La storiografia radicale americana
Una posizione critica verso la teoria dell’esclusivismo americano l’ebbe la tendenza radicale degli anni sessanta emersa sull’onda del movimento della “nuova sinistra”.
Le idee dei radicali si sono formate sotto l’influenza di taluni principi marxisti, ma la loro metodologia, nel complesso, è rimasta piuttosto eclettica, poiché subiva il fascino delle correnti critiche della filosofia e sociologia occidentali.
In ogni caso, l’apparizione dei radicali nella scienza storica è stata segnata da un rafforzamento della critica tanto dell’approccio apologetico della storia del capitalismo americano quanto della storia “senza conflitti”.
Questi storici hanno affrontato molti importanti argomenti del passato americano dal punto di vista delle contraddizioni sociali antagonistiche e della violenta lotta di classe.
Contrariamente alla storiografia conservatrice essi sottolineano le divisioni sociali e i conflitti interni alla guerra d’Indipendenza. S. Lynd, J. Lemish e A. F. Young hanno concentrato la loro attenzione sui movimenti degli strati poveri della popolazione urbana e sulle divisioni politiche in campo patriottico fra alcuni Stati del paese, contestando in modo convincente la concezione di R. E. Brown relativa alla democrazia della classe media nell’America coloniale.
Un altro punto chiave nella posizione dei radicali contro la teoria del “consenso” fu la critica di tutte quelle asserzioni relative al carattere non classista della regolazione economico-statale (incluso il riformismo sociale) del XX secolo. G. Kolko, J. Weinstein e altri hanno mostrato che l’intervento del governo nell’economia, all’inizio del nostro secolo, fu condizionato sia dai bisogni produttivi del big business, sia dalla necessità di attenuare le contraddizioni di classe che s’erano aggravate. Le forze anticorporative vennero sconfitte dall’alleanza fra lo Stato e i monopoli.
Da allora il riformismo borghese (il liberalismo corporativo, nella terminologia dei radicali) tiene il popolo americano stretto in una morsa. I radicali inoltre ritengono che il new deal rooseveltiano abbia costituito una nuova tappa nello sviluppo politico dei capitalismo.
Analizzando il periodo post-bellico, essi hanno riservato una particolare attenzione al ruolo del complesso militare-industriale e del big business nella condotta aggressiva della politica estera americana.
Gli storici radicali hanno pure condotto una battaglia contro la storiografia tradizionale sui problemi della storia del movimento operaio. Essi rifiutano il dogma della scuola del Wisconsin, inerente al carattere esclusivo dell’esperienza storica del proletariato americano, e danno una grande importanza allo studio dell’attività della burocrazia sindacale e della politica riformista dell’American Federation of Labour (AFL).
Diversi storici, fra cui J. R. Conlin, J. M. Laslett e M. Dubofsky, si sono soffermati sulla storia di organizzazioni come “I cavalieri del lavoro” (Knights of Labour) e “Operai industriali del mondo” che si opponevano all’AFL. E però significativo che gli storici radicali non considerino il movimento di sinistra come un risultato dell’influenza della idee europee e dell’immigrazione straniera, ma come un prodotto naturale delle interne condizioni socioeconomiche americane.
Nella loro critica della teoria esclusivistica, i radicali sono andati senz’altro molto più in là degli storici di tendenza economista. Tuttavia non hanno saputo staccarsene completamente. Così, ad esempio, molti radicali descrivono l’imperialismo americano come un fenomeno nazionale, non accettando l’idea ch’esso sia solo una variante dello stadio supremo dello sviluppo del sistema capitalistico globale.
S. Thernstrom, che è vicino al trend radicale, enfatizza l’alta mobilità sociale degli operai esistita alla fine del XIX secolo, considerandola come un tratto distintivo dello sviluppo storico americano. G. Kolko afferma che l’inesistenza, a tutt’oggi, di un movimento anticapitalistico di massa negli Stati Uniti è stata determinata dall’alto livello democratico del paese e quindi da un’oppressione insignificante dell’individuo.
A cavallo degli anni Settanta e Ottanta il clima politico negli Usa s’è profondamente modificato. Si è vista crescere, e in modo brutale, l’influenza delle tendenze conservatrici: il che ha riflesso lo spostamento verso destra degli ambienti più autorevoli della classe dirigente nell’affrontare i problemi di politica interna ed estera. Si tratta, in sostanza, della reazione dei circoli imperialisti più aggressivi all’approfondimento delle contraddizioni socioeconomiche del capitalismo americano e mondiale, al rafforzamento del socialismo e all’estensione dei processi rivoluzionari e di liberazione nel mondo.
