Il futuro nelle nostre mani
La sinistra radicale non ha dubbi nel sostenere che sul piano economico la crisi endemica del capitalismo dura da almeno 30 anni. Ci si accorge poco di questa situazione soltanto perché, dopo il decennio che va dal 1968 al 1978 la capacità di resistenza delle masse popolari è andata progressivamente diminuendo. Tuttavia altri fattori ne denunciano la presenza, vissuti in maniera individuale: l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro e la diminuzione del potere d’acquisto di stipendi e salari.
Alla progressiva caduta tendenziale del saggio di profitto (una delle leggi bronzee del capitale) s’è cercato di far fronte non solo coi due classici rimedi anzidetti, ma anche puntando sul potenziamento del commercio estero e sulla finanziarizzazione dell’economia, che hanno fatto nascere quello che con una parola sintetica viene detto il “globalismo”, cioè il dominio incontrastato del capitale su scala mondiale, che storicamente è iniziato con la nascita della deregulation reaganiana.
Il commercio estero ha avuto un’impennata enorme col crollo del cosiddetto “socialismo reale”, comportando però anche l’affacciarsi sui mercati mondiali di nuovi paesi capitalistici, molto agguerriti, le cui merci hanno prezzi davvero competitivi, potendo essi sfruttare un costo molto basso della loro manodopera, non abituata alle leggi del mercato.
L’enorme espansione del credito, ovvero la gestione dell’economia produttiva da parte di quella finanziaria ha generato incredibili bolle speculative, rese ancor più gigantesche dalla facilità degli scambi telematici. Queste bolle (si pensi solo a quella degli alti tassi di rendimenti assicurati dagli Usa negli anni Ottanta per rastrellare capitali da tutto il mondo, rivelatasi poi un buco nell’acqua), che sembravano garantire enormi rendite con rischi molto bassi, sono improvvisamente scoppiate, a causa dei periodici e drammatici crolli borsistici, mandando in fallimento banche e imprese, e soprattutto mandando in rovina i piccoli risparmiatori, che ormai hanno rinunciato a risparmiare e investire, pensando solo a sopravvivere.
Gli Stati anzi, pur di contenere al massimo gli effetti devastanti dei crac di borsa, dei fallimenti aziendali e delle crisi bancarie, hanno attinto agli ultimi risparmi dei lavoratori, hanno usato il gettito fiscale non per rilanciare la produttività, ma per sanare situazioni finanziarie disperate, provocate da abusi e speculazioni d’ogni genere. Oggi non solo una gran parte dei cittadini, ma anche e soprattutto le istituzioni pubbliche dello Stato e degli Enti locali vivono sopra una montagna di debiti.
In Italia i debiti sono più sul versante istituzionale che privato, ma la situazione resta ugualmente preoccupante, proprio perché, essendo molto forte da noi l’evasione fiscale, il debito pubblico viene praticamente sostenuto con la pesante tassazione dei già magri stipendi e salari dei lavoratori, e naturalmente facendo incetta dei risparmi sempre più esigui, attraverso l’immissione continua di titoli, i cui interessi vengono pagati dallo Stato solo dopo aver emesso nuovi titoli, in una spirale senza fine.
Non essendoci da noi il senso del bene pubblico, collettivo, a causa di pregresse ragioni storiche e culturali, manca un controllo dell’equità fiscale, una lotta tenace contro il lavoro nero e precario e soprattutto contro la criminalità organizzata, che fattura capitali enormi (al momento non meno del 6% del pil nazionale). L’intero paese è dominato da un gigantesco debito statale, che viene parzialmente compensato da un pil molto elevato, che ci pone tra i primi dieci paesi al mondo. Si calcola tuttavia che entro il 2025 il nostro paese verrà superato dalla Spagna (oggi nona) e dal Brasile (oggi decimo) e, a questi ritmi, anche da Corea del Sud, India, Indonesia e Russia.
Da noi l’individualismo è caratterizzato da un proliferare abnorme di imprese piccole e piccolissime, spesso coincidenti con lo stesso titolare della partita iva; imprese la cui gestione è di tipo familiare e dove l’innovazione è molto scarsa, ivi inclusa, ovviamente, la formazione richiesta. Imprese di questo genere, unitamente al valore considerevole che ancora oggi si attribuisce alla struttura familiare, rendono il nostro paese relativamente debole in un mercato globale del capitalismo avanzato. Esse sono in grado di reggere la concorrenza soltanto quando possono fruire di un certo protezionismo statale o quando lo smercio dei prodotti può muoversi dentro confini nazionali, senza dover fronteggiare una forte concorrenza straniera (cosa che già con la nascita dell’U.E. non è più possibile).
