Quand’è che uno comincia ad avvertire il bisogno di usare la propria sofferenza e persino la propria vita come occasione di riscatto personale? La risposta non è semplice. Non basta dire: “Quando non ne può più delle contraddizioni della vita”. Non tutti quelli che ritengono insopportabili le contraddizioni della vita scelgono la strada del martirio. Molti si danno all’alcol, alla droga, a una vita randagia o si rifugiano nella criminalità. La natura umana è molto complicata. Anche i bulimici e gli anoressici compiono una forma di autoimmolazione.
L’idea di martirio, propriamente parlando, è un’altra cosa. Qui non si ha a che fare con una scelta di vita istintiva, irriflessa, spontaneistica. C’è di mezzo l’ideologia, e quindi una qualche forma di consapevolezza di sé. Il martire non è solo un esasperato, ma anche uno che crede fermamente o, se si preferisce, ciecamente in qualcosa di vitale, che vorrebbe veder realizzato a tutti i costi.
Il martire può sacrificare la propria vita per un’idea, evitando scrupolosamente di scegliere soluzioni di individualistica rassegnazione come l’alcol, la droga, la criminalità ecc. Siccome ritiene giusta la propria idea, rifiuta di poterlo dimostrare scegliendo soluzioni che inevitabilmente lo metterebbero dalla parte del torto. Il martire ci tiene a mostrare che la causa del suo sacrificio sta nel carnefice. Sceglie sì una soluzione estrema, ma nel rispetto di un proprio codice etico, che è un insieme di idee, principi, valori, la cui superiorità rispetto ai codici dominanti egli cerca di palesare proprio col sacrificio di sé.
Ora, in una società pienamente democratica sarebbe facile giudicare queste persone come affette da manie di persecuzione o da manie di grandezza o da altri fissazioni psicologiche. Ammesso e non concesso che in una società del genere verrebbero fuori persone così squilibrate. Tuttavia le società in cui siamo soliti vivere non sono affatto democratiche, e questo comporta una certa difficoltà nell’interpretare un fenomeno del genere.
Quando una società è obiettivamente oppressiva e chi subisce maggiormente il peso delle contraddizioni non trova vie d’uscita usando i mezzi che gli vengono ufficialmente o legalmente consentiti, appare del tutto naturale il ricorso a mezzi extralegali, non convenzionali. Prima di autodichiararsi del tutto impotente a cambiare le cose, uno tenta l’ultima strada, quella dell’opposizione radicale, irriducibile, sino al sacrificio di sé.
Ecco, a questo punto l’interprete del fenomeno in oggetto non sa più bene come comportarsi. Inevitabilmente si chiede se in questo atteggiamento estremista non vi siano delle reali giustificazioni. Si chiede cioè quale sia il criterio per sostenere che, pur in presenza di contraddizioni insopportabili, la scelta delle soluzioni estreme resta comunque sbagliata. Non è forse vero il detto popolare: “A mali estremi, estremi rimedi”?
Qual è dunque il criterio interpretativo da usare per stabilire quando una soluzione estrema è quella giusta? Perché la storia s’è sempre preoccupata di dimostrare che, in occasione dei grandi rivolgimenti politici, il terrorismo individuale o di piccoli gruppi è una scelta sbagliata? Il motivo è semplice: perché è il popolo che deve capire quando è giunto il momento di compiere la rivoluzione. Quando comprende questo, il lato inevitabilmente doloroso della rivoluzione sarà ridotto al minimo, poiché a soffrire sarà soltanto un’esigua minoranza abituata a godere dei propri privilegi.
Per portare il popolo a questa convinzione è meglio usare lo strumento del martirio personale che non quello del terrore, quando si è costretti a scegliere fra queste due alternative. Una vittima ingiusta rende il popolo ancor più insofferente, ancor più disposto a combattere.
Tuttavia sarebbe ingenuo pensare che tante vittime ingiustamente sacrificate possano portare il popolo alla rivoluzione. Il popolo va educato a ribellarsi, facendogli capire tutti i modi per farlo, addestrandolo a usare tutti i mezzi possibili contro il tiranno, i primi dei quali sono proprio quelli che dimostrano che è il tiranno ad aver torto.
Non si può chiedere a qualcuno di autoimmolarsi cospargendosi di benzina o facendo saltare una caserma dopo essersi imbottito di tritolo. I mezzi di comunicazione a disposizione del tiranno di turno, si serviranno di quel gesto per aumentare la repressione, per giustificare ulteriori vessazioni. Occorre dunque che la resistenza alla tirannia venga compiuta in modo tale che tutta la colpa ricada sulle spalle del despota. E di ciò devono convincersi persino le forze dell’ordine, che non sono extraterrestri insensibili alle sofferenze sociali.
Ma per fare questo ci vuole senso della democrazia, ci vuole il consenso da parte del popolo. E’ il popolo che si deve convincere a scendere in piazza per abbattere la dittatura. Senza organizzazione del consenso popolare, qualunque tentativo di autoimmolazione non sortirà alcun effetto pratico a favore della rivoluzione. Anzi, quando c’è il consenso, quando è una gran parte della popolazione disposta ad autoimmolarsi, pur di realizzare la libertà, i sacrifici meramente personali han già raggiunto il loro obiettivo.
Bisogna però fare attenzione, poiché persino di fronte a un consenso popolare l’interprete deve chiedersi se esso vada considerato effettivamente come una soluzione al problema della dittatura o non invece come una riproposizione di essa in altre forme e modi. Anche il nazismo e il fascismo furono movimenti popolari; anche il bolscevismo, agli inizi, fu un movimento di massa, ma poi divennero feroci dittature, peggiori delle precedenti.
Questo per dire che non solo bisogna stare attenti a valutare le soluzioni individualistiche dettate dalla esasperazione, ma ancor più bisogna stare attenti a valutare quelle collettivistiche, poiché queste ingannano maggiormente l’opinione pubblica e i suoi interpreti.