LE ZONE D’OMBRA E LE ALTERNATIVE STORICHE (II)

La teoria dell’alternativa storica

Nei più recenti dibattiti tra i maggiori storici sovietici che si ispirano al marxismo, si sta mettendo in forte discussione la classica tesi secondo cui la storia ignora il condizionale, per cui è tempo perso chiedersi che cosa sarebbe potuto accadere se al momento della scelta si fossero prese strade diverse.

La tesi è stata sottoposta a critica perché ci si è accorti, in virtù della perestrojka, che la teoria delle formazioni sociali che si succedono in maniera regolare nell’evoluzione storica, è stata per troppo tempo interpretata dagli storici sovietici come una fatale pre-determinazione, incapace di lasciare spazio a diverse varianti di sviluppo, ovvero a delle alternative storiche, virtuali o potenziali, ma non per questo meno reali.

Oggi si è giunti alla conclusione che, per realizzare una maggiore obiettività, occorre che il ricercatore mostri il motivo per cui in un certo periodo storico si è scelta una via e non un’altra, ed è necessario ch’egli che faccia questo evidenziando accuratamente tutte le varianti possibili dell’evoluzione sociale presenti al momento della scelta. In altre parole, egli deve bilanciare l’importanza della “lotta dei contrari”, con l’altro aspetto della dialettica storica: “l’unità degli opposti”. Ovviamente di ciò trarrà beneficio non solo la conoscenza del passato, ma anche quella del presente e la stessa capacità di progettare il futuro.

Sebbene tutto ciò che appartiene al passato sia invariabile, univoco e irrevocabile, è anche vero che tutto ciò che è accaduto (la realtà del passato) è stato l’esito della realizzazione pratica di una fra tante possibilità contenute nel passato immediatamente precedente alla scelta. Nel senso cioè che la realtà avrebbe potuto essere diversa da come poi concretamente si è costituita. Non solo, ma il fatto che nell’evoluzione storica si sia imposta una determinata soluzione su altre, non sta affatto a significare che la soluzione sconfitta vada considerata come la peggiore, né ch’essa non abbia alcuna possibilità, in futuro, di realizzarsi (ovviamente in forme diverse).

Oltre a ciò, gli storici cominciano a chiedersi se abbia davvero senso affermare l’esistenza di diverse possibili soluzioni (a un determinato problema), a prescindere dalla consapevolezza che di esse potevano avere i protagonisti contemporanei; o, viceversa, se si possa parlare di vera alternativa a prescindere non dalla consapevolezza soggettiva dei protagonisti ma, questa volta, dalle possibilità oggettive di realizzazione che il contesto poteva offrire. I più convinti sostenitori della teoria delle alternative storiche (ad es. I. Kovaltchenko, V. Sogrin, A. Chubaryan) ritengono che si possa parlarne solo in presenza dell’unità dei due fattori della dialettica, soggettivo e oggettivo, precisando che il primo va riferito alla realtà delle forze sociali e non tanto a quella dei singoli individui, mentre il secondo implica non solo gli aspetti politici ma anche quelli socio-economici.

Naturalmente per “alternativa storica” si deve intendere non qualcosa in grado di opporsi, in futuro, al presente, ma qualcosa che, nel presente, lotta contro il suo opposto. Senza questa lotta, che può anche essere accanita, non è neanche il caso di parlare di “alternative”. Un’alternativa è reale se ha un certo margine di probabilità di successo. Essa deve risultare come una delle forme di manifestazione della necessità storica, altrimenti non è credibile. Ad es. la perestrojka in atto in tutti i campi della vita sociale, culturale e politica dell’ex-Urss non può essere considerata come un’alternativa dovuta al caso o alla volontà “anticomunista” di qualche politico. Essa piuttosto è stata il frutto di una necessità storica, venuta a maturità, che implicava mutamenti radicali. Semmai è sul modo di condurla o di gestirla che si scontrano diverse possibilità. E se per quanto riguarda il futuro di questo scontro è impossibile pronunciarsi, si può però con sicurezza affermare, sin da adesso, che la vittoria di un’alternativa antidemocratica o antiumanistica non sarà destinata a durare per più di un certo periodo di tempo.

