Onore ai giornalisti come l’israeliano Gideon Levy! Anziché il volgare provincialismo degli scontri Santoro-Annunziata, a quando anche in Italia un dibattito in tv come quello andato in onda negli Usa e che posto oggi interamente tradotto nel blog?
Mentre da noi infuria il provincialismo dello scontro Santoro/Annunziata a causa dell’ultima puntata di Anno Zero ritenuta da molti troppo a favore dei palestinesi, come se essere contro le mattanze ” a prescindere” sia vietato, su Facebook un gruppetto di miei colleghi ha lanciato l’idea del Premio Nobel per la Pace al giornalista israeliano Gideon Levy, che ha scelto da tempo di vivere a Gaza. Proposta chiaramente impossibile, che mi è stato addirittura chiesto di patrocinare (!), ma che vale la pena rendere nota anche per tacitare i troppi imbecilli e disonesti di casa nostra. Queste le motivazioni:
“Gideon Levy è’ il giornalista israeliano di Haaretz che da anni incarna l’anima più illuminata del suo popolo. Una vera colomba della pace che con le sue lucide analisi e i suoi coraggiosi commenti ha finito per diventare una spina nel fianco dei falchi che si sono succeduti al governo. La sua voce rappresenta la vera coscienza – non solo quella critica – di una nazione che ha subito inique persecuzioni ed atroci sofferenze, ma che oggi rischia di trasformarsi nel carnefice di un popolo con il quale è destinato invece ineluttabilmente a convivere.
Anche stavolta, in occasione della guerra ad Hamas, di fronte al terribile massacro degli inermi abitanti della Striscia di Gaza, la voce di Gideon Levy sembra essere l’ultimo baluardo della ragione contro il cieco furore dei suoi governanti. In poco più di 15 giorni sono rimasti sul campo mille palestinesi, di cui la maggior parte civili: donne, anziani e bambini (più di 300). Uno spargimento di sangue caratterizzato da veri e propri episodi criminali (come quello di Zeitun, con i 110 civili ammassati in un edificio poi bombardato; o la scuola con le insegne Onu presa a cannonate, provocando 40 morti, tutti civili) che rischia solo di alimentare vendette: altro odio, altra violenza, altri morti. Rafforzando, invece di indebolire, il terrorismo.
Gideon Levy non ha esitato a puntare il dito contro i responsabili – Ehud Olmert, Tzipi Livni ed Ehud Barak (“due di loro candidati a primo ministro; il terzo al un processo per crimini di guerra”) – con parole pesanti come pietre che nessun giornalista occidentale (e tanto meno italiano) avrebbe mai osato pronunciare: “Se continueremo così – ha scritto sulle colonne di Haaretz – prima o poi a L’Aia (sede del Tribunale internazionale per i crimini di guerra, ndr) sarà creata una nuova corte speciale”.
Tutto ciò gli sta ovviamente procurando minacce ed insulti da parte dei più fanatici. Ma lui non sembra curarsene: “Uno spirito malvagio è calato sulla nazione. Questo non è il mio patriottismo. Il mio patriottismo è criticare, fare domande le fondamentali. Questo non è solo il momento dell’uniforme e della fanfare, ma dell’umanità e della compassione”.
Mi chiedo quando in Italia, dove si annega nel bicchier d’acqua versato in modo molto prepotente da Lucia Annunziata, potremo vedere un dibattito televisivo come quello andato in onda negli Usa, che con buona pace delle Lucie Annunziate spazza via una serie di luoghi comuni e di consolidate bugie e che è stato tradotto per noi dal lettore che si firma Vox e che ringrazio per la disponibilità:
“Ex-ambasciatore Martin Indyk contro Norman Finkelstein.
Un dibattito sull’assalto a Gaza da parte di Israele e sul ruolo degli USA nel conflitto. L’attacco di Israele contro Gaza e’ al tredicesimo giorno [ormai 23-mo – N.d.T.]. Circa 700 palestinesi sono stati uccisi [oggi oltre 1200 – N.d.T.], alcune migliaia sono rimaste ferite e la crisi umanitaria si ingigantisce. Intanto, sono morti 10 israeliani, di cui 4 colpiti da fuoco amico. Un cessate il fuoco non e’ ancora stato raggiunto e l’offensiva continua.
Oggi ospitiamo un dibattito tra Martin Indyk, ex ambasciatore degli USA in Israele e Assistente del Segretario di Stato per gli Affari del Medioriente durante la presidenza Clinton, direttore del Centro Saban per le Politiche del Medioriente presso l’Istituto Brookings e autore di Gli Innocenti all’Estero: Un rapporto approfondito sulla diplomazia americana della pace nel Medioriente, e Norman Finkelstein autore di numerosi libri, incluso L’Industria dell’Olocausto, Immagine e realta’ del conflitto israeliano-palestinese, e Al di la’ di Chutzpah.
JUAN GONZALEZ: Decine di migliaia di palestinesi hanno dovuto fuggire dalle loro case nella citta’ di Rafah, mentre Israele intensifica l’assalto alla Striscia di Gaza. I palestinesi hanno raccontato degli attacchi aerei israeliani che hanno colpito abitazioni, moschee e tunnel della zona. L’Agenzia France-Presse ha citato le parole dei testimoni, secondo i quali dozzine di carri armati israeliani sono entrate nel sud di Gaza, dirigendosi verso Rafah. Sono stati anche confermati i violenti scontri tra i combattenti palestinesi e i soldati israeliani attorno Khan Yunis. L’ONU ha riferito che le forze israeliane hanno sparato contro uno dei suoi convogli umanitari. Al Jazeera riporta che almeno un palestinese e’ stato ucciso e altri due feriti durante questo attacco. Intanto, Israele ha continuato a bombardare Gaza, compiendo 60 attacchi aerei in una notte. Gli abitanti l’hanno descritto come uno dei bombardamenti piu’ pesanti da quando e’ cominciata l’offensiva.
Al Jazeera comunica che almeno 700 [oggi oltre 1200] palestinesi, di cui 219 bambini [oggi oltre 450] sono morti a Gaza dall’ inizio dell’aggressione, ovvero dal 27 dicembre 2008. Oltre 3000 persone [attualmente oltre 4000] sono rimaste ferite. Intanto, 10 israeliani sono morti nello stesso lasso di tempo, di cui 7 militari. Quattro di loro uccisi dal cosi’ detto fuoco amico.
Sul fronte diplomatico, continuano gli sforzi per assicurare un armistizio a Gaza, con rappresentanti ufficiali di Israele che andranno al Cairo per ascoltare i dettagli di un piano di tregua messo a punto da Egitto e Francia. Mercoledi’, Israele ha detto che accetta in linea di principio la proposta, ma vuole studiare il piano. Una delegazione di Hamas e’ attesa al Cairo per colloqui paralleli.
Il leader palestinese Mahmoud Abbas e’ atteso per venerdi’. Nel frattempo, il consiglio di sicurezza dell’ONU sembra in un vicolo cieco sulla crisi. I paesi arabi vogliono un Concilio che voti una risoluzione per mettere fine all’attacco, mentre la Gran Bretagna, la Francia e gli USA spingono per una dichiarazione piu’ blanda, approvando la proposta franco-egiziana.
AMY GOODMAN: Ora passiamo al ruolo degli Usa nel conflitto e alle prospettive della nuova amministrazione di Obama. Martin Indyk e’ un consigliere di Hillary Clinton, la quale e’ stata invitata a diventare Segretario di Stato di Obama ed e’ un potenziale inviato speciale nel Medioriente. Martin Indyk e’ in collegamento con noi da Washington, D.C. Siamo anche in collegamento con Norman Finkelstein qui a New York, uno dei leader fra i critici della politica estera israeliana e autore di molti libri. Ci rivolgeremo per primo all’ambasciatore Indyk.
Potrebbe spiegarci la sua opinione sul perche’ Israele abbia iniziato questo attacco?
MARTIN INDYK: Buon giorno, Amy. Mille grazie per avermi invitato a partecipare a questo show. Mi sento un po’ in trincea, qui, perche’ non mi era stato detto che ci sarebbe stato un dibattito con Norman Finkelstein. Non sono interessato a farlo. Inoltre, non sono un portavoce di Israele. Tuttavia, cerchero’ di rispondere alle domande come meglio posso.
Penso che quel che e’ avvenuto sia questo: c’era una tregua informale tra Hamas e Israele che e’ stata mantenuta per circa 5 mesi. Poi Hamas ha deciso di rompere la tregua sparando una lunga serie di razzi su civili israeliani nel sud di Israele. E il governo israeliano ha risposto con una forza intesa, come hanno detto, a ristabilire la deterrenza e a prevenire Hamas dal farlo ancora, e anche per far smettere Hamas di contrabbandare armi a Gaza.
AMY GOODMAN: Norman Finkelstein, qual e’ la sua opinione sull’attacco di Israele?
NORMAN FINKELSTEIN: Be’, la situazione mi sembra molto chiara. La risposta si puo’ trovare sul sito israeliano, il website del Ministero degli Esteri. Mr. Indyk e’ stato corretto circa il fatto che Hamas abbia aderito alla tregua dal 17 giugno al 4 novembre 2008. Ma e’ dal 4 novembre in poi che il signor Indyk, secondo me, se ne va per la tangente. Il rapporto e’ chiaro: Israele ha rotto la tregua entrando a Gaza e uccidendo 6 o 7 combattenti palestinesi. A questo punto – e sto citando il website ufficiale di Israele – Hamas ha reagito all’attacco israeliano, lanciando dei missili.
Ora, per quanto riguarda il motivo, anche questo e’ chiaramente espresso dal rapporto. Secondo Haaretz, il ministro della Difesa Ehud Barak ha incominciato i suoi piani di invasione ben prima che sia addirittura cominciata la tregua.
Infatti, secondo l’Haaretz di ieri, questi progetti di invasione sono nati a Marzo [2008]. E la motivazione principale dell’invasione penso sia duplice. Primo: come anche il signor Indyk osserva correttamente, per sottolineare quel che Israele chiama “capacita’ di deterrenza”, che in parole povere rappresenta la capacita’ di Israele di terrorizzare la regione e costringerla alla sottomissione. In seguito alla sconfitta nel luglio 2006 in Libano, [Israele] ha sentito la necessita’ di passare il messaggio che Israele e’ ancora una potenza combattente, ancora in grado di terrorizzare coloro che osano sfidarne la parola.
La seconda ragione principale dell’attacco e’ che Hamas stava dando segnali di volere una risoluzione diplomatica del conflitto in base ai confini del giugno 1967. Cioe’ Hamas si era unita al consensus internazionale, alla maggioranza della comunita’ internazionale, cercando una risoluzione diplomatica. A questo punto, Israele e’ stata messa di fronte a quel che gli israeliani chiamano “un’offensiva plestinese pacifica”. Per sconfiggere questa offensiva pacifica, hanno deciso di smantellare Hamas.
JUAN GONZALEZ: Vorrei rivolgermi all’ambasciatore Indyk. Questo ritornello che i sostenitori di Israele ripetono, che Hamas voglia la distruzione di Israele. Secondo lei, nell’ultimo anno c’e’ stato un cambiamento nella posizione dei leader di Hamas?
MARTIN INDYK: No, non credo che ci siano prove di questo. Hamas e’ molto chiara sul fatto che non vuole la pace con Israele e non riconoscera’ Israele. La sua intenzione e’ di distruggere lo stato ebraico, e che e’ un abominio nel cuore della terra araba, del mondo islamico e cosi’ via. Insomma, non vedo alcun cambiamento. Penso che il solo cambiamento sia sul territorio. Hamas, avendo vinto le elezioni (e non abbiamo bisogno di addentrarci nei dettagli) come risultato di una gara tra Hamas e Fatah su chi sia il leader, Hamas ha preso il controllo di Gaza con la forza, in effetti con un colpo di stato contro l’Autorita’ Palestinese. Cosi’, e’ passata da organizzazione terroristica a governo terrorista, responsabile del controllo del territorio di Gaza e responsabile delle necessita’ di un milione e mezzo di palestinesi. Tra l’altro questo e’ stato un cambiamento contestato all’interno di Hamas. La leadership esterna di Hamas, che ha sede a Damasco ed ha a capo Khaled Meshal, era contraria all’idea di prendere il controllo di Gaza, proprio perche’ non voleva la responsabilita’ dei bisogni degli abitanti di Gaza. Ma i militanti di Hamas hanno deciso di prendere Fatah e sbatterla fuori.