Le imprese che possono competere all’estero o che possono reggere i colpi della concorrenza straniera devono essere di dimensioni medio-grandi o comunque devono smerciare prodotti dai prezzi contenuti oppure aventi un buon valore aggiunto, perché frutto di studi e ricerche.
Il crollo del “socialismo reale” non ha certo favorito le imprese piccole non facenti parte di un indotto significativo, ma solo quelle medie e grandi, che avevano capitali sufficienti per investire in quei territori. Anzi, con la trasformazione capitalistica delle economie di quei paesi, tutte le nostre aziende, non solo quelle piccole, hanno dovuto fronteggiare una concorrenza inaspettata, spesso brutale (in quanto non sempre vengono rispettate le regole del mercato o gli standard previsti per le nostre aziende), una concorrenza che non si pensava così immediata, in quanto si era convinti, in virtù della propaganda occidentale, che quei paesi fossero molto arretrati sul piano tecno-scientifico, anche se si poteva facilmente immaginare un costo del lavoro molto basso.
Il globalismo si sta rivelando un grosso affare solo per chi è davvero in grado di muoversi a livello internazionale. Dovremo pertanto aspettarci, nei prossimi decenni, una fortissima concentrazione di capitali e di imprese nelle mani di pochi monopoli che sapranno agire con molta disinvoltura su scala planetaria. Qualunque crisi sistemica, fatale per le sorti dei piccoli produttori, non farà che ingigantire il potere di questi colossi.
Un enorme potere concentrato nelle mani di poche strutture produttive, avente una fisionomia fortemente internazionale, in grado di condizionare pesantemente anche le istituzioni politiche, trasformerà le società civili in un serbatoio di manodopera a costi talmente bassi da sfiorare lo schiavismo di epoca romana.
Una situazione del genere può trascinarsi all’infinito, se le forze soggette a sfruttamento non spezzeranno le catene che le legano. Non è affatto vero che questo processo di concentrazione del potere economico e politico sarà tanto più lento o tanto meno violento quanto meno si cercherà di contrastarlo. Non è neppure vero che l’assenza di un’alternativa al sistema capitalistico renderà meno forte la competizione tra i monopoli all’interno di questo sistema.
Il capitale divora non solo i lavoratori ma anche gli imprenditori più deboli, e quando arriva a un punto che per continuare a divorare occorre scatenare guerre e conflitti d’ogni tipo, non ha scrupoli nel farlo. Attualmente vi sono oltre 30 guerre sull’intero pianeta, i cui conflitti tra gli Stati coinvolti non sono stati risolti per via diplomatica.
Ecco perché bisogna che i lavoratori si attrezzino, sin da adesso, ad affrontare il peggio.
- Anzitutto essi devono rendersi conto che se il capitale riesce a muoversi a livello internazionale, anche loro, per potersi difendere dallo sfruttamento, devono muoversi nella stessa maniera. Una collaborazione di classe a livello solo nazionale non ha più senso. Occorre costituire una struttura internazionale a difesa dei lavoratori di tutto il mondo: una struttura che affianchi quelle nazionali già esistenti e che abbia potere contrattuale nei confronti delle multinazionali, le cui sedi produttive sono sparse sul pianeta;
- in secondo luogo occorre capire che un’alternativa al capitalismo deve essere un’alternativa ai fondamenti di questo sistema, cioè l’industria, il mercato, gli scambi monetari… Non si tratta soltanto di superare il momento dello sfruttamento dei lavoratori (plusvalore), ma anche il primato del valore di scambio su quello d’uso, il primato del mercato sull’autoconsumo, il primato dell’industria sull’agricoltura ecc.;
- in terzo luogo occorre assolutamente convincersi che non può esistere alcuna alternativa reale al capitalismo, cioè alcuna forma di socialismo umano e democratico, senza rispettare i processi riproduttivi della natura: questa è la base da cui partire per realizzare una transizione eco-compatibile;
- in quarto luogo bisogna affermare il principio della ineguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, nel senso che chi ha più bisogno ha più diritti. Va abolito il principio borghese secondo cui di fronte alla legge si è tutti uguali: affermare un principio del genere quando poi nelle società civili si permettono, in nome della proprietà privata, le differenze più abissali, è un controsenso;
- in quinto luogo bisogna sostenere, a livello mondiale, tutte le forme in cui si esprimono i valori umani, dei quali il principale è quello della libertà di coscienza. Nessuno può essere costretto a fare ciò che non vuole. Chiunque sia in grado d’intendere e di volere deve essere lasciato libero di assumersi le responsabilità delle proprie azioni.
