Storia del mito americano (II)

La teoria dell’esclusività americana prese un nuovo impulso verso gli inizi del XX secolo col rafforzamento dell’economism borghese nella storiografia di questo paese.

Gli studi economico-sociali s’imposero nell’epoca in cui, di fronte ai seri rivolgimenti sociali e alla crescita del movimento operaio e antimonopolistico, le concezioni che riconducevano il processo storico essenzialmente alla storia politica perdevano il loro significato sociale e non convincevano più nessuno.

L’orientamento sociale della nuova corrente storiografica era conforme, grosso modo, ai compiti del riformismo borghese. Col mutare della situazione, parte degli ideologi e dei ricercatori si proposero d’esaminare più da vicino le cause materiali del malessere sociale e di trovare altresì i mezzi per risolvere o almeno attenuare i conflitti di classe.

Lo stesso sviluppo interno della scienza storica favorì questa ricerca. Le indagini degli storici “economisti”, per quanto non prendessero in esame la genesi e lo sviluppo della formazione capitalistica e per quanto sostituissero alla divisione in classi una semplice classificazione per gruppi economici, contribuirono a una migliore comprensione dei soggetti socioeconomici e del ruolo dei conflitti sociali nella storia degli Stati Uniti.

Tuttavia l’influenza degli storici economisti sulla teoria dell’esclusività americana non fu univoca. Alcuni di loro assolutizzarono le particolarità dello sviluppo economico della regione, cercando di completare la teoria con argomentazioni appunto di tipo economico.

L’esponente più significativo di questo indirizzo fu F. J. Turner, con la sua Theory of the Frontier (in America s’intendeva per “frontiera” la linea più avanzata dell’insediamento dei coloni bianchi durante la colonizzazione dell’ovest).

Turner, in gioventù, condivideva le idee della scuola anglosassone, ma poi se ne distaccò proprio per l’importanza decisiva che diede alla colonizzazione nella storia degli Usa.

Dando un’interpretazione sociale al ruolo della frontiera, così scrisse nella sua famosa relazione tenuta nel 1893 all’Associazione storica americana: “Le terre libere favorirono l’eguaglianza fra i coloni dell’ovest e neutralizzarono le influenze aristocratiche dell’est. Laddove ognuno poteva avere una fattoria… l’eguaglianza economica si stabiliva facilmente, e questo determinava l’eguaglianza politica”.

Deducendo la democrazia politica dalla fragile ed effimera eguaglianza sociale creatasi all’ovest (peraltro a spese delle popolazioni native), Turner affermava che “la democrazia americana contrastava nettamente… con gli sforzi dell’Europa di creare un ordine democratico artificiale attraverso la legislazione”.

A suo giudizio il regime democratico dell’ovest americano riuscì a diffondersi in tutte le maglie della società avanzata, rinnovando la democrazia dell’est. La frontiera agiva dunque su due piani: da un lato, le vecchie idee politiche importate dall’est subivano forti mutamenti sotto l’influenza delle condizioni ambientali, sociali e geografiche dell’ovest; dall’altro, le terre libere agivano sui rapporti sociali dell’est come una valvola di sfogo, in quanto le popolazioni superflue lasciavano le coste orientali dell’America per andare a vivere in occidente.

Senonché, prosegue Turner, i rapporti sociali dell’ovest si complicarono progressivamente con l’offensiva della civilizzazione che veniva da est. Lo sviluppo del capitalismo indebolì l’eguaglianza sociale della frontiera erodendo così il sostrato democratico.

La frontiera però non morì – afferma ancora Turner -, essa si spostò soltanto verso ovest, verso una nuova area da colonizzare. Su terre libere e non popolate si ristabilirono così l’equilibrio sociale e i principali ideali dei pionieri: individualismo, democrazia, nazionalismo, espansionismo.

Turner elaborò le sue idee in un periodo in cui gli echi della tricentenaria colonizzazione dell’ovest si sentivano ancora nel clima sociale, nella vita quotidiana e nella letteratura. Egli rappresentò il culmine di una lunga tradizione che mirava a considerare le terre libere come un rimedio salutare ai mali del capitalismo. La tradizione durò appunto fino a quando le terre rimasero disponibili.