Di conseguenza, Hamas si e’ ritrovata ad affrontare un dilemma. Dovendo governare Gaza, col tempo avrebbe dovuto moderare le proprie posizioni. Nel contesto degli sforzi diplomatici per una tregua, ora devono o continuare ad attaccare Israele da Gaza e quindi non accetteranno alcuna condizione proposta da Israele per fermare il contrabbando di armi, oppure devono concentrarsi sui bisogni della loro gente.
A tale scopo, vorranno l’apertura dei passaggi, affinche’ la gente possa entrare e uscire da Gaza. In altre parole, dovranno fare una scelta: se vogliono usare questa tregua e continuare quel che loro chiamano resistenza, ma che noi recepiamo come violenza e terrorismo contro i nostri civili, oppure se concentrarsi sulle responsabilita’ per Gaza. E questo dilemma, come ho detto, potrebbe portarli a moderarsi, ma per adesso non ne vedo ancora traccia.
AMY GOODMAN: Norman Finkelstein?
NORMAN FINKELSTEIN: Io credo che il problema della presentazione del signor Indyk sia il costante rivoltare cause ed effetti. Poco fa ha detto che e’ stata Hamas a rompere la tregua, sebbene sappia benissimo che e’ stata invece Israele a romperla il 4 novembre. Ora rivolta causa ed effetto su come si sia creato l’impasse. Nel gennaio del 2006, come egli stesso scrive nel suo libro, Hamas e’ arrivata al potere durante libere elezioni. Ora, pero’, sostiene di aver scritto che Hamas sia arrivata al potere grazie a un colpo di stato per eliminare l’Autorita’ Palestinese. Io sono certo che il signor Indyk sappia bene, come e’ stato documentato nel numero di aprile 2008 di Vanity Fair dallo scrittore David Rose in base a documenti interni USA, che erano proprio gli Usa, assieme all’ Autorita’ Palestinese, a voler fare un putsch contro Hamas, la quale e’ riuscita ad evitarlo. Questo non e’ un punto controverso, e’ un fatto.
Ora il signor Indyk ci dice che Hamas e’ riluttante o poco chiara sul fatto di voler o meno governare Gaza. Ma la questione non e’ se voglia o non governare. La questione e’: potra’ governare a Gaza se Israele continua a mantenere l’embargo e rende impossibile ogni attivita’ economica tra i palestinesi? Tra l’altro, l’embargo era stato messo in atto ben prima che Hamas andasse al potere. L’embargo non ha niente a che fare con Hamas. L’embargo e’ arrivato quando degli americani, in particolare James Wolfensohn, erano stati mandati la’ per cercare di romperlo, dopo che che Israele aveva rimesso le proprie truppe a Gaza. [un passaggio poco chiaro nell’originale – N.d.t.]
AMY GOODMAN: L’ex presidente della Banca Mondiale [James Wolfensohn]?
NORMAN FINKELSTEIN: Esatto. Tutto il problema sta nel fatto che Israele non vuole che Gaza si sviluppi e non vuole risolvere il conflitto diplomaticamente. Il signor Indyk sa benissimo che entrambe le leadership di Damasco e di Gaza hanno ripetutamente annunciato di desiderare la risoluzione del conflitto in base ai confini del giugno 1967. La cosa e’ ben documentata. E’chiara senza alcuna ambiguita’. Ogni anno, l’Assemblea Generale dell’ONU vota una risoluzione per una soluzione pacifica della questione palestinese. E ogni anno il voto e’ lo stesso: tutto il mondo da una parte, e Israele/Usa/Australia e qualche atollo dei Mari del Sud dall’altra. Il voto nel 2008 e’ stato 164 a 7. Nel 1989, il voto era 151 a 3. Ogni anno abbiamo tutto il mondo da una parte e Usa/Israele/Rep. Dominicana dall’altra. Abbiamo la Lega Araba, 22 membri, a favore della soluzione dei due stati in base ai confini del giugno 1967. Abbiamo l’Autorita’ Palestinese a favore della soluzione dei due stati in base ai confini del giugno 1967. Adesso abbiamo anche Hamas a favore della soluzione dei due stati in base ai confini del giugno 1967.
Ma l’unico e solo ostacolo e’ Israele, sostenuta dagli Usa. Questo e’ il problema.
AMY GOODMAN: Dunque, ambasciatore Indyk, perche’ Israele non accetta questa tregua?
MARTIN INDYK: Guardi, Amy, io ero stato invitato qui per parlare del mio libro e della situazione a Gaza. Non a un dibattito con Norman Finkelstein, e non sono preparato a questo. Percio’ se lei vuole parlare della situazione, sono lieto di farlo, ma non sono qui come rappresentante del governo israeliano. Puo’ facilmente invitare qualcun altro a…
AMY GOODMAN: No, certo che no. Ma noi le chiediamo la sua opinione. Io non gliela chiedo come a un rappresentante di Israele. Chiedo solo la sua personale opinione.
MARTIN INDYK: Be’, perche’ non ci concentriamo su qualche altro aspetto, come il ruolo dell’America, o qualcosa del genere?
AMY GOODMAN: Molto bene.
MARTIN INDYK: Usciamo da questo ridicolo dibattito, in cui lui fa solo propaganda per Hamas.
AMY GOODMAN: Mi permetta di farle ascoltare l’attuale Segretario di Stato Condoleezza Rice, quel che ha detto l’altro giorno all’ONU a proprosito del raggiungimento di un accordo sulla tregua. Mi permetta di mostrarle questo video:
CONDOLEEZZA RICE: Centinaia di migliaia di israeliani sono vissuti ogni giorno sotto il tiro dei missili e francamente nessun paese, nessuno dei nostri paesi, sarebbe disposto a tollerare circostanze del genere. Inoltre, la popolazione di Gaza ha dovuto assistere alla diminuzione della sicurezza e all’aumento di mancanza di legge, al peggiorare delle loro confizioni di vita a causa di Hamas, che ha iniziato con un colpo di stato illegale contro l’Autorita’ Palestinese. Una tregua che ritorni a quelle circostanze e’ inaccettabile e non durerebbe. Dobbiamo urgentemente convenire su una tregua che possa durare e possa portare reale sicurezza.
AMY GOODMAN: Ambasciatore Indyk, quale sarebbe la sua risposta al segretario di Stato? Lei sara’ consigliere del nuovo Segretario, Hillary Clinton. Pensa che l’amministrazione Obama debba spingere per una tregua subito?
MARTIN INDYK: Mi permetta di fare un’altra precisazione prima di rispondere. Io ero consigliere di Hillary Clinton durante la sua campagna per la presidenza, ma al momento non sono ancora suo consulente e nulla di quel che posso dire qui dev’essere preso come il suo punto di vista.
Io credo che sia essenziale ottenere un cessate il fuoco al piu’ presto possibile. Penso che si stiano facendo molti sforzi, come si e’ gia’ descritto. Spero che questo possa avvenire prima che il neo-eletto presidente Obama occupi lo Studio Ovale tra [pochi giorni] e che il nuovo Segretario di Stato Hillary Clinton prenda il suo incarico.
Se cosi’ non dovesse avvenire, essi dovranno lavorare in modo molto efficiente per raggiungere l’obiettivo al piu’ presto, non solo per cercare di spingere verso una soluzione al conflitto israeliano-palestinese, ma secondo me anche per creare un nuovo contesto per una nuova iniziativa Obama-Clinton in vista di una poce onnicomprensiva che coinvolga anche negoziati tra Israele, Siria e Libano.
Il neo-presidente Obama ha detto durante la campagna elettorale che sara’ la sua priorita’ fin dal primo giorno e penso che questo sia molto importante. Ma il suo desiderio di occuparsi di questo problema e’ diventato ora una necessita’ per via della crisi di Gaza, una necessita’ per due, anzi, per tre motivi.
Il primo e’ di porre fine a questo conflitto dopo tutti questi anni e tanti morti da entrambe le parti. Il secondo e’ che quelli del mondo arabo che vogliono trovare una soluzione al conflitto con Israele sono oggi seriamente indeboliti a causa di questa crisi a Gaza. C’e’ molta rabbia nel mondo arabo e islamico. Coloro che si oppongono a una soluzione pacifica del conflitto, a cominciare da Hamas, Hezbollah e leadership iraniana, questo blocco che rigetta la soluzione, ora ha il vento in poppa. Ed e’ molto importante morstrare che moderazione, compromesso, riconciliazione e pace possono prevalere e ottenere un buon risultato per i palestinesi e gli arabi, piuttosto che il punto di vista che [loro] propagandano, e che consiste in violenza, terrorismo e sfida.
JUAN GONZALEZ: Ambasciatore Indyk, vorrei farle una domanda sui tempi dell’offensiva israeliana. E’ chiaro che siamo agli sgoccioli dell’amministrazione Bush, prima che il neo-eletto Obama inauguri la presidenza.
Le ha la sensazione che i tempi [di questa offensiva] abbiano qualcosa a che vedere col fatto che la risposta degli Usa potrebbe mutare, o almeno transitare come transitano le amministrazioni?
MARTIN INDYK: E’ importante comprendere che la tregua e’ finita, una tregua di 6 mesi, e non credo che gli israeliani abbiano deciso di proposito che era il momento di colpire. Se Hamas non avesse lanciato razzi, penso che sarebbero stati perfettamente felici di continuare la tregua. Ehud Barak, il ministro della Difesa israeliano, e’ il vero stratega di tutta questa operazione ed e’ l’uomo con cui io ho lavorato molto da vicino quando ero ambasciatore in Israele (E.B. era il primo ministro all’epoca). Si cercava di ottenere una completa e onnicomprensiva pace nell’ultimo anno dell’amministrazione Clinton e nel primo anno di Ehud Barack come Primo Ministro. Ma quel che ho appreso nei giorni in cui ho lavorato con lui e’ che e’ un uomo che considera le operazioni secondo un calendario molto ristretto. Coltiva perfino l’ hobby di smontare orologi. Insomma, e’ ossessionato dai tempi e questo e’ qualcosa che io sottolineo nel mio libro, quando descrivo il modo in cui tento’ di portare avanti le operazioni di pace nel 2000. A quell’ epoca calcolo’ male i tempi.
Ora, ha davanti due date. La prima e’ quella alla quale ha fatto riferimento lei, 20 gennaio [2009], quando il nuovo presidente si insedia nel suo ufficio qui a Washington. George W. Bush ha sostenuto molto Israele e, per la maggior parte del suo governo, ha lasciato carta bianca a Israele nei confronti di Hamas (che egli considera un’organizzazione terroristica) perche’ cio’ fa parte della guerra al terrore. Percio’, si, credo che Ehud Barak abbia probabilmente calcolato che deve finire questa operazione sotto l’egida di Bush, prima che arrivi Obama.
Ma c’e’ una seconda data che credo sia ancora piu’ importante dal suo punto di vista: il 10 febbraio [2009]. In quella data egli dovra’ fronteggiare l’elettorato assieme gli altri politici di Israele, a meno che le elzioni non vengano spostate, cosa che potrebbe difficilmente accadere. Per tutte queste ragioni, ha bisogno che l’operazione abbia fine. Ma se l’esercito israeliano prendesse il controllo di Gaza City, del campo rifugiati a Jabalya e di Rafah City nel sud di Gaza, e poi improvvisamente l’elettorato israeliano il 10 febbraio vede che Israele ha di nuovo occupato Gaza (che aveva lasciato unilateralmente alcuni anni fa), che i soldati israeliani muoiono, che tutto il mondo condanna Israele e c’e’ una crisi nelle relazioni Usa-Israele col nuovo presidente, Ehud Barak non verra’ di certo ringraziato. Ed e’ per tutto questo che gia’ oggi potete vedere da parte sua molto interesse alla tregua e il governo israeliano ci sta lavorando sopra. Credo che cercheranno di arrivare a un accordo prima che Obama occupi la presidenza…
AMY GOODMAN: Norman Finkelstein, mi permetta di…
MARTIN INDYK: … in modo da mostrare al suo elettorato che e’ stata un’operazione di successo, dal punto di vista di Israele.