Il conservatorismo, divenuto agli inizi degli anni Ottanta un fattore importante della vita politica americana, rappresenta oggi una corrente ideologica in grado di influenzare diversi campi di pensiero. Esso esige la limitazione dell’intervento statale nella sfera socioeconomica del paese e si appella a taluni ideali e valori atemporali dell’americanisino, mettendo l’accento sulla tradizionale ideologia individualista dell’impresa privata e sulla morale della borghesia emergente. Questi neoconservatori levano gli scudi contro le tradizioni non solo rivoluzionarie ma anche liberali.
A partire dalla fine degli anni Settanta è iniziato il rapido consolidamento della corrente conservatrice nella storiografia, che ora si basa integralmente sulla piattaforma dell’esclusività americana. Al forum degli storici conservatori, istituito nel 1977, P. Gottfried, tratteggiando i loro obiettivi, avrebbe dichiarato che il compito principale consiste nel porre un efficace contrappeso all’influsso liberale e marxista che, a suo giudizio, sarebbe predominante nelle organizzazioni sindacali e nell’orientamento delle maggiori riviste storiche.
Alla conferenza degli storici conservatori del 1980 si sono espresse le medesime preoccupazioni e ribaditi gli stessi impegni. L’articolo di B. W. Folson, I pregiudizi liberali nei manuali di storia americana, mostra molto bene fin dove arrivano le pretese dei conservatori nella revisione della storia.
L’autore contesta duramente gli storici che danno un giudizio favorevole alle iniziative prese da Kennedy, Stevenson, Humphrey a McGovern. R. R. Berthoff è lo storico ideale per la storiografia conservatrice. A suo modo di vedere la stabilità resta la tendenza cardinale della storia americana e il principio essenziale dell’americanismo.
Al pari di Hartz, Boorstin e Brown, Berthoff dipinge la società dell’America coloniale come socialmente omogenea al massimo grado, in cui l’accesso alla classe media (freeholders, proprietari di fattorie, negozi, atelier artigianali) non è mai stato vietato a nessuno.
Dopo la guerra d’Indipendenza -egli afferma- le istituzioni politiche, le norme morali e le dottrine ideologiche si formarono sulla base della stabilità sociale. Il lasso di tempo compreso fra il 1815 e il 1900 è da lui visto come l’unico periodo d’instabilità sociale nella storia degli Usa, in cui ondate incessanti d’immigrati d’origine europea crearono un’inedita mobilità orizzontale e verticale della popolazione.
L’equilibrio si sarebbe ristabilito appunto verso gli inizi del secolo. La società americana contemporanea sarebbe dunque rimasta, a suo giudizio, assai mobile e nel contempo assai unita, preservando così i principi dell’americanismo.
Gli storici che preconizzano il “ritorno alle fonti” hanno già riscritto un largo ventaglio di avvenimenti della storia americana. Sviluppando, ad esempio, l’idea della stabilità e della impermeabilità della società americana ai mutamenti sociali profondi, R. Kirk ha definito le prime due rivoluzioni borghesi degli Usa come moderate e anche conservatrici.
A suo parere, la guerra d’Indipendenza fu ispirata dal fervore religioso più che dalle idee illuministiche, mentre la guerra civile del 1861-65 venne condotta non contro lo schiavismo, ma unicamente per la salvezza dell’Union. Nel 1982 Kirk ha pubblicato un’antologia dei teorici conservatori più in vista: E. Burke, J. S. Adams, A. Hamilton, J. C. Calhoun e altri.
Il libro della storica A. Kraditor, diretto contro le tesi fondamentali della storiografia radicale contemporanea sul movimento operaio americano a cavallo dei secoli XIX e XX, ha ottenuto vasti consensi. La Kraditor ha proclamato il marxismo “estraneo” agli Usa, in cui, a suo parere, il capitalismo si sviluppa secondo leggi particolari ed è in grado di curare con successo i propri mali.
Altri esempi ancora. Le idee della school of business sono state sviluppate da B. W. Folsom, che offre un’immagine delle imprese dei capitani d’industria della Pennsylvania come di un motore trainante del progresso industriale.
Le opere del ricercatore Th. Sowell sostengono l’idea che l’assistenza pubblica non può affatto risolvere la situazione materiale delle minoranze nazionali americane, le quali pertanto possono soltanto sperare in una lunga autoeducazione morale e pratica. Egli si è quindi rallegrato per l’abbandono delle iniziative riformatrici voluto dall’amministrazione Reagan.
Le idee degli storici neoconservatori, come si può ben vedere, non sono originali. Forse ciò che è nuovo è il tentativo di raggruppare insieme diverse varianti dell’esclusività americana, al fine di ottenere un’unica concezione che si ponga come asse della tradizione conservatrice, oggi quanto mai anticomunista.
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