Nel 1862 si mise in atto l’esigenza di una riforma agraria unanimemente sostenuta dai farmers dell’ovest: l’Homestead Act, che permise a ciascuno, per un prezzo nominale, di entrare in possesso di un lotto di 160 acri.

Nonostante questo però non si riuscì a perpetuare nell’ovest la piccola azienda a conduzione familiare, né a permetterne l’accesso agli operai industrializzati. Dopo la guerra civile del 1861-65, il capitalismo progredì enormemente negli Usa, sia nell’industria che nell’agricoltura.

Dal 1860 al 1880 il numero degli operai agricoli quadruplicò, mentre i mezzadri divennero più del 30% di tutte le aziende contadine. Il capitalismo incatenò saldamente la gran massa degli operai alle macchine utensili. Per ogni operaio che diventava proprietario d’una fattoria ce n’erano altri 20 spinti nei ranghi del proletariato. Questa volta era lo sviluppo in profondità del capitalismo che prevaleva su quello in estensione.

L’utopia agraria inesorabilmente fallì, anche se le idee utopiche da essa generate sopravvissero, divenendo conservatrici. L’apologia si manifestò soprattutto nella teoria della “scala agricola”, secondo cui un operaio agricolo poteva, dopo aver lavorato per un certo periodo di tempo nella fattoria padronale, diventare mezzadro e in seguito proprietario fondiario.

L’illusione coltivata dalla propaganda degli agrari non era più in buona fede. E comunque l’influenza della teoria della frontiera sul pensiero storico americano fu vasta e contraddittoria, non foss’altro che per l’artificiale separazione prodotta da Turner circa le due tendenze dello sviluppo capitalistico, in larghezza e in profondità, a tutto vantaggio della prima.

Egli credeva di scorgere nel suo paese un modello per il mondo intero. Eppure già negli anni Novanta il Census Bureau dichiarò chiusa la frontiera. In quell’occasione Turner constatò amaramente che le terre vacanti erano finite, che le forze materiali che avevano dato vita alla democrazia dell’ovest non esistevano più e che il paese era diventato come una “caldaia bollente”.

Egli si mise alla ricerca di nuove valvole di sfogo, apprezzando le ricette del riformismo borghese moderato e appoggiando con fiducia le iniziative di Th. Roosevelt e di W. Wilson. Non smise di credere nel valore dell’espansionismo americano: ecco perché condivise la politica imperialistica degli Usa condotta nei confronti del Sudamerica e dell’Estremo Oriente a cavallo dei secoli XIX e XX.

Ma il rappresentante più eminente del pensiero storico americano del XX secolo fu Ch. A. Beard, che denunciò i limiti dello schema storico della teoria di Turner. Egli basò la sua spiegazione della storia degli Stati Uniti sull’urbanizzazione, scoprendo nello sviluppo del capitalismo industriale il principale motore del processo storico dei tempi moderni.

Contrario a Turner, che faceva dipendere il benessere dal rapporto elementare dell’uomo con la natura, Beard pensava invece ch’esso dipendesse dalla rottura di tale rapporto. Non quindi la frontiera ma solo lo sviluppo industriale avrebbe potuto attenuare le contraddizioni sociali.

Egli comprendeva perfettamente che in seguito alla rivoluzione industriale erano emersi nuovi problemi, il primo dei quali era l’antagonismo tra capitale e lavoro. Pur tuttavia era convinto che l’industrialismo avrebbe ammortizzato col tempo i costi del progresso.

Beard mostrò in maniera assai realista che la concentrazione del capitale, alla fine del XIX secolo, aveva portato alla formazione di trust giganteschi, diretti da un’élite finanziaria, che p.es. i Gould e i Rockefeller, che sfruttavano qualunque tipo di risorsa umana e materiale. Le sue simpatie andavano per i nullatenenti, e spesso affermava che il popolo sapeva opporsi a questo modo non americano di governare.