AMY GOODMAN: Norman Finkelstein, lei condivide il punto di vista dell’ambasciatore Indyk che Israele avrebbe continuato la tregua se Hamas non avesse cominciato a lanciare razzi?
NORMAN FINKELSTEIN: I documenti mostrano che Hamas voleva continuare la tregua, ma a condizione che Israele allentasse l’assedio. Come molti spettatori sapranno, molto prima che Hamas riprendesse i lanci di razzi verso Israele, i palestinesi soffrivano per una crisi umanitaria a Gaza, a causa del blocco. L’ex Alto Commissario per i Diritti Umani [ed ex-presidente dell’Irlanda] Mary Robinson ha descritto quel che avveniva a Gaza come “distruzione di una civilta’”. E questo durante il periodo della tregua. Ora teniamo a mente che il signor Indyk vuole parlare del suo libro. Ebbene, parliamo del libro. Sono rimasto alzato fino all’1:30 di notte per finire di leggerlo, per arrivare a pagina 415, e assicurarmi di aver letto ogni singola parola.
Il problema, con questo libro, come anche con la presentazione qui, e’ la sistematica distorsione dei dati del processo di pace. Egli mente non solo ai suoi lettori, ma a tutto il popolo americano. Continua a mettere il peso della responsabilita’ per l’impasse nel processo di pace solo sui palestinesi. Poco fa ha fatto riferimento a “coloro che rigettano” [la pace]e che stanno tentando di bloccare la soluzione del conflitto. Ma cosa mostrano i fatti? I fatti mostrano che negli ultimi 20 e passa anni, l’intera comunita’ internazionale ha cercato di sistemare il conflitto in base ai confini del giugno 1967, un’equa risoluzione per la questione dei rifugiati.
Allora, anche le 164 le nazioni dell’ONU sarebbero tra “coloro che rigettano” [la pace]? E i soli a favore della pace sarebbero gli USA, Israele, Nauru, Palau, la Micronesia, le Marshall Islands e l’ Australia? Chi sono veramente quelli che rigettano [la pace]? Che si oppongono ad essa? Secondo il racconto del signor Indyk sui negoziati che culminarono negli accordi di Camp David e Taba, egli ci dice che erano i palestinesi a bloccare la risoluzione. Ma cosa ci mostrano i fatti? I fatti mostrano che nell’istanza cruciale sollevata a Camp David (a quell’ epoca secondo i parametri di Clinton), e poi a Taba, su ogni singolo punto tutte le concessioni arrivavano da parte dei palestinesi. Israele non fece nessuna concessione. Tutti i compromessi venivano dai palestinesi. I palestinesi hanno ripetutamente espresso di essere disposti a sanare il conflitto secondo le leggi internazionali.
La legge e’ molto chiara. Luglio 2004: l’organo giudiziario internazionale piu’ alto, la Corte Internazionale di Giustizia, ha disposto che Israele non ha alcun diritto ne’ sulla West Bank, ne’ su Gaza. Non ha diritti su Gerusalemme. L’Est arabo di Gerusalemme, secondo l’alta corte giudiziaria, e’ un territorio occupato. La Corte Internazionale di Giustizia ha disposto che tutti i villaggi colonici del West Bank sono illegali secondo la legge internazionale. E’ importante notare che, malgrado cio’, su tutte queste questioni, i palestinesi erano disposti a fare concessioni. Erano disposti a permettere a Israele di tenersi il 60% dei territori colonizzati e l’ 80% dei coloni. Erano disposti a fare compromessi su Gerusalemme. Erano perfino disposti a rinunciare, in pratica, al loro diritto al ritorno. Hanno fatto tutte le concessioni possibili. Israele non ne ha fatta alcuna. Ora, come viene mostrato questo fatto nel libro di Martin Indyk?
Cito: “[Da una parte] la coraggiosa e audace iniziativa di Ehud Barak per la pace, e [dall’altra] Arafat e l’OLP che respingono queste inziative audaci e coraggiose”. Capovolge completamente la realta’.
AMY GOODMAN: Ambasciatore Indyk, cosa risponde?
MARTIN INDYK: Gliel’ ho detto, Amy, non sono qui per dibattere con Norman Finkelstein. Queste sono regole cha ha creato lei…
NORMAN FINKELSTEIN: Io sto parlando del suo libro.
MARTIN INDYK: …per invitarmi a questo programma. E non intendo rispondere a questi attacchi ad hominem.
AMY GOODMAN: Ma egli sta parlando del suo…
MARTIN INDYK: No. Mi lasci dire…
AMY GOODMAN: Ma noi desideriamo darle l’occasione di presentare il suo libro.
MARTIN INDYK: Si, gia’, questo e’quel che credevo voleste fare. Sul serio, spero che gli spettatori leggano il libro e si facciano la propria idea. Io ho cercato di fare un resoconto onesto. E’ un libro autocritico. Ed e’ un libro in cui ogni mia descrizione dell’accaduto e’ piena di profonde critiche agli errori che noi del gruppo americano per la pace abbiamo commesso. C’e’abbstanza critica da condividere. Il libro e’ critico anche dello stesso Ehud Barak ed e’ la voce piu’ onesta possible di qualcuno che e’ stato coinvolto in tutti questi negoziati, profondamente coinvolto.
AMY GOODMAN: Quali erano questi errori, ambasciatore Indyk?
MARTIN INDYK: Ho cercato di raccontarlo onestamente. E quel che Norman Finkelstein ha fatto e’ semplicemente distorcere le mie argomentazioni e caricarle con la sua solita batteria di risoluzioni legali, eccetera. Ma se la gente vuole capire quanto sia difficile costruire la pace, allora spero che legga, piuttosto che accettare la sua propaganda.
AMY GOODMAN: Come fara’ Obama a non ripetere gli errori del passato, come lei li delinea nel suo libro?
MARTIN INDYK: Grazie. Io credo che una lezione fondamentale, sia dal lato dell’approccio di Clinton, che voleva trasformare il Medioriente attraverso la pace, sia dell’approccio di Bush che voleva trasformarlo con la guerra, i cambi di regime e la promozione della democrazia, consista nel fatto che Obama, nel disegnare una visione di pace, sicurezza e normalita’ nella regione, debba anche essere molto realistico su quel che si puo’ raggiungere. Sia Clinton che Bush, cosi’ diversi sotto molti aspetti, hanno cercato di trasformare la regione a somiglianza dell’America. Io penso che Obama debba avere un approccio piu’ umile, meno arrogante e lavorare insieme ai leader e ai popoli della regione per aiutarli a muoversi verso un mondo di pace. Il ruolo americano e’ indispensabile. Ma dobbiamo essere piu’ saggi. Piu’ flessibili. Dobbiamo capire che esistono enormi differenze tra noi e loro, che dobbiamo avere piu’ attenzione per la loro cultura, i loro valori e la loro politica, piuttosto che presumere che siano i nostri stessi. Questo e’ un proposito molto generale, ma da esso puo’ scaturire piu’ saggezza nell’ affrontare i dettagli del costruire la pace. Non possono raggiungere la pace senza di noi, ma il nostro ruolo dev’essere piu’ saggio.
AMY GOODMAN: Norman Finkelstein, lei cosa pensa debba avvenire?
NORMAN FINKELSTEIN: A me sembra piuttosto chiaro. In primo luogo, gli USA e Israele si devono unire al resto della comunita’ internazionale e devono rispettare la legge internazionale. Martin Indyk dismette quelle che chiama risoluzioni legali. Ma io non credo che si possa volgarizzare la legge internazionale. E’ una cosa seria. Se Israele sfida la legge internazionale, dev’essere chiamato a risponderne, come ogni altro paese del mondo. Su un punto sono d’accordo con Martin Indyk. Il signor Obama deve mettersi allo stesso livello del popolo americano. Dev’essere onesto su quale sia il vero ostacolo alla soluzione del conflitto. Non sono le obiezioni palestinesi. E’ il rifiuto di Israele – sostenuta dal governo USA – di osservare le leggi internazionali e l’opinione della comunita’ internazionale. La sfida maggiore per tutti noi americani e’ quella di riuscire a vedere oltre le menzogne. E purtroppo, vedere oltre quelle menzogne propagandate da Martin Indyk nel suo libro con la pretesa che siano i palestinesi – e non Israele e gli Usa – il maggior ostacolo alla pace”.
20/01/09/ Gaza – Infopal. Questa mattina, le autorità israeliane hanno permesso l’entrata nella Strisica di Gaza di aiuti umanitari, alimentari e sanitari.
Inoltre, 42 feriti gazesi hanno attraversato il valico di Rafah verso l’Egitto per ricevere cure mediche.
Reppresentanti dell’ambasciata palestinese al Cairo si sono recati nella parte egiziana del valico di Rafah per coordinare gli sforzi umanitari.
49 medici provenienti da Russia, Canada, Gran Bretagna, Giordania, Egitto, Bahrain, Grecia, Irlanda sono entrati nella Striscia per dare il cambio ai colleghi palestinesi stremati; inoltre, sono state trasferite 140 tonnnellate di medicine e attrezzature sanitarie, comprese 13 ambulanze, giunte dal Marocco, dal Qatar, dal Bahrain e dall’Egitto.
Sono arrivate a Gaza anche 401 tonnellate di cibo donate da Libia, Marocco, Oman e Giordania.
Organizzazioni civili egiziane hanno offerto ai palestinesi della Striscia 11.850 lenzuoli.
Dai valichi israeliani sono entrate 90 tonnellate di alimenti, mandate dalla Libia, 50 ton. di farina e 40 di riso.
http://www.infopal.it
Meron Benvenisti
Nato nel 1934 a Gerusalemme da padre sefardita e madre ashkenazita, è uno scienziato e uomo politico israeliano. Svolse mandati amministrativi a Gerusalemme fra il 1971 e il 1978, con particolare riferimento alla zona Est e alle sue vicinanze arabe. E’ un critico acuto della politica israeliana riguardo la Striscia di Gaza, e più in generale della linea Sharon. Sostiene l’idea di uno stato “binazionale”, scrive per Ha’aretz, The guardian e Le Monde Diplomatique e ha pubblicato diversi libri sul tema: West Bank Data Project: A Survey of Israel’s Policies (1984), Intimate Enemies: Jews and Arabs in a Shared Land(1995), City of Stone: The Hidden History of Jerusalem (1996). L’ultimo è Sacred Landscape: Buried History of the Holy Land Since 1948 (University of california press, 2002) più la recentissima autobiografia Son of the Cypresses: Memories, Reflections, and Regrets from a Political Life (2007).
Con Benny Rubenstein ha pubblicato The West Bank Handbook: a Political Lexicon (1986).
Da un articolo del Manifesto di M. Giorgio (24/11/2006):
“Meron Benvenisti […] punta l’indice contro il pacifismo di maniera. Benvenisti, in un commento su Haaretz, ha accusato Grossman di aver parlato a nome di quella parte della popolazione ashkenazita, laica, nazionalista e vagamente socialista – che continua a pensare che il modello israeliano era perfetto ma si è rovinato dopo l’occupazione di Cisgiordania e Gaza nel 1967. L’intellettuale ha sottolineato che Grossman non ha condannato la decisione del governo Olmert di scatenare una guerra contro il Libano (nella quale peraltro lo scrittore ha perduto un figlio, Uri) ma la sua gestione. «In ciò la sinistra si è unita a coloro che lamentano la perdita della capacità di deterrenza, in modo da preparare Israele per nuovo round di battaglie», ha scritto Benvenisti. «Dove era (nel discorso di Grossman) l’appello alla lotta contro l’ingiustizia provocata dal muro, dall’assedio attuato con posti di blocco in Cisgiordania e contro Gaza, dove era l’appello contro l’uccisione di donne e bambini, la distruzione delle istituzioni dell’Anp, la deportazione di famiglie palestinesi perché prive di documenti?», ha concluso.”
