Cultura Mentalità e Metodo storico (I)
L'”histoire des mentalités” è nata presso la “nouvelle science historique” francese. La “mentalità” era un concetto che Lucien Febvre e Marc Bloch avevano preso da Lévy-Bruhl, il quale aveva supposto l’esistenza d’un pensiero “prelogico” particolare negli uomini primitivi.
Tuttavia i due medievisti francesi applicarono il concetto agli umori, ai modi di pensare, alla psicologia collettiva delle popolazioni delle cosiddette “società calde”, che avevano raggiunto lo stadio della civiltà.
Il concetto di “mentalità” suppone infatti la presenza, presso un collettivo avente una medesima cultura, di certi mezzi intellettuali o psicologici coi quali percepire e comprendere tutta la realtà sociale e naturale, e questo in maniera sufficientemente ordinata.
Uno dei compiti principali dell’antropologia storica è quello di individuare, nei processi oggettivi, materiali, di una formazione sociale, quegli aspetti soggettivi che costituiscono il contenuto della coscienza di un collettivo, che porta quest’ultimo ad assumere un certo stile di vita e a fare determinati ragionamenti.
Nell’analisi storica gli aspetti psicologici e culturali rivestono molta più importanza che nel passato, anche perché un affronto meramente sociologico dei fenomeni storici finisce col dare una descrizione sommaria dei macroprocessi, sulla base di modelli euristici molto generali e quindi inevitabilmente astratti.
Il pensiero storico infatti resta spesso prigioniero dei principi espressi dalla storiografia positivista del XIX secolo e degli inizi del XX.
Nella sua Introduzione alla storia scriveva Louis Halphen: “quando i documenti sono muti, la storia tace; quando semplificano le cose, anche la storia le semplifica; quando invece le distorcono, anche la storia lo fa”. Ecco perché Charles Seignobos diceva che lo storico deve accumulare quanti più fatti possibile, metterli a confronto tra loro, come fosse un rigattiere, dopodiché gli sarà relativamente facile scoprire quelle leggi storiche che, pur essendo nascoste, li tengono uniti.
Era il trionfo della “storia quantitativa”. La verità è nascosta nei testi, quindi – diceva Fustel de Coulange – “solo testi, sempre testi, nient’altro che testi”. Empirismo e accumulazione dei fatti: l’ermeneutica, per scoprire il loro senso implicito, veniva dopo.
Tuttavia questa metodologia non arrivò mai a scoprire un senso profondo dei fatti. L’approccio era troppo sociologico-quantitativo per poter arrivare a capire che la concezione della storia di una determinata civiltà costituiva la consapevolezza ch’essa aveva di se stessa.
I positivisti vedevano il passato come passato. Huizinga invece cominciò a chiedersi come costruire un dialogo fecondo tra passato e presente, in modo che il passato abbia da dire qualcosa di utile al presente.
E si tratta spesso, in effetti, di un dialogo tra due culture diverse, se non opposte. Non è possibile comprendere una cultura spogliandosi completamente della propria. Bisogna anzi avere consapevolezza della propria diversità.
M. M. Bachtin diceva chiaramente che nel dialogo con una cultura diversa una determinata cultura comprende meglio se stessa. Le due culture non hanno bisogno di fondersi o di annullarsi reciprocamente: ciascuna può conservare la propria integrità, uscendone dal confronto molto più arricchita. L’importante è riconoscersi nel proprio rispettivo valore. Una posizione, questa, del tutto opposta a quella di Spengler, che rappresentava le culture come monadi chiuse, reciprocamente impenetrabili.
Tuttavia, il dialogo tra passato e presente non si svolge solo nel senso che il presente pone domande al passato. Bachtin si era per così dire limitato a sostenere che il presente può porre al passato delle domande che neppure il passato era stato in grado di porsi, sicché il passato può essere interpretato meglio di quanto esso stesso potesse fare.
In realtà oggi dovremmo dire che il presente non ha alcun diritto di negare al passato la facoltà di porre delle domande al presente stesso, domande proprie, che il nostro presente non ama porsi o addirittura non sa più porsi.