Bisognerebbe partire dalla Carta dei diritti Umani e farne una celebrazione quotidiana e non solo il 10 dicembre ,in questo modo si rafforzerebbe la conoscenza e conseguentemente la spinta al rispetto reale di quanto è stato scritto.
Da “Giornata dei Diritti Umani” alcune osservazioni:
“«L’educazione ai diritti umani è fondamentale per le società che intendono sviluppare una cultura dei diritti umani. È uno strumento per promuovere l’uguaglianza e per incoraggiare la partecipazione popolare ai processi decisionali entro sistemi democratici. È un investimento nella prevenzione delle violazioni dei diritti umani e nei conflitti violenti», ha dichiarato Louise Arbour, alto commissario per i diritti umani dell’ONU. Gli fa eco il segretario generale Kofi Annan: «L’educazione ai diritti umani è molto più di lezioni scolastiche o di una giornata a tema; è un processo per equipaggiare le persone con gli strumenti necessari per vivere le loro vite in sicurezza e dignità».
Il problema è che di diritti se ne parla come si parla di costituzione… cioè in maniera vuota quasi come se, visto che sono carte scritte,vengano date per scontate e i diritti ci sono e vengono rispettati… ma apriamo gli occhi!”
Per fare rispettare I Diritti Umani nel mondo bisogna ESIGERE che se ne tenga conto alla stessa maniera della risoluzione dei problemi economici attualmente mondiali con incontri ripetuti e misure concrete.
Per cui AZIONE!
Solidaritàa agli Abruzzesi colpiti da questa ultima tragedia ed AUGURONI di rinnovamento a te e tutti
L.
caro Enrico,
credo che “quella ” che hai descritto sia l’ultima battaglia .
Da una parte le multinazionali e di conseguenza magari sul piano politico il tentativo di “formare ” un Commonwealth (multipolare) di governo sovranazionale.
Sembra infatti questa la strada scelta da Obama, dopo che la “crisi” ha definitivamente affossato il tentativo Buschiano di governo Unilaterale del mondo, nel quadro del “vecchio” capitalismo.
Dall’altra la “proletarizzazione” di grandi masse umane ancora legate alla cultura contadina ..vedasi India e Cina con in aggiunta le cosidette “masse intermedie”che nei paesi sviluppati pensavano in qualche modo di essersi affrancate per sempre dal “problema ” del bisogno.
Da una parte quindi il determinismo” di un sistema economico che per quanto faccia non può evitare di andare nella direzione da te descritta e dall’altra l’esigenza e il bisogno di un nuovo sistema mondiale di gestione dell’economia con annessi nuovi valori.
Per certi versi , mi sembra un già sentito..la paura è che non sarà di certo un passaggio indolore..
Almeno finora la “storia” ha quasi sempre dimostrato il contrario..
Il punto 1) del tuo discorso è quanto di più urgente da realizzare nell’immediato, poichè è evidente che si tenterà di dividere ..un tempo c’erano i nazionalismi..ora ritornano di moda altre forme ..le culture , le religioni , ..
Comunque credo che il processo di “internazionalizzazione” del capitale sia un fenomeno ormai inarestabile..e di conseguenza..
cc
Sai cos’è quello che mi spaventa? È l’impreparazione che abbiamo di fronte alle catastrofi economiche, finanziarie… Un’impresa fallisce o chiude o si delocalizza in quattro e quattr’otto (anche quando tutto sembrava filare liscio), la banca ti tradisce facendoti investire nel peggiore dei modi, la borsa ti polverizza in pochissimo tempo i tuoi risparmi…
La stragrande maggioranza dei cittadini di questo pianeta è in mano a gente senza scrupoli, a sua volta condizionata da un sistema che di umano non ha nulla.
La reiterazione degli abusi alla fine porterà il sistema al crollo o comunque a insopportabili derive autoritarie. Qui non è solo questione di sfruttamento del lavoro altrui ma di uno sfruttamento non molto diverso dallo schiavismo romano.
Noi occidentali ce ne accorgiamo di meno perché il nostro benessere poggia sulla miseria del Terzo Mondo (che, fortuna per noi, non ha ancora dichiarato bancarotta).
Ma noi, quando il sistema crollerà, saremo in grado di gestire un’alternativa? Non dovremmo chiederci sin da adesso quale transizione creare per superare il primato dell’industria sull’agricoltura, del valore di scambio su quello d’uso, del mercato sull’autoconsumo, dell’uomo sulla natura…?
Quando sento parlare i politici della sinistra radicale, ho sempre l’impressione che si voglia una soluzione non molta diversa dal già fallito socialismo di stato.
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