X M.T.149
Non so se in Israele esistano i manicomi ma sicuramente nelle scuole la Storia non viene insegnata bene o in modo molto “particolare”:
dalla Shoah bisognava imparare una lezione molto più alta del “mai più”, quella cioè del “mai più a nessun popolo del mondo”.
L.
Avraham Burg
Nato presso Gerusalemme nel 1955, sua madre fu tra i sopravvissuti del massacro di Hebron del 1929. Ha ricoperto la carica di Speaker alla Knesset (equivalente pressappoco al nostro Presidente della Camera) dal 1999 al 2003, ed è stato presidente dell’Agenzia Ebraica per Israele; oggi è parlamentare laburista. Nel 2007 ha scritto Lenazeach et Hitler (Vincere Hitler), testo con cui si “congeda” dal sionismo, sottolineando la contraddizione nel definire uno Stato contemporaneamente “ebraico” e “democratico”, cosa che lo porta a individuare nel paese “la versione contemporanea della Germania degli anni ‘30″. Online è disponibile un suo articolo in italiano La morte del sionismo. Dati e commenti in italiano, qui: http://www.metaforum.it/forum/showthread.php?t=1172 .
Uri Davis
Nato a Gerusalemme nel 1943, è un intellettuale e attivista israeliano. I suoi interessi principali sono l’apartheid e la democrazia nel Medio Oriente e in Israele; si è distinto per la lotta a favore dei diritti umani in Palestina. E’ stato vicepreseidente della Israeli League for Human and Civil Rights e ha pubblicato numerose opere di geopolitica, fra cui Israel: An Apartheid State (1987), Citizenship and the State in Middle East (2000) e Apartheid Israel: Possibilities for the Struggle Within (2003). Membro del Palestine National Council, si descrive come “Ebreo palestinese antisionista”. È disponibile online il suo Apartheid in Israele and the jewish national fund of Canada.
Lev Luis Grinberg
Nato a Buenos Aires nel 1953. Sociologo ed economista, è direttore dell’Humphrey Institute per la Ricerca Sociale alla Ben Gurion University. Nel 2004 ha esortato la comunità europea ad intervenire direttamente per fermare il “genocidio simbolico” dei palestinesi e “salvare” Israele da se stesso:
“Incapable of getting beyond the trauma of the Shoah and the insecurity that it caused, the Jewish people, supreme victim of genocide, is currently inflicting a symbolic genocide on the Palestinian people. Because the world will not permit a total elimination, it is a partial annihilation that is going on. As a child of the Jewish people, and as an Israeli citizen, I condemn this abominable act and appeal to the international community to save Israel from itself; specifically, I exhort the European community to intervene in a direct and forceful manner to stop this blood bath. The complex ties between the Jewish people and Europe have not yet been severed, and it is time to act; not because Europe should exorcize its guilt, but indeed because it is also responsible for the future of the world”.
Autore dello studio sulle politiche del lavoro e del mercato in Israele Split Corporatism in Israel (SUNY Series in Israeli Studies, 1991). In Italia è stato pubblicato un suo articolo nel volume Parlare con il nemico. Narrazioni palestinesi e israeliane a confronto (Bollati Boringhieri, 2004).
Jeff Halper
Jeff Halper, ebreo nato negli Stati Uniti, è stato attivista per i diritti umani sin dagli anni ’60-’70 (contro la guerra del Vietnam) ; si è trasferito in Israele nel 1973, dove oggi vive con la famiglia. Urbanista, antropologo, già docente alla
Ben Gurion University, nel 1997 è il co-fondatore (oggi coordinatore) dell’Icahd, il COMITATO ISRAELIANO CONTRO LA DEMOLIZIONE DELLE CASE DEI PALESTINESI (!!!!!!!!!!!!!). Per questo suo immenso lavoro di raccolta fondi e ricostruzione l’ AFSC lo ha nominato per il Nobel per la Pace nel 2006.
Per saperne di più sull’ ICAHD: http://www.icahd.org/eng/
Nel suo libro più conosciuto, Obstacles to Peace: A Reframing of the Palestinian-Israeli Conflict (Paperback, April, 2005), Halper fornisce un’analisi sul campo di come l’avanzata degli insediamenti israeliani, abitazioni e vie di comunicazione, stia soffocando la vita, le aspirazioni del popolo palestinese, riducendo al minimo la prospettiva di sicurezza nell’area. E al tempo stesso è il superamento della teoria enunciata nel 2003 all’Onu di un solo stato ebraico e palestinese. Di imminente pubblicazione An Israeli in Palestine: Resisting Dispossession, Redeeming Israel (PlutoPress, 2008)
Intervista choc all’ex presidente
“Israele addio
Sei militarista e senz’anima”
FRANCESCA PACI
CORRISPONDENTE DA GERUSALEMME
Associare allo Stato d’Israele gli aggettivi “ebraico” e “democratico” equivale a produrre nitroglicerina: il paese è la versione contemporanea della Germania degli Anni ’30». Chi turba così le celebrazioni sia pur problematiche del quarantennale della Guerra dei Sei Giorni non è il presidente iraniano Ahmadinejad, sommo teorico del parallelo tra sionismo e nazismo, ma un israeliano blasonato come Avraham Burg, ex presidente della Knesset tra il 1999 e il 2003, ex direttore dell’Agenzia ebraica per l’immigrazione, dirigente storico del partito laburista, ebreo ortodosso e al tempo stesso punto di riferimento della sinistra di governo. Nell’intervista pubblicata oggi dal quotidiano Haaretz sotto il titolo di «Explosive Material», materiale esplosivo, Burg, interpellato sul suo nuovo libro «Lenazeach et Hitler» (Vincere Hitler), invita i connazionali «raziocinanti» a espatriare: «Questa è una nazione militarista, non ce l’hanno ancora detto ma siamo tutti morti». Lui, per sicurezza, si è dotato di passaporto francese: ha appena votato contro Sarkozy.
La reazione alle parole di Avraham Burg, annunciate ieri in tv, non si è fatta attendere: un deputato dell’estrema destra ha proposto alla Knesset di negargli la sepoltura tra i Grandi d’Israele, privilegio che spetta, per esempio, agli ex presidenti del parlamento. I forum online non parlano d’altro, la notizia rimbalza nelle redazioni, le radio hanno aperto i microfoni sulle affermazioni più forti, «definire ebraico lo Stato d’Israele è come sancirne la fine» ma anche «l’israelianeità è corpo senza anima». Il conduttore di un talk show di Canale 10, dove Burg era ospite, gli ha consigliato scherzosamente «un giubetto antiproiettile».
Per capire quanto questo auto-da-fè turbi la società israeliana, accusata d’essere «un ghetto sionista di giudeo-nazisti», bisogna afferrare l’icona nazionale Avraham Burg. Cinquantadue anni, ebreo praticante, ex paracadutista ferito in missione, laureato in Studi africani alla Hebrew University e simpatizzante della prima ora di Peace Now, politico brillante ma riservato, con una casa spartana nella comunità religiosa di Nataf, vicino Gerusalemme, dove vive con la moglie francese Yael, psicologa, e sei figli: una rara mescolanza di valori tradizionali e cultura pacifista, eccentrica ma rispettata.
Il padre Yosef, morto nel ’99, occupa un posto d’onore nel pantheon israeliano. Nella memoria collettiva sarà sempre il leader erudito del Partito nazional religioso, che negli anni ’60 e ’70, sotto la sua guida, era una forza di centro, moderata, l’alleato fedele dei laburisti al governo. Tutti ricordano che durante le proteste contro il massacro nel campo profughi palestinese di Sabra e Chatila, all’inizio del 1983, Yosef, all’epoca ministro dell’interno, sedeva in parlamento con il premier Begin, mentre il figlio Avraham manifestava in piazza con lo zuccotto ebraico sul capo. Fu allora che un ortodosso lanciò una bomba sui dimostranti: il giovane Burg fu ferito a una gamba e morì un coetaneo, Emil Grunzweig. Il j’accuse del ragazzo ribelle rivelatosi poi uno dei migliori presidenti della Knesset senza mai rinnegare le ragioni dei palestinesi, affonda nella religiosità profonda di Avraham Burg più che nel background movimentista. C’è la critica a una società «paranoica che costruisce muri contro le sue paure», ma anche l’attitudine ebraica all’autoflagellazione. Frasi come «è difficile capire le differenze tra il primo nazionalsocialismo e la teoria nazional-sociale israeliana di oggi» sono una doccia fredda per il Paese. Un conto se avesse parlato Lea Tsemel, l’avvocatessa israeliana che difende i kamikaze palestinesi e molti considerano una traditrice, ma Burg è diverso: è Israele.
L’uomo che nel ’95 guidava l’Agenzia ebraica, apprezzato per aver recuperato molte proprietà perdute dagli ebrei durante l’Olocausto, rilegge il passato: «La legge del ritorno è l’immagine allo specchio di Hitler, presuppone di accogliere chi lui discriminatoriamente considerava diverso. Ci stiamo facendo dettare l’agenda da Hitler». L’intervistatore, Ari Shavit, uno dei migliori giornalisti di Haaretz, suo compagno dagli inizi in Peace Now, lo incalza e si prende del «disertore» per aver tradito i valori dell’ebraismo: «L’ebraismo si basava sui mutamenti, il sionismo ha ucciso questa attitudine. Non c’è ebreo senza narrativa e qui non c’è più narrativa». Cosa resta, allora? «Un Paese ossessionato dalla forza, violento sulle strade, in famiglia, contro i palestinesi».
Gli amici intimi non sono sorpresi, dicono che Avraham si è radicalizzato negli ultimi anni, da tempo sostiene che «il più ebreo di tutti è Gandhi» e «l’Europa è l’ultima utopia ebraica». Ma la sua Israele non lo sapeva ancora.
La Stampa 8 giugno 2007
http://www.lastampa.it
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«Io ho l’intenzione di servire la mia patria, ma la mia adorazione la riservo per la giustizia, che è molto più grande della mia patria. Adorare la patria come un idolo è come richiamare su essa una maledizione»
(Rabindranath Tagore, La casa e il mondo, 1915)
E’ morta la rivoluzione sionista
AVRAHAM BURG
Deputato del Partito laburista israeliano, ex presidente della Knesset (1999-2003), ex presidente dell’Agenzia ebraica
Il sionismo è morto, e i suoi aggressori sono seduti sulle poltrone del governo a Gerusalemme. Non perdono un’occasione per far scomparire tutto ciò che c’era di bello nella rinascita nazionale. La rivoluzione sionista poggiava su due pilastri: la sete di giustizia e una leadership sottomessa alla morale civica. L’una e l’altra sono scomparse. La nazione israeliana ormai non è altro che un ammasso informe di corruzione, oppressione e ingiustizia. La fine dell’avventura sionista è vicina. Sì, è ormai probabile che la nostra generazione sia l’ultima del sionismo. Quello che resterà dopo sarà uno stato ebraico irriconoscibile e detestabile. Chi di noi vorrà essere patriota di tale stato? L’opposizione è scomparsa, la coalizione resta muta, Ariel Sharon si è trincerato dietro un muro di silenzio. Questa società di instancabili chiacchieroni è diventata afona. Semplicemente non c’è più nulla da dire: i nostri fallimenti sono evidenti. Certo, abbiamo resuscitato la lingua ebraica, il nostro teatro è eccellente, la nostra moneta abbastanza stabile, nel nostro popolo ci sono talenti stupefacenti e siamo quotati al Nasdaq. Ma è per questo che abbiamo creato uno stato? No, non è per inventare armi sofisticate, strumenti di irrigazione efficacissimi, programmi di sicurezza informatica o missili antimissile che il popolo ebraico è sopravvissuto. La nostra vocazione è diventare un modello, la «luce delle nazioni», e abbiamo fallito.