Il fatto che alle elezioni del 1896 e del 1912 gli americani avessero riportato significativi successi nella democratizzazione del paese era sufficiente, a suo giudizio, per concludere che l’ulteriore sviluppo industriale avrebbe appianato i contrasti sociali e politici più acuti, approdando verso una sorta di “collettivismo democratico”.

Partecipando al movimento riformista borghese degli inizi del Novecento, Beard favorì la tendenza sintetizzata nella formula rooseveltiana del “nuovo nazionalismo”, secondo cui bisogna non tanto impedire l’attività ai monopoli quanto piuttosto regolamentarla attraverso lo Stato.

Egli prese posizione contro W. Wilson che esigeva, senza dubbio demagogicamente, la soppressione dei trust, e il revival della tradizione agraria jeffersoniana.

Beard era altresì convinto che i principali avvenimenti della storia americana avessero per contenuto fondamentale lo scontro fra gli interessi industriali e quelli agrari. In virtù di questa grande competizione si sarebbero determinati, a suo parere, un’attenuazione delle differenze di classe e il sorgere di una democrazia universale.

Beard cercò anche di ridimensionare la teoria dell’esclusivismo americano, affermando che le categorie del progresso industriale e dell’urbanizzazione si applicavano anche ai paesi europei. Insieme a A. M. Schlesinger e J. Jameson egli dimostrò che fra le rivoluzioni borghesi americana e francese del XVIII secolo c’erano molti punti in comune.

Ciò tuttavia non gli impediva di credere nella specificità dello sviluppo americano, cioè nelle condizioni particolarmente propizie all’industrialismo (che avevano generato, secondo lui, una sorta di “capitalismo puro”) e soprattutto nel carattere fortemente democratico delle loro istituzioni politiche. E’ significativo che questo elemento nazionalistico abbia trovato la sua più piena valorizzazione durante lo scatenamento sciovinistico della I guerra mondiale, la quale – ai suoi occhi – altro non rappresentò che lo scontro di due sistemi politici opposti: autocrazia e democrazia.

Ma le posizioni politiche di Beard subirono delle modificazioni. Col tempo, p.es., egli ammise che le sue conclusioni circa il trionfo della nuova democrazia all’inizio del XX secolo erano state premature, che la sua analisi della I guerra mondiale era sbagliata, in quanto si era trattato dello scontro fra grandi potenze rivali.

Negli anni Trenta adottò il relativismo e dopo la II guerra mondiale abbandonò il determinismo economico, il quale, nonostante i suoi difetti, aveva senza dubbio permesso di porre in maniera intelligente molti importanti problemi storici.

Il tema dell’unicità dell’evoluzione agraria degli Usa e della mobilità sociale degli americani occupò un posto sempre più grande nei suoi scritti; e arrivò persino a conciliare la tesi di Turner sulle frontiere territoriali con la concezione dell’industrialismo e ad apprezzare positivamente le idee di Jefferson.

Storia del mito americano (I)

La storia degli Stati Uniti, come quella di numerosi altri paesi dell’epoca moderna, ha per contenuto essenziale lo sviluppo dei capitalismo e della società borghese. Solo che in questo caso le condizioni storiche in cui lo sviluppo è avvenuto sono state particolarmente favorevoli: assenza del sistema feudale e di un pesante apparato burocratico, vittoria nella guerra d’indipendenza contro l’Inghilterra (1775-83), vantaggiosa situazione geografica e immense ricchezze, ancora vergini, di un intero continente.

Il territorio americano aumentò di dieci volte da 1776 al 1900. L’esistenza delle libere terre, da sottrarre prevalentemente ai nativi, facilitò il percorso della via democratica nell’evoluzione capitalistica dell’agricoltura e creò le condizioni necessarie per uno sviluppo impetuoso dell’industria capitalistica alla fine del XIX secolo.

L’Europa diede al nuovo mondo milioni e milioni di uomini e donne già in grado di lavorare. Due guerre mondiali consolidarono le posizioni degli Usa nel mondo capitalista. Queste e altre peculiarità conferiscono alla storia del paese una grande originalità e ci aiutano a comprendere fenomeni come la forza di lunga durata del capitalismo americano, la relativa debolezza del movimento operaio e taluni tratti del carattere nazionale degli americani.