La lotta e l’unità degli opposti

Ciò di cui la perestrojka ha reso consapevoli gli storici sovietici è -come più sopra si diceva- il fatto che non c’è dialettica laddove la lotta degli opposti esclude la loro unità. Nello staliniano Breve corso di storia del Pc(b)r, il processo storico era raffigurato come il frutto di un irriducibile antagonismo di opposte formazioni socio-economiche, e il progresso storico come la sostituzione radicale, violenta, di ogni formazione da parte di quella che doveva succederle. Praticamente non si teneva in alcuna considerazione che il progresso storico non è mai così lineare e monodimensionale, in quanto, oltre al conflitto, esso comporta anche l’interazione, l’interpenetrazione e, su questa base, la coesistenza durevole e l’arricchimento reciproco delle formazioni.

In questo senso purtroppo la storiografia sovietica non ha ancora approfondito a sufficienza la storia dell’influenza vicendevole delle civiltà o delle società tra loro opposte. Lo studio delle formazioni (che resta senza dubbio più preciso di quello della storiografia non marxista) deve ora essere integrato dallo studio delle civiltà. Anche perché furono gli stessi classici del marxismo a sostenere per primi l’idea che le società socialiste avrebbero dovuto integrare e assimilare con spirito critico le migliori conquiste delle società borghesi.

Non ha senso disprezzare, bollandole col marchio di “democrazia formale”, le realizzazioni più avanzate delle grandi rivoluzioni borghesi dei secoli XVII e XVIII, conseguite a prezzo di enormi sacrifici: si pensi alla separazione dei poteri, al pluralismo politico, allo Stato di diritto, alla libertà di coscienza e di opinione. Certo, la borghesia non ha elaborato una compiuta “democrazia economica”, ma ha reso universali i princìpi della democrazia politica. Tenere in opposizione l’interesse umano universale con l’interesse di classe del proletariato non può che screditare quest’ultimo, facendolo apparire come un interesse particolare.

Gli stessi studi sulla storia del capitalismo risentono di questi limiti. Generalmente nella storiografia sovietica il capitalismo veniva diviso in due grandi periodi: dalla rivoluzione inglese del XVII secolo alla rivoluzione d’Ottobre e da questa fino ai nostri giorni. Nel quadro del primo periodo si distinguevano poi due tappe: una anteriore e l’altra posteriore alla Comune di Parigi del 1871, sostenendo, in particolare, che le possibilità progressive della borghesia erano esistite soltanto fino alla Comune, dopodiché il proletariato aveva assunto il monopolio dell’espressione del progresso storico.

Questo modo di vedere le cose è troppo semplicistico per essere vero. E’ stato un errore l’aver interpretato la crisi del capitalismo come permanente, totale (inglobante tutte le sfere, dall’economia all’etica), destinata ad approfondirsi dal 1917 ad oggi. Si è p.es. ignorato il fatto che la IIa guerra mondiale è stata seguita da un rilancio notevole dello sviluppo economico da parte dei principali Stati capitalisti; oppure il fatto che gli stessi sistemi democratico-borghesi hanno contribuito a smantellare le dittature fasciste; o anche il fatto che la disgregazione del sistema coloniale ha indotto il capitalismo a perfezionare i meccanismi interni di sviluppo, soprattutto quelli tecnico-scientifici, al fine di realizzare col Terzo Mondo un rapporto di tipo neocoloniale.