La realtà, dopo duemila anni di lotte per la sopravvivenza, è uno stato che sviluppa delle colonie guidato da una cricca di corrotti incuranti della morale civica e della legge. Ma uno stato amministrato nel disprezzo della giustizia perde la sua forza di sopravvivenza. Chiedete ai vostri figli se sono sicuri di essere ancora in vita fra venticinque anni. Le risposte più lungimiranti rischiano di scioccarvi, perché il conto alla rovescia della società israeliana è già cominciato.
Non c’è nulla di più affascinante che essere sionista a Beth El o Ofra. Il paesaggio biblico è incantevole. Dalla finestra ornata di gerani e bougainville, non si vede l’occupazione. Sulla nuova strada che costeggia Gerusalemme da nord a sud, ad appena un chilometro dagli sbarramenti, si circola velocemente e senza problemi. Chi si preoccupa di ciò che subiscono gli arabi umiliati e disprezzati, obbligati a trascinarsi per ore su strade dissestate e continuamente interrotte da check point? Una strada per l’occupante, una strada per l’occupato. Per il sionista, il tempo è rapido, efficiente, moderno. Per l’arabo «primitivo», manodopera senza permesso in Israele, il tempo è di una lentezza esasperante.
Ma così non può durare. Anche se gli arabi piegassero la testa e ingoiassero la loro umiliazione, verrà un momento in cui nulla funzionerà più. Ogni edificio costruito sull’insensibilità alla sofferenza altrui è destinato a crollare fragorosamente. Attenti a voi! State ballando su un tetto che poggia su fondamenta barcollanti!
Poiché siamo indifferenti alla sofferenza delle donne arabe bloccate ai check point, non percepiamo più i lamenti delle donne picchiate dietro la porta dei nostri vicini, né quelli delle ragazze madri che lottano per la propria dignità. Abbiamo smesso di contare i cadaveri delle donne assassinate dal loro marito. Indifferenti alla sorte dei bambini palestinesi, come ci possiamo sorprendere quando, con un ghigno di odio sulla bocca, si fanno saltare per aria come martiri di Allah nei luoghi del nostro svago perché la loro vita è un tormento; nei nostri centri commerciali perché non hanno neanche la speranze di fare, come noi, degli acquisti? Fanno scorrere il sangue nei nostri ristoranti per farci passare l’appetito. A casa loro, figli e genitori soffrono la fame e l’umiliazione. Anche se uccidessimo 1000 terroristi al giorno, non cambierebbe nulla. I loro leader e i loro istigatori sono generati dall’odio, dalla collera e dalle misure insensate prese dalle nostre istituzioni moralmente corrotte. Fintanto che un Israele arrogante, terrorizzato e insensibile a se stesso e agli altri si troverà di fronte una Palestina umiliata e disperata, non potremo andare avanti. Se tutto ciò fosse inevitabile e frutto dei disegni di una forza soprannaturale, anche io starei zitto. Ma c’è un’altra opzione. Ed è per questo che bisogna urlare.
Ecco quello che il primo ministro deve dire al popolo: il tempo delle illusioni è finito. Non possiamo più rimandare le decisioni. Sì, amiamo il paese dei nostri antenati nella sua totalità. Sì, ci piacerebbe viverci da soli. Ma così non funziona, anche gli arabi hanno i loro sogni e le loro esigenze. Tra il Giordano e il mare, gli ebrei non sono più maggioranza. Conservare tutto gratuitamente, senza pagarne il prezzo, miei cari concittadini, è impossibile.
È impossibile che la maggioranza palestinese sia sottomessa al pugno di ferro dei militari israeliani. È impossibile credere che siamo la sola democrazia del Medioriente, perché non lo siamo. Senza l’uguaglianza completa degli arabi, non c’è democrazia. Conservare i territori e una maggioranza di ebrei solo nello stato ebraico, ripettando i valori dell’umanesimo e della morale ebraica, rappresenta un’equazione insolubile.
Volete la totalità del territorio del Grande Israele? Perfetto. Avete rinunciato alla democrazia. Realizzeremo allora un sistema efficace di segregazione etnica, di campi di internamento, di città-carceri: il ghetto Kalkilya e il gulag Jenin.
Volete una maggioranza ebraica? O ammasseremo tutti gli arabi in vagoni di treno, in autobus, su cammelli o asini per espellerli. Oppure dobbiamo separarci da loro in modo radicale. Non ci sono mezzi termini. Ciò implica lo smantellamento di tutti – dico bene: tutti – gli insediamenti e la determinazione di una frontiera internazionale riconosciuta tra lo stato nazionale ebraico e lo stato nazionale palestinese. La legge del ritorno ebraica sarà applicabile soltanto all’interno dello stato nazionale ebraico. Il diritto al ritorno arabo sarà applicabile esclusivamente all’interno dello stato nazionale arabo.
Se è la democrazia ciò che volete, avete due opzioni: o rinunciate al sogno del Grande Israele nella sua totalità, alle colonie e ai loro abitanti, oppure concedete a tutti, compresi gli arabi, la piena cittadinanza con diritto di voto alle elezioni politiche. In quest’ultimo caso, coloro che non volevano gli arabi nello stato palestinese vicino li avranno alle urne, a casa propria. E loro saranno maggioranza, noi minoranza.
Questo è il linguaggio che deve adottare il primo ministro. Spetta a lui presentare coraggiosamente le alternative. Bisogna scegliere tra la discriminazione etnica praticata da ebrei e la democrazia. Tra le colonie e la speranza per due popoli. Tra l’illusione di un muro di filo spinato, dei check point e dei kamikaze e una frontiera internazionale accettata dalle due parti con Gerusalemme capitale comune dei due stati.
Ma, purtroppo, non c’è alcun primo ministro a Gerusalemme. Il cancro che divora il corpo del sionismo ha già raggiunto la testa. Le metastasi fatali sono lassù. È accaduto in passato che Ben Gurion commettesse un errore, ma è rimasto comunque di una rettitudine irreprensibile. Quando Begin sbagliava, nessuno metteva in discussione la sua buona fede. E lo stesso succedeva quando Shamir non faceva nulla. Oggi, secondo un sondaggio recente, la maggioranza degli israeliani non crede nella rettitudine del primo ministro, anche se continua ad accordargli la propria fiducia sul piano politico. Detto in altri termini, la personalità dell’attuale primo ministro simboleggia le due facce della nostra disgrazia: un uomo di dubbia moralità, gaudente, incurante della legge e modello negativo di indentificazione. Il tutto combinato con la sua brutalità verso gli occupati, che rappresenta un ostacolo insuperabile alla pace. Da ciò deriva una conclusione indiscutibile: la rivoluzione sionista è morta.
E l’opposizione? Perché mantiene il silenzio? Forse perché siamo in estate? O perché è stanca? Perché, mi chiedo, una parte dei miei compagni vuole un governo a ogni costo, foss’anche quello dell’identificazione con la malattia piuttosto che della solidarietà con le vittime della malattia? Le forze del Bene perdono la speranza, fanno le valige e ci abbandonano, insieme al sionismo. Uno stato sciovinista e crudele in cui imperversa la discriminazione; uno stato dove i ricchi sono all’estero e i poveri deambulano nelle strade; uno stato in cui il potere è corrotto e la politica corruttrice; uno stato di poveri e di generali; uno stato di razziatori e di coloni: questo è in sunto il sionismo nella fase più critica della propria storia.
L’aternativa è una presa di posizione radicale: il bianco o il nero – tirarsi indietro equivarrebbe a essere complici dell’abiezione. Queste sono le componenti dell’opzione sionista autentica: una frontiera incontestata; un piano sociale globale per guarire la società israeliana dalla sua insensibilità e dalla sua assenza di solidarietà; la messa al bando del personale politico corrotto oggi al potere. Non si tratta più di laburisti contro il Likud, di destra contro sinistra. Al posto di tutto ciò, bisogna opporre ciò che è permesso a ciò che è proibito; il rispetto della legge alla delinquenza. Non possiamo più accontentarci di un’alternativa politica al governo Sharon. Ci vuole un’alternativa di speranza alla rovina del sionismo e dei suoi valori da parte di demolitori muti, ciechi e privi di ogni sensiblità.
Israele e Palestina, «uno stato binazionale»
Prima di Avraham Burg, Hanegbi e Benvenisti hanno criticato «stato ebraico» e sionismo delle origini
JOSEPH HALEVI
L’intervento di Avraham Burg sulla morte del sionismo, pubblicato anche dal manifesto, ha avuto un effetto esplosivo sulla stampa mondiale ma la discussione, che comprova come Israele sia arrivato al capolinea, era stata lanciata da Haarezt. A fine agosto e all’inizio di questo mese il maggior quotidiano israeliano ha pubblicato due interventi dirompenti che riabilitavano l’idea di una soluzione binazionale: un solo unico stato per i due popoli. Il primo articolo è di Haim Hanegbi, che quarant’anni orsono fu tra i fondatori del movimento trotzkista Mazpen, Il secondo scaturisce dalla tastiera di Meron Benvenisti già vicesindaco di Gerusalemme sotto il Teddy Kollek, vero ideatore dell’espansione tentacolare di questa città pianificata per escludere, soffocare ed espropriare i palestinesi. E’ sintomatico che un giornale di orientamento liberale come Haaretz abbia dato spazio a dei contributi che rimettono in causa la ragion d’essere dello Stato. Non era mai successo prima. In merito alla legittimità storica della formazione dello Stato d’Israele la stampa isrealiana è sempre stata di regime. Anche i comunisti osannavano l’Urss sia per essere stata nel 1947 l’indefessa portatrice presso l’Onu del progetto di spartizione, contro la ritirata di Washington che aveva proposto un’amministrazione (trusteeship) gestita dall’Onu, che per aver fornito nel 1948-49, attraverso la Cecoslovacchia e non solo, un aiuto militare determinante al nascente Stato d’Israele. I trotzkisti di Mazpen invece si erano sempre opposti al concetto di uno stato formalmente ebraico, per cui, scrive Hanegbi, «quando vidi che Peace Now esisteva realmente e che vi era un un certo movimento nelle strade pensai che non fosse giusto restar imbottigliati nei dogmi. Di conseguenza conclusi che l’idea dei due stati era valida». Dopo aver spiegato al pubblico la fiducia riposta negli accordi di Oslo ed in Rabin come politico, Hanegbi individua due fondamentali elementi alla radice della sua illusione. La prima riguarda la tattica politica di Israele, la seconda la natura storica del paese. «Negli ultimi due anni ho capito di aver commesso un errore e che, come i palestinesi, sono stato abbindolato. Avevo preso il discorso israeliano sul serio senza curarmi delle azioni di Israele. Quando un giorno mi accorsi che gli insediamenti erano raddoppiati mi resi anche conto che Israele aveva mancato all’appuntamento, aveva respinto la rara possibilità che gli veniva offerta. Capii allora che Isreale non poteva liberarsi della sua trama espansionista. Israele è legato mani e piedi alla sua ideologia d’origine ed al suo atto di nascita che fu un atto di spoliazione». Esiste, sostiene gustamente Hanegbi, una continuità tra gli insediamenti effettuati nei primi decenni del Novecento e quelli creati dopo l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza: «Capii che la ragione per cui è così tremendamente difficile per Israele smantellare gli insediamenti risiede nel fatto che ogni ammissione che gli insiedamenti nel West Bank si trovino su terreni depredati ai palestinesi, getta un’ombra minacciosa sulla valle di Esdrelon» (valle vicino a Haifa colonizzata dai sionisti durante il mandato britannico espellendone i fellahin palestinesi, J.H).
Passiamo ora a Meron Benvenisti ex colonizzatore di Al Quds (Gerusalemme) e dintorni. Per molti aspetti la sua requisitoria è più dura di quella di Hanegbi. «La mia analisi del conflitto – dice Benvenisti – era sbagliata » perchè partiva dall’ipotesi di «una lotta di due movimenti nazionali per una stessa terra [..] Invece negli ultimi due anni sono giunto alla conclusione che si tratta di un conflitto tra una società di immigranti ed una società di autoctoni». La prospettiva quindi muta radicalmente perchè «la storia di fondo è quella di indigeni e coloni. E’ la storia dei nativi che percepiscono come le persone venute d’oltremare abbiano infiltrato il loro habitat e le abbiano spossessate ».