Proprio le particolarità dello sviluppo economico, sociale e politico – male interpretate da una certa apologetica borghese e sciovinistica – diedero corpo alla cosiddetta “teoria dell’esclusività”, destinata a mostrare sia la tipicità dell’esperienza storica americana che il modello ideale da seguire in tutto il mondo relativamente alle istituzioni sociopolitiche di tale paese.

La teoria dell’esclusività si modificò nel corso delle generazioni, riflettendo gli interessi dei diversi gruppi sociali, ma nel complesso essa continuò a restare un elemento essenziale della coscienza borghese americana.

Gli inizi storici della formulazione di questa idea risalgono alla stessa scoperta dell’America. come elemento dell’utopia sociale, della leggenda dell’età dell’oro. Nel 1516 Tommaso Moro situò il suo Stato ideale in questo nuovo continente, ispirando una sequela di imitatori (fra i più noti Rousseau.

L’idea dell’esclusività divenne parte integrante della filosofia dei coloni europei in America. Costoro infatti non lasciavano l’Europa solo per cercare una vita migliore, ma anche perché si sentivano mossi dalla volontà di creare una nuova società, diversa da quella europea e libera dalla schiavitù feudale.

Lo stesso nome di “Nuovo Mondo” costituiva un vero e proprio simbolo, in cui si riconoscevano il contadino ex-europeo desideroso di terra, l’artigiano che voleva realizzare guadagni più decenti dal suo lavoro e il puritano perseguitato che sognava di realizzare i suoi progetti di una celestial city.

Nell’epoca coloniale l’America fu considerata come un rifugio per la nuova fede religiosa emergente in Europa: il protestantesimo. Le cronache e le memorie di W. Bradford, governatore del New Plymouth, e di J. Winthrop, il primo governatore della colonia della Massachusetts Bay, e di altri ancora, mostrano chiaramente che i coloni, nelle loro azioni, si sentivano ispirati dalla divina provvidenza. L’idea di una particolare “elezione” risaliva alla dottrina calvinista della predestinazione, che occupava un posto di rilievo nell’ideologia puritana.

Allo stesso tempo i cronachisti puritani cercavano d’interpretare il ruolo dei coloni nella storia alla luce del Vecchio Testamento; essi stabilirono infatti una diretta analogia fra la partenza dall’Inghilterra corrotta per l’America e la fuga leggendaria degli ebrei dall’Egitto. L’America appariva loro come un luogo designato da Dio per creare la “Nuova Sion”.

La concezione del mondo degli illuministi americani, essendosi formata durante la lotta per l’indipendenza e l’unità nazionale, modificò sostanzialmente l’atteggiamento spirituale verso l’idea dell’esclusività. B. Franklin, Th. Jefferson e Th. Paine si staccarono decisamente dalle concezioni teologiche degli autori delle cronache e memorie.

Partendo dall’idea di un uomo naturale astratto, essi vedevano il motore dello sviluppo storico di tutti i popoli del mondo nell’istruzione, nel progresso delle conoscenze e della morale. Allo stesso tempo però l’esistenza delle terre libere, che sembravano inesauribili, generava in loro l’illusione che ogni americano avrebbe potuto beneficiare del suo diritto naturale alla terra e che quindi la proprietà sarebbe stata equamente ripartita, garantendo la prosperità universale per i secoli a venire.

In particolare, J. de Crèvecoeur vedeva nel Nordamerica la materializzazione dell’utopia roussoiana. Il giovane Jefferson s’immaginava addirittura che l’America sarebbe diventata una repubblica di farmers, in cui si sarebbero imposte le virtù civili. Nel suo primo messaggio presidenziale del 1801 Jefferson, per quanto più moderato che all’epoca delle sue convinzioni illuministiche, parlava ancora degli americani come di un “popolo eletto”.

