Quand’è che il desiderio è sano?
Che cosa vuol dire “tentazione”? Vuol dire vivere in maniera non conforme a natura.
La tentazione è sempre esterna a chi la subisce. Cioè il male (una qualunque forma di egoismo o di egocentrismo, che storicamente si è connesso all’uso individualistico della proprietà) può anche essere posto per debolezza, ma finché non diventa “tentazione” per altri, resta in qualche maniera circoscritto.
Scrisse con maestria Rousseau: “Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare, questo è mio, e trovò persone abbastanza ingenue da credergli fu il vero fondatore della società civile”(Discorso sulla disuguaglianza).
Il problema appunto comincia a porsi quando una certa scelta di vita diventa un modello per la gente comune. La tentazione si fa tanto più seria quante più persone vi cedono. Non è più una debolezza individuale. Infatti, a forza di cederle s’arriva a un punto in cui non si sa più quale modello originario s’era abbandonato.
Alla maggioranza dei cittadini comincia ad apparire evidente che non è neppure il caso di parlare di “tentazione”, ma semplicemente d’inevitabile accettazione dell’esistente, di una scelta acquisita dai più, che non val la pena mettere in discussione.
Progressivamente diventa quasi impossibile saper distinguere ciò che è naturale da ciò che non lo è. Il naturale diventa l’artificioso, quello che un tempo sarebbe stato considerato anomalo. Quanto più questo processo avviene lentamente, senza sconvolgimenti epocali che portano a interminabili guerre fratricide, tanto più si consolida, mettendo radici profonde.
Nella storia degli ultimi seimila anni casi di questo genere sono stati innumerevoli. E’ vero, sono stati osteggiati da chi aveva consapevolezza della loro estraneità all’umano, ma poi sono stati riproposti in altre forme e modi, sempre più sofisticati e difficili da individuare e ancor più da debellare.
Ci si può chiedere se processi innaturali del genere possano durare all’infinito. In nome dell’individualismo si edificano società e civiltà in cui, dominando il primato della forza, molte categorie di persone rimangono schiacciate, sommerse da problemi di emarginazione, di sfruttamento, di violazione dei diritti umani.
Ora, fino a che punto può durare la disumanità? Fino a che punto la sofferenza può essere sopportata? Il senso di umanità che alberga nel cuore di ogni essere umano può farsi valere organizzando una resistenza contro la legge del più forte? Quando si ha la percezione di aver assai poco da perdere, quali meccanismi scattano nella nostra coscienza? Diventiamo peggiori dei nostri oppressori? Siamo disposti a qualunque cosa pur di sopravvivere entro una società profondamente ingiusta? Oppure siamo disposti a impegnarci per tentare di trasformare positivamente un certo sistema di vita, riportandolo alla propria dimensione umana e naturale? Cos’è che fa propendere verso un certo atteggiamento, in luogo di un altro?
Sarebbe sciocco pensare che esistano categorie sociali che di per sé propendono verso le trasformazioni rivoluzionarie, anche se indubbiamente il “quanto” che si può perdere un “tanto” condiziona.
Per volere queste trasformazioni bisogna impegnarvisi attivamente, bisogna avere la consapevolezza della loro necessità, bisogna saper agire in maniera conforme alle proprie aspettative, agli obiettivi che ci si prefigge. Per questa ragione è esatta l’affermazione secondo cui è la prassi il criterio della verità. Attraverso la pratica rivoluzionaria occorre riscoprire la naturalità delle cose e dei rapporti umani.
Tuttavia, noi abbiamo sconvolto così tanto il rapporto uomo-natura, che oggi non sappiamo nemmeno più cosa significhi la parola “natura”. Come possiamo riscoprire la “naturalità” dei rapporti umani, se chi ce la dovrebbe insegnare, per noi non esiste più? Noi dovremmo anzitutto stabilire i criteri per definire che cosa è “naturale”. P.es. è più naturale l’autoconsumo o produrre per un mercato? E’ più immediato il valore d’uso di un oggetto o il suo valore di scambio? E’ forse naturale stare in coma vegetativo per 17 anni con un sondino che ci alimenta? No, eppure migliaia di persone sono scese in piazza parlando di diritto alla vita e accusando di omicidio chi ha staccato la spina.
Se non riusciamo a rispondere a domande di questo tipo, qualunque discorso politico o legittima l’antagonismo sociale o è astratto, puerilmente utopistico.
E’ più naturale che gli strumenti del lavoro appartengano al lavoratore o a chi è in grado di comprargli la sua capacità lavorativa? E qual è il criterio “naturale” che rende lecito l’uso di questi strumenti? Possiamo abbinare socialismo ad ambientalismo, oppure, stante l’attuale situazione tecno-scientifica, una qualunque affermazione del socialismo non potrà mai essere adeguatamente eco-compatibile? Siamo proprio sicuri di poter risolvere scientificamente i disastri della scienza e della tecnica? Siamo proprio sicuri che la scienza vada comunque salvaguardata, una volta realizzato il socialismo? Davvero il timore di un revival della religione, che ovviamente approfitterebbe subito delle sconfitte della scienza, è un motivo sufficiente per non voler ripensare criticamente i nostri criteri di vita basati sulla rivoluzione tecno-scientifica? Siamo proprio sicuri che l’umanesimo laico e il socialismo democratico abbiano bisogno di fondarsi su quella concezione di scienza e di tecnica che si è sviluppata nell’ultimo mezzo millennio?
Bisognerebbe porsi queste domande prima che arrivino i quattro cavalieri dell’Apocalisse, proprio per sapere cosa fare subito dopo che se ne saranno andati.
Sarebbe necessario un processo di “trasformazione” ovvero andare oltre la forma e rendesi conto co-scientemente che siamo per natura esseri spirituali con un “‘involucro” corpo e non corpi contenenti anche un’anima (quando non ci distraiamo tanto da dimenticarlo)
L.
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