E’ stata l’intensità della seconda Intifada ad aprigli gli occhi sulla natura del conlitto: «Di colpo capii che era impossibile spiegare il tipo di insediamento e di riscatto della terra solo nei termini di un conflitto nazionale. E’ impossibile spiegare il fenomeno dei kamikaze unicamente in termini di conflitto nazionale…Non raggiungeremo mai una situazione in cui gli arabi di Israele rinunceranno alla rivendicazione dei loro diritti collettivi ». Una soluzione fondata su due stati appare superata tanto a Benvenisti quanto a Hanegbi. Quest’ultimo infatti si è scontrato con Uri Avneri uscendo dal movimento Gush Shalom. Il numero di abitanti ebrei nel West Bank è ormai tale da rendere impossibile la loro evacuazione per cui la Palestina deve essere considerata come un’unica entità politica. In tale spazio geografico gli ebrei sono una minoranza per cui, nelle parole di Benvenisti, «l’establishment israeliano deve rendersi conto di non esser capace di imporre le sue concezioni egemoniche a tre milioni e mezzo di palestinesi nel West Bank ed a Gaza ed a 1,2 milioni in Israele». La proposta è quindi di costituire uno stato binazionale magari strutturato per cantoni tra i quali uno anche per i coloni. Secondo Benvenisti « è arrivato il momento di dichiarare chiusa la rivoluzione sionista», magari con un atto ufficiale « fissando una data per l’abrogazione della Legge del Ritorno» (la legge che conferisce agli ebrei nel mondo la libertà assoluta di immigrare in Israele e l’ottenimento immediato delle cittadinanza israeliana, J.H.). In conclusione, «l’idea sionista era mutilata sin dalla nascita: non aveva tenuto conto della presenza di un altro gruppo nazionale». Per Benvenisti sia i palestinesi che gli ebrei devono rinunciare alla sovranità nazionale dato che « quella terra non permette due sovranità ».
Si tratta di interventi che vanno al cuore della storia del conflitto. L’idea di formare «un solo Stato democratico» sul tutto il territorio della Palestina fu propria dell’Olp quando Arafat ne prese la guida nel 1964. L’allora posizione dell’OLP era migliore di quella di Benvenisti perché la proposta dei cantoni, soprattutto quello riservato ai coloni, può anche significare cantoni apartheid: alcuni ricchi con strutture avanzate, con l’acqua, piscine e terre coltivabili e molti poveri e sovraffolati. Inoltre, malgrado la loro spregiudicatezza gli articoli danno l’impressione che i palestinesi siano i grandi assenti. In altre parole i ragionamenti sono tutti interni ai processi storico-politici sionisto-israeliani. Le idee, le rappresentanze politiche e le istituzioni palestinesi non appaiono mai. Tutto sommato ha ragione Uri Avneri che, partendo dall’ipotesi dell’incontro tra due nazionalismi, assegna, come Avraham Burg, priorità assoluta all’evacuazione di tutti gli insediamenti e vede nelle istituzioni palestinesi il referente e l’interlocutore principale cosa che Burg ancora non dice a gran voce.
In TUTTE le Tv del mondo ci sono le immagini dellinsediamento di Obama… in Italia NESSUNA Tv italiana, sta trasmettendo la cerimonia… capisco che non la si veda in mafiaset… ma cche anche alla rai… che il Dio denari, sincazzi e ce lo tolga dai cojjioni… addapassa anuttate….
Faust
Caro Pietro Falco,
ma lei è un vero antisemita!…. U.
per marco tempesta
Le ricordo che il messaggio 133 deve essere considerato apocrifo. Com’è noto le dichiarazioni non hanno senso fuori dal loro contesto. Neppure quelle dei nazi, ovviamente ….. U.
x Uro: a quei tempi le cose funzionavano così.
piuttosto che guardarci indietro, cerchiamo di guardare avanti. Leggendo i post precedenti, vedo che più o meno vanno nella direzione che ho descritto io e cioè che se gli israeliani continuano di questo passo si troveranno col sedere per terra, essendo impossibile sfrattare o uccidere più di 4 milioni di persone. La corda si può tirare fino a un certo punto, poi si spezza. Esiste un’opinione pubblica anche in Israele e col nuovo presidente americano probabilmente ci sarà una svolta, anche perchè gli USA hanno le loro gatte da pelare ed una nuova guerra in Medioriente potrebbe avere risvolti impensati.
Oltretutto, questa volta Israele l’ha fatta fuori del vaso e non potrà certo addurre i soliti argomenti, semprecchè gli Hamas non siano ancor più stupidi degli israeliani, cosa che non escludo, vanificando il sostegno che adesso i palestinesi di Gaza hanno acquisito, seppur involontariamente. Se gli Hamas hanno intenzione di continuare col lancio dei razzi, magari utilizzandone di più potenti e precisi, non so proprio come potrà andare a finire.
Ricordo molti anni fa di aver letto una profezia di Nostradamus che parlava di missili che andavano avanti e indietro in palestina. Allora c’era una relativa calma e la cosa mi sembrava improbabile. Aveva ragione lui.
Thomas Schlemme
INVASORI NON VITTIME
Laterza editore
La guerra di Mussolini contro l’Unione Sovietica, al di là dell’alone leggendario che la fece diventare solo un’ eroica epopea. Una rigorosa ricerca storiografica che dissipa i falsi miti. Non tanto “Italiano brava gente” perché gli italiani hanno commesso furti, maltrattamenti, omicidi, stragi, stupri, ed anche manifestazioni di razzismo ….
Caro marco tempesta,
questa sua idea che si debba guardare avanti mi sembra semplicemente una sciocchezza. Secondo me chi non sa da dove viene semplicemente non può sapere dove va. Comunque contento lei ….
Credo che il lancio di razzi da parte di Hamas continuerà: che altro potrebbero fare? A meno che i patti siglati con gli israeliani per il cessate il fuoco non comprendano la cessazione del blocco israeliano in cambio della cessazione del lancio dei razzi, cosa che sarebbe, per Issraele, l’equivalente di una sconfitta sul campo. Non sono ancora tanto mal messi.
Interessante quella frase si Dayan che dice che Issraele si deve comportare come un cane arrabbiato. Per quanto del tutto priva di valore, come tutte le citazioni, rende bene l’idea.
Anche perchè i fatti hanno mostrato la verità di quell’affermazione e, per la verità, anche di tutte le altre. U.
Credo che il lancio di razzi da parte di Hamas continuerà: che altro potrebbero fare? U.
—
Ha idea di che razza di errore sarebbe questo per Hamas? Darebbe la giustificazione dell’intervento di Israele e ne giustificherebbe anche di più pesanti.
Se gli Hamas vogliono un suicidio collettivo, non hanno che da continuare a lanciare razzi.
Israele potrebbe invece sia togliere il blocco che accettare di tornare ai confini del ’67, impostando il tutto come un atto di buona volontà. Si coprirebbe così le spalle nel caso che i palestinesi continuassero con la belligeranza, cosa che non escludo. Se gli israeliani hanno bisogno di una giustificazione per stringere la garrota fino in fondo, saranno i palestinesi di loro volontà a dargliela.
mi consentirete un breve “volo” pindarico
“Caro” Berlusconi: volare con cai da Milano a Roma costa 325 euro. E la tariffa è per sola andata
ROMA – «Rilevo con stupore che un biglietto aereo di sola andata da Roma a Milano da prenotare per venerdì prossimo alle ore 13, quindi in un orario non di punta, costa 325,80 euro. L’avere concesso a Cai/Alitalia di agire in regime di monopolio tra Roma e Milano al di fuori delle regole dell’antitrust, doveva servire ad agevolare l’avvio della nuova compagnia aerea, non certo a consentire di praticare tariffe che non hanno eguali al mondo». Lo ha detto il sottosegretario alle Infrastrutture, il leghista Roberto Castelli, un habituè sulla tratta Linate-Fiumicino.
FUORI DAL MONDO – «325,80 euro per andare da Roma Fiumicino a Milano Linate sembra francamente una cifra fuori dal mondo. Significa utilizzare in maniera troppo disinvolta le regole di monopolio. Auspico – ha aggiunto Castelli – che Cai voglia rivedere quanto prima la sua politica tariffaria, che se con Alitalia era giustificata dalla concorrenza di altre compagnie sulla stessa tratta, ora non ha motivo di esistere».
x Pietro Falco:
oggi si va da Milano centro a Roma centro in 4 ore di treno non-stop, a circa 70 euro. Se si fanno i conti del tempo e del fastidio dei percorsi da e per l’aeroporto – centro città, conviene andare in treno.
Marco sei un disfattista: l’italianità non vuoi pagarla qualcosina in più…
che ci vuoi fare. loro Obama, noi O’ nano…
Vado a guardarmi Ballarò, è l’unica cosa che seguo in televisione.
Buon proseguimento a tutti.
In realtà sono tutti disfattisti e comunisti: solo Lui riesce ad essere fiducioso («Pil a -2%? Torneremo alla situazione di 2 anni fa, non mi sembra che si stesse poi tanto male»)
Auto: il calo del fatturato e’ stato del 29,3%, gli ordini sono scesi del 31% Industria: a novembre crollano ordinativi e fatturato, è il peggior calo dal ’91. Istat: per gli ordinativi la flessione annua è stata del 26,2%, per il fatturato del 13,9%
MILANO – Crollano a novembre gli ordinativi dell’industria italiana. Il calo rispetto a novembre 2007 è stato del 26,2% (-26% sul mercato interno e -26,5% su quello estero). Rispetto ad ottobre 2008 la contrazione è stata invece del 6,3% (-5,6% sul mercato nazionale e -7,5% su quello estero). Lo comunica l’Istat.
DATO – Male anche il fatturato dell’industria italiana che a novembre 2008 è diminuito del 13,9% rispetto allo stesso mese del 2007 e del 3,9% rispetto ad ottobre 2008. L’Istat precisa che il calo annuale deriva da una contrazione del 13,1% sul mercato interno e del 15,7% su quello estero. I cali tendenziali rilevati a novembre per il fatturato e gli ordinativi dell’industria italiana sono i peggiori dal gennaio del ’91.
AUTO – In particolare lo scorso novembre il settore degli autoveicoli ha registrato un calo del fatturato pari al 29,3% su base tendenziale. Lo rende noto l’istat precisando che gli ordini hanno segnato invece una flessione del 31% rispetto a novembre 2007. A livello nazionale il fatturato ha registrato una flessione del 30,3% su base annua mentre sull’estero il calo è stato del 27,9%. Per gli ordini il calo è stato del 22,5% a livello nazionale e del 42,9% sull’estero.
Marco
Non guardi nemmeno Santoro e la Gabanelli?
xVox e Pietro Falco
qualche parola sul governo GB visto che vivo qui da molti anni.
Galloway non appartiene al Labour da parecchi anni, mi pare. Venne espulso per le sue dichiarazioni molto critiche alla guerra in Iraq, che avrebbero (a loro giudizio) nuociuto all’immagine del partito a quell’ epoca. Ora il Labour e’ il terzo partito anche come conseguenza della guerra in Iraq, e poi la crisi economica, il grigiore e la scarsa capacita’ di comunicare dell’attuale PM, etc.
E’ ingiusto dire che Blair fosse un thatcheriano. Molti notarono che avesse gli istinti di un tory, ma la sua politica sociale era decisamente di tipo progressista, socialdemocratico, insomma laburista. Se conservatore fosse stato, sarebbe stato di stile appunto pre-thatcheriano. Il partito conservatore inglese ha avuto in passato dei politici molto liberali ed evoluti, che non sto a nominare. Peccato che pochi arrivarono al vertice. Blair era invece disgustosamente filo-americano in politica estera, il che ha molto nuociuto rovinato al Labour in termini di consenso e popolarita’.
La GB conta poco sulla scena internazionale: molto piu’ dell’Italia , ma comunque poco. Ha sempre votato contro USA ed Israele alle Nazioni Unite, ma non e’ servito a nulla (e con essa quasi tutto il resto del mondo, come ben sappiamo).
