di Ecologia-CNR. “Il polline è un indicatore chiave, poiché la vegetazione reagisce molto rapida alle modificazioni ambientali.”
Ogni movimento del termometro produsse vincitori e perdenti. I rifugiati del clima che si concentrarono sulle rive del Nilo, fuggendo dalle sabbie sahariane, formarono la massa critica della fioritura faraonica. Nel secolo VII prima di Cristo, l’entrata di una massa di aria calda nel Mediterraneo favorì la coltivazione del grano e propiziò l’auge della Grecia e Cartagine in primo luogo, e dell’impero romano dopo; ma una variazione climatica posteriore rovinò i raccolti di quel cereale, aumentando la vulnerabilità di Roma alla pressione dei barbari. La tendenza calda tra l’anno 900 ed il 1.300 – la chiamata Ottima Climatica Medievale – puntellò la prosperità dell’Europa del Nord, gli inglesi esportavano vino alla Francia, ma portò alle Ande la siccità che rovinò la portentosa cultura di Tiahuanaco.
Per quel motivo gli specialisti notano che un” determinismo ecologico” sarebbe tanto miope come ridurre l’ecosistema a mero fondale. Gli alti e bassi delle civiltà sono più complessi; non riconoscono un’unica causa. L’ecocidio decise la debacle in poche occasioni; la maggioranza delle volte fu solo la goccia che colmò il bicchiere.
D’altra parte, non tutte le culture soccombono alla sfida di un ambiente avverso. Le marachelle del nino ferirono la società seppi, ma nel Perù preincaico, il paese chimú uscì avanti con una saggia gestione dal suolo e le sue risorse idriche. Nel suo libro Collasso: perché alcune società perdurano ed altre no, il geografo Jared Diamond riferisce l’auge e posteriore fallimento delle colonie vichinghe in Groenlandia col successivo riscaldamento e raffreddamento del pianeta nel corso di pochi secoli, e subito segnala un esempio contrario: gli eschimesi che seppero adattarsi meglio allo stesso mezzo ostile. L’ultima parola, in definitiva, l’ha l’organizzazione sociale, la sua flessibilità.
Il catastrofismo retrospettivo presenta un pericolo: portarci a vedere disastri ecologici dove non ci li furono. Si è arrivato ad imputare l’estinzione dell’uomo di Neandertal, 32.000-29.000 anni fa, al raffreddamento registrato quando l’Atlantico si riempì di icebergs e le acque polari irruppero nel Mediterraneo. Tuttavia, un studio delle università di Leeds (Regno Unito) e Barcellona sostiene che, benché le condizioni peggiorassero nel nord europeo, il registro polínico di Gibilterra dà fede di un clima più benevolo. “I neandertales sopravvisse a quello periodo freddo”, spiega Isabel Cacho, una delle autrici del lavoro, insegnante dell’università barcellonese; ma non nega l’incidenza dell’ecosistema”: Le popolazioni grandi e complesse che vivono al limite delle sue risorse diventano più fragili alla variazione dell’ambiente. Non è necessario un gran cambiamento climatico per il crollo; può bastare solo lo sfruttamento eccessivo delle risorse idriche.”
L’archeologia c’insegna che il pianeta viene riscaldandosi e raffreddandosi ciclicamente, benché quello non succedesse mai di punto in bianco. La novità è che ora stiamo alterando i cicli; di lì l’utilità di tirare fuori insegnamenti dai disastri del passato. Fagan sottolinea la lezione di” come la siccità può destabilizzare una società e portarla al collasso.” Altri enfatizzano lo squilibrio tra popolazione e risorse naturali. Jared Diamond sottolinea l’incapacità degli antichi per capire e prevenire le cause del deterioramento ambientale. ”
L.
I was just chatting with my coworker about this last week at the resturant. Don’t remember how we got on the subject actually , they brought it up. I do remember having a excellent chicken salad with ranch on it. I digress…
If you don