Non solo, ma la storiografia sovietica, grande maestra nel delineare i tratti generali della storia delle masse popolari, è rimasta in ritardo circa lo studio della fisionomia e mentalità dei diversi gruppi e strati della società. L’uomo semplice, ordinario, dai tempi dell’antichità all’epoca contemporanea, non è mai stato oggetto di una vera psicologia storica, di una vera demografia: sono ancora troppo scarse le storie della famiglia, delle donne, dei giovani, degli uomini nella loro vita quotidiana, nella loro mentalità.

Occorre cambiare atteggiamento anche nei confronti della storiografia non marxista (si pensi soprattutto alle Annales e a F. Braudel). Il recente approccio interdisciplinare di questa storiografia (che si serve degli studi demografici, antropologici, psico-sociologici) può aver generato degli inconvenienti, ma ha sicuramente allargato gli orizzonti della conoscenza storica. Oggi questa storiografia s’è messa perfino a studiare i campi della storia socio-economica, tradizionale patrimonio della scienza marxista. Senza considerare che gli studi sociali della storiografia borghese relativamente ai gruppi etnici e religiosi, alle comunità rurali e urbane, alle donne e al movimento femminista, alla coscienza comune, ecc., possono essere di grandissimo aiuto alla storia sociale marxista, che prende in esame le classi e la coscienza di classe.

Occorre infine che gli storici sovietici mutino atteggiamento anche nei confronti della storiografia marxista dei paesi occidentali, spesso frettolosamente giudicata d’essere “revisionista” (si pensi alle opere degli inglesi E. Hobsbawn, G. Rude e C. Hill).

800 vocaboli e affissi di origine indiana, 70 di origine persiana, 40 di origine armena e circa 200 termini tratti dal greco…..