Galloway era si’ critico nei suoi interventi contro il governo israeliano, e’ ovvio. Ma nel suo discorso ai Commons era particolarmente critico contro il suo governo (GB). Notava che il Foreign Office non ha mosso un dito nell’attuale crisi, e faceva un imbarazzante paragone con la crisi russa in Georgia, in cui il Foreign Secretary si precipito’ a Kiev per insegnare ai russi le buone maniere, per esempio
Peter
X Peter
Lei quindi conviene che la svolta in politica estera c’è stata, con Brown?
Quanto al peso effettivo del Regno Unito in politica estera è evidente che non possa essere paragnato a quello di Usa e Russia: ma non crede che se ai tempi dell’invasione all’Iraq gli inglesi avessero fatto fronte comune con l’Ue (ed in particolare con la Francia di Chirac e la Germania di Kohl), forse qualcosa poteva cambiare?
E’ evidente che nessuno dei Paesi che potremmo definire di seconda fascia può opporsi da solo ad una decisione Usa: ma se si è uniti il discorso cambia.
Anche perché Obama uscirà dall’isolazionismo di Bush…
“Obama will help us”. Potrebbe essere possibile. mt
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Mmmmm………….. Lo staff finanziario di Obama è tutto composto da banchieri, proprio quelli responsabili di questi sfacelo mondiale. Perché mai dovrebbero fare altro che pararsi le spalle?
Il ministro della difesa è lo stesso del precedente governo: Va bene che era, credo, in contrasto con le intenzioni di quel criminale di Ronnie però non troppo distante ……
Insomma,. Obama è un abilissimo venditore di fumo, come dico da almeno un anno, e la vera sinistra era quela della Clinton. Riccrdin del Ciuffo ha manovrato bene e gli usaegetta si sono mangiati la polpetta avvelenata credendo di fare la rivoluzione del kaiser ….. U.
Ci si scanna, ma in fondo ci si vuol bene. E’ ciò che conta. mt
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Concordo nel sottolineare una certa conoscenza ed abitudine reciproca. Anche a me le defezioni dispiacciono, compreso quella del kamerata Rodolfo. U.
xPietro Falco
era la Germania di Schroeder. Non so se una vera svolta c’e’ stata. Galloway era molto critico dell’attuale governo, ed in sostanza con ragione. Credo che Uroburo abbia ragione: there is only so much that can be done…
E’ da sempre che io sono convinto che un’Europa unita, e forte, ed amalgamata, o persino fusa perdinci, sia assolutamente necessaria per l’equita’ e la pace nel mondo
Peter
OBAMA: TERRORISTI NON SOPRAVVIVERETE, VI SCONFIGGEREMO
I terroristi “non sopravviveranno” perche’ l’America li sconfiggera’. E’ il messaggio che il neo presidente americano Barack Obama ha lanciato nel suo discorso di insediamento. “A tutti coloro che perseguono i propri scopi con il terrore e l’assassinio degli innocenti possiamo dire…non sopravviverete, noi vi sconfiggeremo”.
xUroburo
bene, secondo i suoi criteri Richie e’ allora un politico eccellente. L’ottimo principe, direbbe quel tale.
Pensavo di essere molto cinico, ma lei mi supera. Pero’ un venditore di fumo come presidente, ed una progressista in politica estera, potrebbe essere una combinazione interessante. La realta’ supera sempre l’immaginazione (ed anche la pianificazione). Sorrida
Peter
Gilad Atzmon
Nato a Gerusalemme nel 1963 da famiglia dalle “solide e orgogliose convinzioni sioniste”, Atzmon comincia un lungo e
complesso percorso di “allontanamento” dal sionismo grazie alla musica:
“Scoprire che Parker era nero è stata una rivelazione: nel mio mondo, le cose buone erano involontariamente associate solo ad ebrei. Bird è stato l’inizio del viaggio”.
Nel 1982 si trovò a combattere in Libano durante il servizio militare obbligatorio: l’esperienza maturò nel distacco dal suo paese, che lasciò definitivamente nel 1993, in una sorta di autoesilio. Oggi vive a Londra con la sua famiglia, e si autodefinisce “palestinese di lingua ebraica”.
Atzmon è un sassofonista e compositore jazz di fama internazionale: con il gruppo The Orient House Ensemble ha realizzato sei album, l’ultimo dei quali è uscito a fine 2007. Ma è conosciuto anche come scrittore e attivista politico, una delle voci più critiche nei confronti del governo israeliano e dell’ideologia sionista, al vertice delle “balck list” stilate dai gruppi ultraortodossi (e non solo). Il suo è un attacco frontale all’artificio identitario di cui il sionismo è stato vettore attraverso una rifondazione posticcia dell’ebraismo confessionale:
“Il Sionismo ha fondato una lingua (l’ebraico), ha fornito l’ebreo di una concreta dimensione geografica (Eretz Israel), ha trasmesso l’immagine di una cultura (il nuovo folklore ebraico) ed è riuscito persino a presentare una falsa immagine di una polarizzazione politica ed etica (sinistra e destra). Se i fondatori del Sionismo tentarono di salvare l’ebreo diasporico dalla sua condizione anomala, ebbene dobbiamo ammettere che allora il Sionismo è riuscito nei suoi intenti e ha adempiuto alla sua missione. Il successo del Sionismo non ha nulla a che vedere con l’ideologia, la politica o le sue pratiche devastanti. Ovviamente, non sono molti gli ebrei che comprendono che cosa rappresenti il Sionismo (ideologicamente, politicamente, eticamente e praticamente). Non sono molti gli ebrei diasporici che cedono apertamente alla scuola di pensiero sionista e alla sua prassi amorale. Al contrario, essi aderiscono al “folklore israeliano”, alla bizzarra parola ebraica, al falafel e all’humus che erroneamente identificano con Israele (piuttosto che con la Palestina). Cantano al ritmo di musica israeliana, che si tratti di Hava Nagila, Yafa Yarkoni o Yeuda Poliker. Per quelli che non comprendono, la “cultura israeliana” è un diretto prodotto del progetto sionista. Ovviamente, la cultura ebraica moderna è riuscita a depredare il mondo del simbolismo ebraico. Il Sionismo ha fondato una nuova forma di affiliazione tribale ebraica.” [da Lo Tzabar (Sabra) e il Sabbar (Fico d’india): riflessione su Memoria e Nostalgia, tradotto da Diego Traversa qui].
Atzmon è autore di due romanzi (mai tradotti in italiano) di “satira fantapolitica” dal discreto successo: A Guide to the Perplexed (Serpent’s Tail, 2002), tradotto in molte lingue, e My One and Only Love (Saqi Books, 2004). La versione ebraica di A Guide to the Perplexed fu vietata in Israele poche settimane dopo l’uscita (2001), anche se oggi ne è disponibile una nuova ristampa.
Un’intervista a Gilad Atzmon tradotta in italiano: http://www.kelebekler.com/occ/talens.htm
Il sito ufficiale: http://www.gilad.co.uk
X il mio omonimo Peter
Su Schroeder ha ragione: lapsus gravissimo…
Sull’Europa unita, ci troviamo: anche se credo ci sia ancora molto da mettere a punto, atteso che quando il timone finisce in mano ad uno come il ceco Topolanek, ed in giro non ci sono grandi leader, si rischia comunque di finire contro gli scogli…
Sull’Europa “fusa” avrei invece qualche perplessità: prima penserei a “fondere” l’Italia….
ps
Richie è l’unico che ricordi che abbia davvero provato a forzare la mano agli israeliani
x FAUST
Continua a divertirti!
pino
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http://www.dagospia.com/rubrica-1/varie/articolo-2853.htm
PARLA JACARANDA (E SON DOLORI) – Caracciolo aveva il 50% di eredità “disponibile” che poteva scegliere di assegnare a chiunque ed invece ha lasciato tutto a me. Ai Revelli nulla, nessuna menzione nel testamento, VORRà DIRE QUALCOSA?…
Paolo Baroni per “La Stampa”
Jacaranda Caracciolo Falck quando ha saputo di essere l’unica erede di Carlo Caracciolo è rimasta sorpresa. L’affetto che la legava all’«editore fortunato», che nel 1996 aveva deciso di adottarla, era certamente «molto forte». Ma un gesto del genere proprio non se l’aspettava: «Caracciolo – spiega – come vedovo, aveva il 50% di eredità “disponibile” che poteva scegliere di assegnare a chiunque ed invece ha lasciato praticamente tutto a me. Significa che mi voleva davvero tanto bene».
La sorpresa, oggi, è ancora maggiore di fronte alle azioni legali di Carlo e Margherita Revelli che si sono rivolti al Tribunale per ottenere il disconoscimento del loro padre naturale, Carlo Revelli senior, come primo passo per vedersi poi riconoscere come figli legittimi del principe Caracciolo. Dagospia l’ha già
In ballo c’è un patrimonio di almeno 100 milioni di euro: innanzitutto l’11,7% del Gruppo Espresso, il 33% del quotidiano francese «Liberation», la magnifica tenuta di Torretta Vecchia, immobili ed altri beni e quote di società. Questa è’ una guerra che ovviamente alimenta le chiacchiere nei salotti bene («presto spunteranno fuori altri figli», sostengono in molti) e che riporta a galla le vicende sentimentali di Don Carlo Caracciolo, nono principe di Castagneto, quarto duca di Melito e cognato di Gianni Agnelli.
Uomo di grande fascino e come tale grande tombeur de femmes, come confermano amici e conoscenti. «Amava le donne, innanzitutto le belle donne». Soprattutto, questa è una guerra che si combatte a colpi di carte bollate e che vede schierati sui due fronti avvocati di grido come Carlo D’Urso, Guido Alpa, Floriano D’Alessandro e Carlo Federico Grosso per Jacaranda Caracciolo, Natalino Irti e Francesco Arnaud per i fratelli Revelli.
In tribunale, la scorsa settimana, il primo round si è risolto con un nulla di fatto: il giudice della prima sezione civile di Roma, Rosaria Ricciardi, ha dato alle parti tre mesi di tempo per presentare le loro memorie. Jacaranda Falck tramite i suoi legali vuol prendere parte al giudizio di disconoscimento, perché è da questa decisione che poi può discendere la successiva causa di riconoscimento, quelli dei Revelli sostengono l’esatto opposto.
«Jacaranda – spiega Arnaud – non ha alcun titolo per costituirsi in questo giudizio: questa del disconoscimento è una vicenda che riguarda solo Carlo e Margherita Revelli ed i loro fratelli».
Ieri Carlo Revelli, 39 anni, imprenditore di un certo successo in Francia nel campo dell’informazione su Internet, dalle colonne del «Corriere della sera», in una lunga lettera ha sostenuto le proprie ragioni, ha raccontato di quando Caracciolo confermò a lui ed alla sorella di essere il loro vero padre, ma soprattutto ha precisato con dovizia di particolari di aver appreso di essere il figlio di Caracciolo solamente «nell’ottobre del 2007». «Non voglio questa guerra» ha poi aggiunto.
Ribatte Jacaranda: «Trovo triste essere costretti a disvelare un affetto che se fosse stato vero non c’era bisogno di raccontare sui giornali. Quanta ipocrisia in questa vicenda». E a Revelli che si augura che «questa storia possa risolversi in modo rapido e dignitoso», risponde secca: «Lo speravo anch’io sin dall’inizio. Perché sicuramente mio padre non avrebbe voluto finire sbattuto in prima pagina».
Poi c’è la questione delle date. Carlo Revelli e la sorella Margherita (quasi coetanea di Jacaranda ed oggi sposa di Fabiano Rebecchini, famiglia di costruttori romani) insistono sull’«ottobre 2007» perché, per dar corso al disconoscimento, la legge concede un anno esatto di tempo. Jacaranda ed i suoi legali, forti di una quindicina di testimonianze raccolte tra gli amici, i confidenti ed i collaboratori più stretti del principe Caracciolo, sostengono una tesi diversa: i Revelli avrebbero appreso molto prima, almeno dal 2006, la notizia.
La loro causa, insomma, sarebbe arrivata fuori tempo massimo e questo basterebbe a mandare a monte non solo il disconoscimento ma anche le speranze di ottenere in seguito una fetta della maxi-eredità.
