La storiografia americana contemporanea (I)
Sin dalla II guerra mondiale l’evoluzione del pensiero storico americano è stata largamente determinata da un forte rinnovamento delle sue basi metodologiche. Si cominciò infatti coll’adottare i metodi cosiddetti quantitativi e interdisciplinari, molto più positivistici del logoro neokantismo.
Naturalmente le esigenze della politica governativa, in tale mutamento, ebbero la loro parte. La maggioranza degli storici americani sposò le idee di un gruppo sociale elitario e costituì l’ala apologetica degli studi storici di questo paese: una piccola minoranza invece rifletteva gli interessi dell’opposizione sociopolitica e per questo la si può definire socialmente critica.
Il legame tra ricerca storica e schieramento politico è sempre stato molto sentito negli Stati Uniti: proprio in virtù di esso gli storici decidono le metodologie da adottare, gli argomenti da trattare, le fonti da consultare, ecc.
Negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso la scuola apologetica del consensus servì da “portavoce storiografica” alle istituzioni: essa tolse al passato americano la scomoda realtà dei conflitti di classe e alimentò il concetto di “esclusività americana”.
Tuttavia, a partire dalla metà degli anni ’60 sino alla fine degli anni ’70, il trend storiografico radicaldemocratico, che si sviluppò in sintonia con i movimenti democratici di massa di quel periodo, provocò un’inversione di rotta. Gli antagonismi, le contraddizioni e i conflitti non solo smettevano d’essere censurati, ma venivano anche posti alla base del processo storico.
Si può in sostanza dire che la storiografia americana non marxista è passata, dalla seconda guerra mondiale sino all’inizio degli anni ’80, per tre stadi: conservativo, liberale e radicaldemocratico, ognuno dei quali ha chiaramente espresso uno stretto legame fra la storia come disciplina e le situazioni sociopolitiche in mutamento.
Negli anni ’40 e ’50 la storiografia reagì favorevolmente alla “guerra fredda” scatenata dalle autorità americane e alla pesante atmosfera anticomunista. La scuola del “consenso” era riuscita facilmente a far convergere gli orientamenti conservatori e liberali, la cui principale differenza stava semplicemente nell’idea storica dell’America.
Gli storici conservatori sostenevano che la società nordamericana avesse conseguito la sua forma classica nel momento in cui i Padri pellegrini (o fondatori) sbarcarono in America dal Mayflower nel 1620, stipulando il primo “contratto sociale” della storia. I liberals invece sostenevano il capitalismo monopolistico riformato, che, a loro giudizio, avrebbe creato uno stato di prosperità universale.
In ogni caso entrambi i gruppi manifestavano piena lealtà alla teoria dell’esclusività americana, e interpretavano l’esperienza storica americana come l’incarnazione di un esperimento democratico unico. Essi videro lo Stato economico creato dai monopoli come molto solido e negarono la presenza di antagonismi di classe e conflitti sociali acuti nella storia americana.
L’assenza di un’eredità feudale nel passato americano si pensava avesse liberato la storia degli Usa non solo dalla tradizione borghese rivoluzionaria ma anche da quella socialista. Questa tesi, elaborata per la prima volta da Louis Hartz nel 1955, acquistò subito vasti consensi.
La tradizione socialista veniva così ad essere considerata una conseguenza della lotta antifeudale, non antiborghese: era il prodotto non della società capitalista ma di quella feudale. Questa concezione storica priva di qualunque scientificità venne usata proprio per eliminare la tradizione rivoluzionaria, radicale e socialista del passato americano.
Ma proprio nel momento in cui sembrava che l’edificio costruito su questi pilastri teoretici fosse di una solidità eccezionale, scoppiò la gravissima crisi degli anni ’60. Influenzati dalla lotta per i diritti civili dei neri americani, dal movimento di massa antimilitarista e dalle azioni politicosindacali della classe operaia, gli storici cominciarono ad assumere posizioni radicali e di sinistra.
La scuola del consenso andava perdendo ogni credibilità e l’ala liberale si stava progressivamente staccando da quella conservatrice. Una monografia di R. Hofstadter, leader riconosciuto della tendenza liberale, conferma questo mutamento. Mettendo criticamente a confronto le due principali scuole storiografiche non-marxiste degli Usa, quella del consensus e quella progressista, egli ammise non solo che nella storia dell’America ci sono stati forti conflitti e contraddizioni antagonistiche, ma anche che la guerra d’Indipendenza del 1775-83 e la guerra civile del 1861-65 avevano un carattere rivoluzionario (cfr The Progressive Historians: Turner, Beard, Parrington, N.Y. 1968).
Tuttavia, il risultato più importante degli anni ’60 fu la formazione della cosiddetta storiografia new left (nuova sinistra), che si guadagnò i riconoscimenti accademici negli anni ’70 e ’80 con la denominazione di “scuola radicale”.
Molto famosi divennero i suoi principali esponenti: W. A. Williams, G. Kolko, E. D. Genovese, E. Foner, H. G. Gutman, L. F. Litwack e M. Dubofski. A tutt’oggi essa rappresenta il meglio della storiografia americana. La stessa scuola marxista non regge il confronto.