La lingua romaní detta anche romaní chib o romanès o romanó (quest’ultimo termine è usato in Spagna e viene detto anche calo) non ha nulla a che vedere con la lingua rumena, né con le lingue romanze, né tanto meno con il romanesco della città di Roma, ma è una lingua strettamente imparentata con le lingue neo-indiane come l’hindi, il punjabi, il kasmiri e il rajastani e deriva dal sànscrito. La romaní chib non è altro che il risultato dell’evoluzione, al pari delle lingue citate, di forme popolari e mai scritte di idiomi indiani, mentre il sànscrito è il risultato di una lingua scritta da eruditi in forma colta e artificiale. Il romanès non è un dialetto delle lingue neo-indiane menzionate, ma una lingua a sé stante viva e vitale e come tutte le lingue ha tante varianti dialettali. Essendo tramandata oralmente per oltre dieci secoli, si è arricchita degli imprestiti dei popoli con cui è venuta in contatto. Dei tratti indiani la lingua romaní conserva soprattutto:
-la similitudine del sistema fonologico sia sul piano della struttura che su quello della frequenza dei fonemi;
-circa 800 vocaboli e affissi;
-la quasi identità morfologica del gruppo nominale romaní con quello delle lingue neo-indiane, con una declinazione di due casi (diretto e obliquo) e di un sistema di posposizioni; a questo si aggiunge l’accordo per genere, per numero e per casi della posposizione possessiva;
-delle similitudini fra le morfologie verbali romanès e le lingue neo-indiane.
Oggi i romanologi sono concordi nel sostenere che in tutti i dialetti della lingua romaní c’è una base di parole comuni: circa 800 vocaboli e affissi di origine indiana, 70 di origine persiana, 40 di origine armena e circa 200 termini tratti dal greco, non mancano termini rari come quello buruÒaski (lingua isolata dell’Himalaya) vun‡ile che significa “debiti” e la parola georgiana camcàle che significa “ciglia” (Marcel Courthiade). Ciò sottolinea come fino all’Impero Bizantino la popolazione romaní sia rimasta sostanzialmente unita (a parte le comunità che disseminava lungo il suo percosso verso Occidente). In Europa la lingua romaní si è arricchita dei vocaboli delle lingue e dei dialetti delle popolazioni ospitanti, a seconda dell’itinerario seguito. Oggi, è anche una lingua scritta grazie ad una fiorente letteratura (poesie, romanzi, opere teatrali, racconti, saggi, articoli giornalistici, ecc.) che si è sviluppata soprattutto nella seconda metà del Novecento.
A causa delle persecuzioni sistematiche in molte regioni e in molti Stati la lingua romaní si è fortemente indebolita, tanto che oggi vengono adottate le grammatiche dei Paesi ospitanti arricchite con il lessico romanò. I linguisti chiamano questo innesto di romanès nelle grammatiche delle lingue locali para-romaní o in Inghilterra, pogadi jib ( < romanès pakerdì chib che significa letteralmente “lingua rotta”). Sono le comunità romanès della Gran Bretagna, della Norvegia, della Svezia, della Spagna e del Portogallo che, oggi, parlano il para-romaní (in Gran Bretagna è detta anche anglo-romanès e nella penisola iberica calo).
Esistono due lingue vicine al romanès che si sono separate da esso fra l’epoca della partenza dall’India e quello dell’arrivo in Europa: il domani o nawar (Siria, Libano, qualche gruppo in Egitto) e il lomani o bo∂a (Armenia, oggi probabilmente estinti).
Romaní (in inglese si trova scritto anche romany) non è altro che la forma aggettivale del sostantivo Rom, da cui deriva anche la forma avverbiale romanès. È importante sottolineare che, nonostante gli etnonimi diversi, tutti i gruppi di Rom (Roma), Sinti, Manouches, Kale (Cale) e Romanichals definiscono la loro lingua come romaní (romany) o romanès o romanó ed è parlata in tutti gli Stati europei, nelle Americhe, in Australia, in Nord Africa (Egitto, Algeria) e in Medio Oriente.
La lingua romaní è lo specchio fedele della storia e della cultura delle comunità romanès. E proprio grazie allo studio della loro lingua che si è potuto svelare una parte del mistero delle origini dei Rom, Sinti, Kale, Manouches e Romanichals che da più di tre secoli girovagavano continuamente in Europa, soprattutto a causa delle politiche persecutorie. La scoperta avvenne nel 1760 grazie al sacerdote ungherese Istvàn Vályi, attraverso il confronto fra il vocabolario della lingua Malabar di studenti indiani suoi colleghi a Leide e quella dei Rom Ungheresi. La sua in realtà fu solo un’intuizione geniale. Anche l’inglese Jacob Bryan nel 1776 sostenne l’origine indiana della popolazione romaní così come un altro inglese Williams Marsden. La conferma scientifica arrivò nel 1782 quando venne pubblicato a Leipzig il risultato degli studi effettuati nel 1777 Von der Sprache und Herkunft der Zigeuner aus Indien (della lingua e dell’origine degli zingari dall’India), in cui l’autore, il tedesco Johann Carl Christoph Rüdiger dimostra attraverso il metodo comparativo, che alcune frasi in lingua romaní sono collegate con alcuni dialetti dell’India Settentrionale. Questa “scoperta” viene consolidata e arricchita dal tedesco Heinrich Moritz Gottlieb Grellmann che con il suo libro De Zigeuner. Ein Historischer Versuch über die Lebensart und Verfassung, Sitten und Schicksale dieses Volkes in Europa, nebst ihrem Ursprunge (Gli zingari. Un tentativo storico sul modo e concezione di vita, costumi e sorte di questo popolo in Europa, come pure sulle sue origin), pubblicato a Lipsia nel 1783, cancellava molti dei dubbi sulle origini della popolazione romaní, unendo alle analisi linguistiche anche l’indagine storica e la descrizione dei costumi.
È un fatto ormai ben noto che la lingua romaní si divide in un gran numero di dialetti. Se si escludono le parlate definite para-romaní o pogadi jib (anglo-romaní, calo o ibero-romaní, bo∂a o lomani armeno, domani o nawar siriano, libanese ed egiziano) gli altri dialetti sono sufficientemente vicini per essere considerati come forme di una sola e medesima lingua.