Del resto, Carlo Caracciolo (scomparso lo scorso 15 dicembre all’età di 83 anni) non è morto all’improvviso, tutt’altro. Era malato da tempo tanto che negli ultimi otto anni aveva già sconfitto due tumori e subito due infarti. Proprio per questo aveva avuto modo di sistemare tutti i suoi affari. Ancora un mese prima di morire aveva deciso di donare ai figli della sua defunta moglie, Violante Visconti di Modrone, la sua tenuta di Capalbio.
Ai Revelli nulla: nessuna menzione nel testamento, così come in precedenza (nonostante una certa frequentazione) non aveva dato corso ad alcuna pratica di adozione o di riconoscimento. «Se sono davvero miei figli mi comporterò di conseguenza» amava ripetere. Alle parole, però, non sono mai seguiti i fatti. Nè lui ha mai accettato di sottoporsi spontaneamente ad un esame del Dna come chiedevano i Revelli.
Perché? L’impressione è che qualcosa sia successo, che il rapporto tra il Principe ed i due Revelli (che nel frattempo, per avvalorare la loro posizione, erano arrivati a far dichiarare il padre Carlo Revelli senior impotente dal 1965 in poi), si sia in qualche modo incrinato forse a causa delle azioni legali messe in campo proprio dai figli di Maria Luisa Bernardini.
Le carte processuali parlano da sole: prima la causa di disconoscimento, con la prima udienza fissata l’11 dicembre 2008 quando il principe Caracciolo era già in coma e quindi incapace di obiettare, poi la notifica della causa di riconoscimento fatta il 30 novembre, quando i medici avevano redatto il loro verdetto ormai senza appello. «E poi parlano di causa avviata ante-mortem? Si, è vero. Ma Caracciolo era già moribondo» commenta amaro un amico di famiglia.
L’ultimo atto risale al 19 dicembre, quattro giorni dopo la scomparsa di Caracciolo: le spoglie del principe sono state da poco cremate, come lui stesso aveva chiesto e come confermano tre affidavit firmati da Corrado Passera, Marco Benedetto e Vittorio Ripa di Meana. I Revelli contestano la scelta e per questo fanno notificare un ricorso d’urgenza per chiedere il sequestro dei reperti organici del defunto presso la clinica dove Caracciolo aveva trascorso i suoi ultimi giorni ed il test del Dna. Il magistrato concede il blocco, ma nega l’analisi.
x Uro
Era Georgino, non Ronnie…
Però a Gates va dato atto che rispetto al bandito lobbista che occupava la sua poltrona prima di lui, ha compiuto quasi uan rivoluzione. Nel 2006, in un’audizione al Senato, a chi gli chiedeva se in Iraq gli Usa stessero effettivamente vincendo (ricordera los triscione di Bush: ” Missione compiuta!”), rispose seccamente: “No, sir…”
Caro Peter,
a volte lei mi stupisce un tantino….
Penso tutto il male possibile di Riccardin del Ciuffo ma la manovra è troppo sottile per quello scemo di Giorgetto, QUINDI ho pensato (da quando si è visto che la Clinton stava perdendo) che fosse un’idea del suo vice. La destra repubblicana ha voluto la sconfitta della Clinton e l’ha ottenuta.
Dal punto di vista di Riccardin del Ciuffo si è certamente trattato di un grande successo: ha fatto fuori la candidata di sinistra ed ha fatto vincere un simpatico ed abilissimo carrierista legato a doppio filo con l’establishment bancario usaegetta. Un colpo da maestro, direi.
Non capisco la sua critica. U.
per Pietro Falco
Dicevo Ronnie, l’ex-ministro della guerra. Scusi l’equivoco. U.
xUroburo
dov’e’ il legame a doppio filo con l’establishment bancario?
GAZA: CHIESA (PSE) A FRATTINI, ISRAELE MINACCIA ITALIANO (ANSA) – ROMA, 20 GEN – L’europarlamentare del Pse Giulietto Chiesa ha scritto una lettera aperta al Ministro degli Esteri Franco Frattini in cui segnala che un cittadino italiano, Vittorio Arrigoni, si trova a Gaza, ”sottoposto a gravi minacce di morte per aver aiutato, come infermiere, la popolazione civile durante i bombardamenti e gli assalti a opera delle forze armate occupanti di Israele”. Chiesa ha spiegato che ”un sito Internet in lingua inglese, successivamente oscurato, indicava ai militari israeliani Arrigoni (e numerosi altri attivisti pacifisti di diverse nazionalita’), come uno degli obiettivi ‘da uccidere”’. Chiesa ha chiesto l’intervento del ministro Frattini in virtu’ dei suoi ”ottimi rapporti con il Governo israeliano, anche come effetto del suo appoggio incondizionato alla guerra”. (ANSA). ML 20-GEN-09 20:15 NNN
Era Rummie, allora
Su facebook gira addirittura voce che gli israeliano abbiano arrestato Arrigoni: qualcuno ne sa qualcosa?
boh, forse è una bufala…
x Pietro Falco
Stando a quest’Ansa, più che arrestralo pare volessero ucciderlo, e con lui gli altri pacifisti
ITALIANO (ANSA) – ROMA, 20 GEN – L’europarlamentare del Pse Giulietto Chiesa ha scritto una lettera aperta al Ministro degli Esteri Franco Frattini in cui segnala che un cittadino italiano, Vittorio Arrigoni, si trova a Gaza, ”sottoposto a gravi minacce di morte per aver aiutato, come infermiere, la popolazione civile durante i bombardamenti e gli assalti a opera delle forze armate occupanti di Israele”. Chiesa ha spiegato che ”un sito Internet in lingua inglese, successivamente oscurato, indicava ai militari israeliani Arrigoni (e numerosi altri attivisti pacifisti di diverse nazionalita’), come uno degli obiettivi ‘da uccidere”’. Chiesa ha chiesto l’intervento del ministro Frattini in virtu’ dei suoi ”ottimi rapporti con il Governo israeliano, anche come effetto del suo appoggio incondizionato alla guerra”. (ANSA). ML 20-GEN-09 20:15 NNN
GAZA: UCCISO CONTADINO PALESTINESE, 2 BIMBI MORTI PER BOMBA (AGI/EFE) – Gaza, 20 gen. – I soldati israeliani hanno ucciso un contadino palestinese nei pressi di Jabaliya, nel nord della Striscia di Gaza. Secondo fonti mediche locali, l’uomo si stava dirigendo verso i suoi campi per verificare i danni provocati da 22 giorni di offensiva. Nella stessa zona, nei pressi del valico di Kissufim, erano stati segnalati spari contro i soldati israeliani. Secondo alcune fonti i due episodi potrebbero essere collegati. Dall’inizio dell’offensiva, ha fatto sapere Moaweya Hasanein, portavoce dei servizi di emergenza a Gaza, quella di Jabaliya e’ la seconda vittima. Stessa sorte era toccata lunedi’ a un altro contadino ucciso vicino al confine con Israele. Spari contro i soldati israeliani sono tati segnalati anche nel centro della Striscia. Nessun ferito tra i militari, che hanno risposto al fuoco, ha riferito il sito di Haaretz. Nel frattempo, nella zona est di Gaza citta’, due bambini sono morti mentre giocavano con una bomba lanciata nei giorni precedenti dall’esercito e rimasta inesplosa. Fonti mediche e umanitarie presenti nella Striscia hanno riferito che navi da guerra israeliane hanno sparato sui villaggi della costa, fortunatamente sena colpire nessuno. Intanto continua la tragica conta delle vittime, il cui numero e’ salito a 1414, mentre piu’ di 5500 sono i feriti. Ma il lavoro fra le macerie di Gaza continua e il bilancio sembra destinato a salire. “I nostri colleghi che stanno sul terreno”, hanno fatto sapere le agenzie umanitarie dell’Onu e il Comitato Internazionale della Croce rossa, ” ci hanno descritto l’indescrivibile, insopportabile devastazione che ha subito la Striscia di Gaza”. “Sembra ci sia stato un terremoto”, ha detto Guido Sabatinelli, rappresentante dell’Oms (Organizzazione Mondiale della Salute) in Palestina. (AGI) Red/Sar 201824 GEN 09 NNNN
x Pino
sono due fatti diversi: avevo prima trovato il lancio dell’Ansa; poi invece su fb ho scoperto che una tizia sta allarmando tutti con la notizia dell’arresto…
DALLA HOMEPAGE DEL CdS
L’autore è Michael Heart, musicista d’origini siriane, cresciuto fra Svizzera e Austria
BALLATA PER GAZA CONQUISTA IL WEB
E in Israele scoppia la polemica
“We will not go down” ha già avuto mezzo milione di contatti. Chiesti fondi per i profughi palestinesi
GERUSALEMME – «Potete bruciare le nostre moschee e le nostre case e le nostre scuole/ ma il nostro spirito non morirà mai». E poi: «Donne e bambini tutti uguali/ uccisi e massacrati notte dopo notte». Le parole sono un po’ scontate, la musica è una chitarra alla Bryan Adams, le immagini sono un’alternanza di morti innocenti e signori della guerra. Michael Heart dice d’avere scritto, musicato, montato tutto in poche ore: “Avevo fretta. Perché voglio solo che questo clip sia scaricato il più possibile, finché dura l’indignazione per quel che è successo”.
SUCCESSO SU YOUTUBE – La sua ballata per Gaza, “We will not go down”, è arrivata subito a destinazione: la prima volta, l’abbiamo sentita a una manifestazione di pacifisti israeliani, poi è stata lanciata da Mood 92, una radio giordana in inglese molto ascoltata in tutto il Medio Oriente, alla fine è diventata un successone su YouTube. Più di mezzo milione di contatti. Heart, cantautore d’origini siriane, cresciuto fra Svizzera e Austria, dalla sua casa di Los Angeles ringrazia: «E’ una dimostrazione di sostegno, un pensiero e una preghiera per la gente di Gaza. Chiedo a tutti, dopo avere scaricato il download, di fare una donazione all’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni unite per i profughi palestinesi».Formato negli studi di registrazione californiani, dove lavora da vent’anni, accompagnatore in concerto di grandi nomi come Natalie Cole, Phil Collins, Al Jarreau, Earth Wind & Fire, il cuore di Heart batte sul piombo caldo dei massacri, il suo clip turba le coscienze.
CASO POLITICO – E scatena anche qualche polemica, perché la canzone per Gaza ora sta diventando in Israele un caso politico. Nel Paese del sostegno bellico senza se e senza ma, sulle radio che trasmettono la ballata piovono un bel po’ d’elogi: «Finalmente, rompiamo il cerchio di questa follia, basta con le ubriacature di sangue»; «guardate, ascoltate e vergognatevi» (blog su Mood 92). Su Heart, però, arrivano anche le critiche, perché nel video e nel testo manca qualsiasi accenno a Hamas, ai suoi Qassam: «Sono contro questa guerra – scrive sul Jerusalem Post un blogger che si definisce pacifista israeliano -, ma il messaggio della canzone è parziale». Il cantautore aveva messo in conto le arrabbiature: «Ci sono milletrecento civili che si sono presi addosso le bombe. Posso prendermi anch’io qualche attacco. Tutti possono pensare quel che vogliono, tanto il disastro è stato fatto e non è più rimediabile. Ora mi basta che tutti facciano qualcosa. E mandino i loro soldi all’Onu e alle organizzazioni umanitarie, perché c’è un sacco di gente che ne ha bisogno».
ps
però sai, un’Ansa delle 20,15 che cita un comunicato ufficiale di Giulietto Chiesa arrivato chissà quando…
la vicenda potrebbe aver avuto sviluppi…
sto cercando su tutte le agenzie, ma non trovo più nulla
PER PETER
Ma è quello che ho scritto al n.178: “Lo staff finanziario di Obama è tutto composto da banchieri, proprio quelli responsabili di questi sfacelo mondiale. Perché mai dovrebbero fare altro che pararsi le spalle”?
Notizia ascoltata stamani sulla radio svizzera, insieme a quella del libro sulle imprese dei soldati italiani in Russia. U.