Le sue origini risalgono alla progressive school degli inizi del secolo. Ch. Beard, C. L. Becker, V. L. Parrington, A. Schlesinger sr., C. Vann Wooward furono i primi non-marxisti ad elaborare una sofisticata analisi delle tradizioni rivoluzionarie, radicali e democratiche della storia americana, i primi a studiare la lotta di classe dei farmers e dei movimenti di massa antimonopolistici.
Questi storici distinguevano tre principali periodi nella loro concezione della storia americana: un periodo iniziale che va dalla formazione delle colonie nordamericane alla fine del XVIII sec.; un periodo medio che va sino al 1860; e l’ultimo periodo che andava a concludersi agli inizi del Novecento.
Stando alle loro analisi la guerra d’Indipendenza – definita come una “rivoluzione socio politica” – portò il primo periodo a maturità; la guerra civile (chiamata anche “seconda rivoluzione americana”) concluse il secondo periodo; mentre la vittoria delle forze antimonopoliste fu l’atto culminante del terzo periodo.
Le concezioni contraddittorie e a volte semplicistiche di questa scuola progressista dipesero indubbiamente dalle origini piccolo borghesi dei suoi esponenti, nonché da un certo eclettismo metodologico. Sebbene infatti essi riconoscessero l’importante ruolo della lotta di classe nella storia degli Usa, non considerarono mai il proletariato come una classe indipendente, caratterizzato da una propria ideologia, preferendo invece vedere i lavoratori come alleati della borghesia liberaldemocratìca. Lo dimostra ad es. il fatto ch’essi stimavano il new deal di Roosevelt degli anni ’30 come la “terza rivoluzione antimonopolistica” degli Usa.
Sotto questo aspetto si può tranquillamente affermare che gli storici radicali degli anni ’60 siano stati influenzati dal marxismo molto più dei loro colleghi progressisti d’inizio secolo. Essi infatti videro la società capitalistica americana come un sistema antagonistico a livello economico, sociale e politico, che tale è stato – come essi ben evidenziarono – sin dall’inizio della storia americana, e non solo relativamente al periodo moderno. Di qui la loro esigenza di trasformare la critica dei monopoli in una critica del sistema qua talis.
I progressisti avevano ricondotto la lotta di classe a una serie di conflitti fra interessi meramente economici di diversi strati sociali. Gli storici radicali invece mostrarono l’influenza delle leggi economiche basilari del capitalismo (e anzitutto quella dell’accumulazione privata capitalistica) nelle motivazioni dello Stato borghese e della borghesia americana, in campi come quelli della politica sociale ed economica, interna ed estera.
Ma c’è di più. Gli storici progressisti pensavano che gli interessi di classe del proletariato fossero semplicemente volti a migliorare le proprie condizioni materiali d’esistenza, all’interno di una società borghese mai messa in discussione. Essi han sempre guardato la classe operaia come un alleato o addirittura come un supporto sociale dei politici liberalriformisti.
Viceversa, gli storici radicali erano convinti che gli interessi del proletariato fossero anticapitalisti e sostanzialmente diversi dagli obiettivi liberalriformisti. H. Gutman, D. Montgomery, M. Dubofsky, J. R. Green, J. Weinstein e altri, in questo senso, criticarono duramente la scuola del Wisconsin che aveva dominato gli studi del movimento operaio americano per buona parte di questo secolo.
I “wisconsinisti” – essi notarono – avevano scorrettamente equiparato la storia del proletariato americano con quella delle trade unions, sebbene quest’ultime non raccogliessero più di 1/5 di tutti i lavoratori americani. Peraltro di queste unions si preferiva prendere in considerazione solo il pensiero e l’azione dell’élite: gli altri membri venivano considerati più o meno consenzienti. Non a caso le contraddizioni fra il proletariato e la borghesia venivano ridotte a semplici conflitti di carattere economico-sindacale, riguardanti il mercato del lavoro.
Gli storici radicali, servendosi di metodi quantitativi moderni e di approcci interdisciplinari, contribuirono enormemente alla comprensione del ruolo della borghesia e dello Stato, della società monopolistica e della politica estera imperialistica. In particolare fornirono validi strumenti per individuare la mentalità del lavoratore americano, la cui vita sociale veniva analizzata sotto gli aspetti religiosi, familiari-parentali, politico ideali, ecc.
Oltre ai nomi citati possiamo ricordare M. Urofsky, R. Radosh, W. F. La Feber, G. Alperovitz, L. C. Gardner, T. Mc Cormic. Ma, nonostante ciò, molte loro opere soffrono di stereotipi ideologici e di eclettismo metodologico.
E’ ben noto, ad esempio, l’approccio idealistico nell’analisi del ruolo della borghesia durante le prime tappe del capitalismo o l’ammirazione per le azioni spontaneistiche del movimento operaio. Alcuni storici radicali hanno sopravvalutato le capacità dei sistema monopolistico statale di preservare se stesso.
Queste due correnti continuano ad esercitare una certa autorità nel panorama degli studi storici americani. Alla presidenza dell’organizzazione degli storici americani si sono succeduti, nel corso degli anni Ottanta, tre radicali: Williams, Genovese e Litwach.