Il dialogo non serve soltanto per capire meglio il passato. Il dialogo dovrebbe servire per comprendere che il passato può contenere aspetti decisivi per vivere meglio il presente, che il presente stesso non è in grado di darsi, perché strutturalmente o comunque tendenzialmente orientato a distruggerli, a censurarli o, se si preferisce, a dimenticarli, a trascurarli.
Se vogliamo, anche il futuro ci interroga, giacché noi, irresponsabilmente, pensiamo di poter lasciare il nostro presente, così com’è, alle generazioni future.
Il passato scuote la testa di fronte al nostro stile di vita: sa di non poterlo cambiare, ma il futuro ci attende al varco, perché non ci permetterà di continuare ad esistere così come siamo.
Ecco perché il dialogo tra culture diverse è sempre molto difficile e complesso, soprattutto se una nega i fondamenti dell’altra, il primo dei quali è il rispetto integrale della natura.
Quando una cultura (p.es. quella anglosassone) distrugge quasi completamente una cultura ad essa precedente (p.es. quella indiana nordamericana), la successiva comprensione della cultura semidistrutta non sarà in grado, inevitabilmente, di cogliere tutti gli aspetti sostanziali che la tenevano in piedi: qualcosa andrà perduto per sempre, qualcosa che avrebbe anche potuto far progredire enormemente la stessa cultura vittoriosa. Si pensi p.es. al terrazzamento agricolo-montano praticato dai Maya, distrutto dagli spagnoli.
Gran parte della conoscenza della natura che avevano le popolazioni americane, prima dell’arrivo degli europei, è andata irrimediabilmente perduta. In tal senso va del tutto esclusa la possibilità che una civiltà antagonistica abbia di conoscere una cultura comunitaria meglio di quanto questa non abbia potuto conoscere se stessa.
La cultura occidentale deve togliersi dalla testa la possibilità di poter interpretare adeguatamente qualunque cultura, solo perché presume di possedere una scienza e una tecnica senza precedenti storici.
La vera scienza e la vera tecnica sono soltanto quelle conformi alle esigenze riproduttive della natura. La cultura occidentale dovrebbe anzi chiedersi se la sua profonda diversità rispetto a tutte le altre culture che l’hanno preceduta non sia il sintomo di una grave malattia mortale.
Tutta la cultura medievale è rimasta estranea agli intellettuali del Rinascimento e dell’Illuminismo, mentre i romantici si sono limitati a riscoprirla in chiave appunto “romantica”, cioè mistico-poetica, estetico-romanzata, senza capire assolutamente nulla del rapporto contadino/feudo, comunità di villaggio/autoconsumo, natura/agricoltura ecc.
Tutta la cultura moderna europea, nei suoi primi secoli, vedeva nella scultura gotica solo delle copie sbiadite della scultura antica; si interpretavano addirittura i calendari scolpiti nelle cattedrali come una rappresentazione delle dodici fatiche di Ercole, mentre i bassorilievi consacrati a Saint Denis apparivano alla stregua di baccanali.
La cultura medievale veniva completamente rifiutata e molti suoi monumenti furono distrutti senza tante remore, esattamente come la stessa cattolicità fece nei confronti dei monumenti pagani.
Sotto questo aspetto ogni ricostruzione totale dell’universo spirituale delle culture che sono andate distrutte incontra difficoltà insormontabili: ogni riedificazione del passato non è che una moderna reinterpretazione.
Noi possiamo soltanto sapere a posteriori quanto sia approssimativa la nostra interpretazione, e lo dimostriamo dalle continue revisioni o almeno rettifiche che operiamo. E avremo continuamente bisogno di rivedere le nostre interpretazioni, almeno finché i fondamenti della nostra cultura non saranno sostanzialmente analoghi a quelli delle culture comunitarie rimosse.
In altre parole, finché non scopriremo il legame che tiene unite tutte le culture espresse dagli uomini e dalle donne di ogni tempo e luogo, le nostre aspirazioni alla verità storica saranno destinate a rimanere frustrate. E certamente non ci sarà “Ministero della verità”, di orwelliana memoria, in grado di soddisfarle.