Con la conquista dell’indipendenza la fede nel destino particolare dell’America conobbe una diffusione ancora più vasta. Lo sviluppo socioeconomico di questa regione, nel corso della prima metà del XIX secolo, non diede molto spazio alle teorie utopiche sulla via non-capitalistica.

Il consolidarsi dei capitalismo a est, nella parte “antica” dell’America, venne accompagnato dalla colonizzazione dell’ovest. Il primo processo significò lo sviluppo del capitalismo in profondità, il secondo in estensione. “Lo sviluppo del capitalismo in profondità, nei territori più antichi, da lungo tempo abitati, venne ritardato dalla colonizzazione delle province periferiche. La soluzione delle contraddizioni generate dallo stesso capitalismo venne temporaneamente rinviata dal fatto che il capitalismo ha potuto facilmente progredire in larghezza”, cosi scriveva Lenin, esaminando dialetticamente l’interazione delle due tendenze.

In condizioni di rapporti capitalistici non sufficientemente sviluppati, le terre disponibili frenavano la progressiva espropriazione delle terre dei contadini, permettendo a una parte dei farmers e a certi gruppi di operai insediatisi all’ovest di conservare e anzi di migliorare il loro status sociale precedente.

Lo sviluppo estensivo del capitalismo ritardò per qualche tempo lo scoppio delle contraddizioni fra capitale e lavoro. La colonizzazione dell’ovest fece nascere illusioni e aspirazioni piccolo-borghesi non solo tra i farmers, ma anche in seno alla classe operaia (una fattoria per ogni lavoratore, si diceva) e favoriva la diffusione di diverse utopie agrarie. Di quest’ultime i migliori interpreti furono i nazional-riformatori degli anni quaranta, D. Evans e H. Krige, che chiedevano la distribuzione gratuita ai nullatenenti delle terre ancora libere.

Evans era altresì convinto che la riforma agraria avrebbe emancipato i lavoratori dall’oppressione del capitale. In che modo? Insediandone alcuni sulla terra, mentre altri avrebbero ottenuto significativi aumenti salariali, minacciando i padroni di partire verso l’ovest.

L’apologetica religiosa dell’esclusività sopravvisse nell’epoca coloniale, ma a partire dalla guerra d’indipendenza fu posta in secondo piano dall’idea dell’esclusività politica degli Usa. La fondazione stessa d’una repubblica nordamericana fu considerata come una rivoluzione più antieuropea che antifeudale, per quanto gli elementi messianici non mancassero mai.

Washinghton, Adams e molti altri presidenti americani associavano i destini degli Stati Uniti ai disegni della volontà divina. Questa tendenza dell’esclusivisimo americano fu seguita dalla canonizzazione dei padri fondatori. A. de Tocqueville, storico e politico francese, che visitò gli Usa negli anni trenta del secolo scorso, osservò che il patriottismo degli americani e la fierezza delle loro istituzioni sociopolitiche si tramutavano facilmente nella convinzione della loro superiorità.

In un’atmosfera di euforia nazionale il terna dell’esclusività conobbe un nuovo impulso nelle opere degli storici di tendenza romantica. Il rappresentante più illustre di questa corrente, dominante nel corso della prima metà del XIX secolo, fu G. Brancroft, fondatore della “scuola precoce” (early school), che tratteggiò non più storie separate delle diverse colonie americane, ma, per la prima volta, il quadro generale dello sviluppo della nazione americana.

Nella sua visione liberal-romantica, il processo storico appariva come un costante cammino verso la libertà. La rivoluzione americana era da lui vista come l’epilogo di tutta la storia a essa precedente e come l’inizio di una nuova e ancora più gloriosa epoca. La lotta dei primi coloni per la sopravvivenza veniva presentata come il trionfo degli ideali più nobili, come una crociata per le libertà democratiche.

Bancroft non si preoccupava affatto della permanenza dello schiavismo, che considerava come un piccolo difetto nell’orizzonte della repubblica. D’altra parte egli era convinto che proprio tale repubblica avesse molto cose da insegnare agli europei. La stessa rivoluzione del 1848 in Europa fu da lui considerata come un’eco della democrazia americana.

Il nazionalismo borghese americano degenerò ben presto nel dogma espansionista dei “doveri particolari” degli Usa e, come tale, trovo la sua più chiara espressione nella dottrina del manifest destiny (destino predeterminato) promosso negli anni quaranta del secolo scorso, secondo cui gli Usa erano destinati a svolgere il ruolo di riformatori del mondo. Dottrina che poi divenne il simbolo dell’espansionismo politico americano.

A cavallo dei secoli XIX e XX esistevano ancora molti fattori favorevoli allo sviluppo del capitalismo in questa regione del mondo. La guerra civile dei 1861-65 aveva abolito la schiavitù e assicurato una rapida crescita dell’industria. Gli immigrati che affluivano in America erano decine di milioni.

Tuttavia, con il sorgere dell’epoca imperialista e con l’affermarsi dei consorzi monopolistici, la teoria dell’unicità dello sviluppo storico americano e della sua superiorità nei confronti del modello europeo cominciava a sgretolarsi. Il nuovo mondo presentava vistose somiglianze cori il vecchio.

Ma negli Stati Uniti le illusioni continuavano a persistere. Le masse, che pur protestavano contro le più evidenti manifestazioni d’ingiustizia sociale, conservavano la fede ingenua nell’esclusività del destino nazionale. Un’ideologia, questa, che di conseguenza veniva sempre più a trasformarsi da relativamente democratica in chiaramente apologetica.

Le idee esclusivistiche ricevettero una nuova colorazione e furono puntellate dai nuovi argomenti della storiografia americana alla fine del secolo XIX.

Dopo la guerra civile la Scuola di Bancroft declinò e, per la soluzione dei nuovi problemi, acuti e complessi, che emergevano, la teosofia era certamente uno strumento poco efficace. Nel contempo i successi delle scienze naturali e dei loro metodi d’indagine esercitavano una certa influenza sul pensiero sociale.

I principali orientamenti della storiografia americana subirono, secondo gradi diversi, il fascino del pensiero storico europeo e della filosofia positivista in particolare.

Il nucleo della scuola anglosassone fu costituito negli Usa nell’ultimo quarto del XIX secolo, da parte di quegli storici americani che avevano frequentato le università inglesi e tedesche. Questa scuola riconduceva l’evoluzione sociale allo sviluppo delle istituzioni politiche. Essi acquisirono metodi più perfezionati di lavoro con le fonti, ma mostrarono anche idee e concezioni storiche scioviniste.

Infatti gli storici di questa scuola affermavano che i popoli di origine anglosassone avevano creato delle istituzioni costituzionali perfette, che praticamente univano ai principi dell’individualismo quelli di un potere statale forte, l’autonomia locale al federalismo.

Inoltre gli anglosassoni – essi dicevano – avevano trasferito nel V secolo l’eredità politico-teutonica in Inghilterra, da dove i coloni puritani la portarono nel Nordamerica nel XVII secolo.

Puntando l’attenzione sulla genealogia delle istituzioni politiche americane, essi cercarono di trovare nell’America coloniale le possibili somiglianze fra queste istituzioni e l’antica organizzazione tribale germanica. La John Hopkins University di Baltimora divenne il centro di questo nuovo trend, e H. B. Adams il suo propagandista più attivo. Idee analoghe vennero sviluppate anche da altri esponenti della scuola anglosassone: ad esempio le opere di J. Fiske ebbero grande notorietà.

In definitiva, l’attenzione prestata da questi storici alla teoria germanista e alla politica comparata era mossa dall’esigenza di trovare delle prove concrete riguardo all’esclusività delle istituzioni costituzionali americane, delle prove che fossero più convincenti degli argomenti della scuoia di Bancroft.

Numerosi storici della scuola anglosassone arrivarono persino a dire che la diffusione di queste perfette istituzioni oltre le frontiere nazionali era un diritto-dovere degli Usa. Un’idea questa che, collegata colle tradizioni espansioniste americane, divenne parte integrante dell’ideologia imperialista che negli Usa s’impose a cavallo dei secoli XIX e XX.