Una storiografia olistica e planetaria (III)
La mondializzazione della storia
Il concetto di “storia olistica” è diventato tanto più importante quanto più è venuto imponendosi, in questi ultimi anni, quello di “storia mondiale”, a seguito della pressante globalizzazione dei mercati, cui ha fatto seguito, a livello scolastico nazionale, un massiccio flusso migratorio di studenti stranieri, provenienti da ogni parte del pianeta.
Forse alcuni di noi ricordano ancora le polemiche emerse dalla proposta che fece la Commissione De Mauro (2002) di voler introdurre l’insegnamento della storia mondiale, riprendendo i temi dibattuti in occasione del convegno di Oslo 2000 organizzato dal Comitato Internazionale delle Scienze storiche. Oggi, a fronte di una presenza straniera di studenti nella scuola del primo ciclo d’istruzione superiore al 10%, quelle polemiche come minimo apparirebbero pretestuose.
Eppure, nonostante questo, non si può certo dire che la globalizzazione abbia indotto gli storici e i pedagogisti nazionali a perorare con forza la causa di un affronto della storia con criteri sempre più globali, olistici e sostanzialmente per grandi categorie interpretative. Come al tempo della Commissione De Mauro “quasi tutti gli storici che hanno accesso ai mass media si schierarono contro quel curricolo, criticandone soprattutto l’impostazione mondiale, che a loro avviso tradiva la funzione primaria dell’insegnamento della storia, che doveva essere quella di far conoscere l’identità della propria civiltà, della nazione e della comunità civile alle quali si appartiene”, così, al tempo delle “Indicazioni nazionali” della Moratti i medesimi storici non ebbero nulla da dire sul marcato eurocentrismo giudaico-cristiano ch’esse esprimevano”. Così si esprime Luigi Cajani in una lunga intervista apparsa nel sito www.storiairreer.it, dal titolo Dalle storie alla storia e dalla storia alle storielle.
Il fatto di non riuscire a tener conto dei tempi che mutano è sintomatico di due gravi difetti, tipici del nostro paese: uno riguarda la società civile nel suo complesso ed è la miopia politica, che non ci fa vedere quanto tutti noi siamo immersi in processi di mondializzazione che rendono culture e civiltà tra loro alquanto relative; l’altro invece riguarda il mondo degli intellettuali, dei formatori in generale e della scuola in particolare, ed è la pigrizia mentale, che non ci aiuta, p.es., a riscrivere i manuali di storia usando impostazioni di metodo generale non etnocentriche, non caratterizzate da una netta prevalenza di primati nazionali, europei e occidentali in genere.
Se i nostri manuali di storia, in riferimento al tema di una storiografia mondializzata, fossero soltanto “lacunosi”, a motivo di una mancanza di conoscenze approfondite e didatticamente mediate, il gap sarebbe umanamente comprensibile, ancorché sempre meno culturalmente giustificabile. Il fatto è invece che detti manuali spesso associano la lacuna al “pregiudizio”, in quanto non si astengono dal giudicare negativamente quelle realtà il cui sviluppo non proviene direttamente dalla nostra civiltà tecno-scientifica e mercantile.
Non solo, ma i pregiudizi riferiti alle aree geografiche non occidentali o non europee, finiscono con l’estendersi a quelle stesse epoche dell’Europa non espressamente vocate alle attività dello scambio commerciale (il Medioevo, p.es., continua a restare “buio”; termini come “illetterato” e “barbaro” si possono tranquillamente interscambiare; il cacciatore-raccoglitore resta un “primitivo” e il nomade è sicuramente molto più indietro del sedentario).
Sicché persino di tutta la storia europea pre-moderna, gli storici dei manuali scolastici tendono a salvare in toto soltanto il periodo greco e soprattutto romano, in quanto – viene detto – incredibilmente somigliante al nostro, che è quello che va dalla scoperta dell’America ad oggi, cui – se si prende in esame la sola Italia – occorre aggiungere altri 500 anni, in relazione alla nascita dei Comuni borghesi.
È molto difficile pensare, in condizioni del genere, che possa emergere dagli autori dei manuali scolastici una lettura obiettiva, equilibrata, dei processi storici mondiali, i quali, in maniera sintomatica, vengono fatti iniziare soltanto a partire dal momento in cui l’homo sapiens (che “sapiens” era anche prima che noi lo chiamassimo così) ha fatto la sua comparsa sulla terra.
Finché si guarda il passato con gli occhi del presente, o il diverso da noi con quelli dell’imprenditore industriale o del commerciante affarista, sarà impossibile che gli studenti stranieri delle nostre classi possano trovare soddisfazione alle loro identità (prevalentemente di origine rurale) o possano anche soltanto vagamente capire i motivi non contingenti che li hanno indotti a trasferirsi da noi.
La visione della realtà oggi non può privilegiare alcun aspetto particolare: occorre un affronto “globale” delle cose, capace di “integrare” tutti i settori della vita sociale, culturale e politica, da considerarsi in maniera “paritetica”. “Storia globale” non vuol dire “sapere di tutto un po’“, cioè conoscere qualcosa anche di quelle realtà lontane da noi mille miglia, nello spazio e nel tempo. Significa in realtà dover pensare i processi come se appartenessero a uno svolgimento mondiale.
Oggi i processi sono mondiali perché esiste una “globalizzazione” imposta dall’occidente, che ha fatto diventare “capitalistica” la parte più significativa del pianeta. Ma erano mondiali anche al tempo dell’uomo cosiddetto “primitivo”, allorquando nei confronti della natura e dello stesso genere umano si sperimentavano esperienze di vita sostanzialmente analoghe, senza per questo che le varie tribù, etnie, popolazioni fossero tra loro in contatto.
Bisogna dunque stabilire quali sono stati i processi sviluppatisi a livello mondiale in modo spontaneo o indotto dalla forza degli eventi, quali hanno maggiormente contribuito alla mondializzazione della storia umana, alla consapevolezza di appartenere con dignità a un percorso comune, e quali invece hanno ostacolato questa forma di consapevolezza.
Se guardiamo lo schiavismo, non possiamo dire con sicurezza che questo fenomeno sociale, benché presente su latitudini e longitudini molto diverse tra loro, abbia riguardato l’intero pianeta. Probabilmente il servaggio, implicando meno guerre sanguinose tra le popolazioni per ottenere schiavi da sfruttare, ha potuto diffondersi più facilmente nel mondo.
Ma è stato incomparabilmente il lavoro salariato, creato dal capitalismo con l’avallo del cristianesimo, a diffondersi in maniera planetaria, subordinando a sé le altre forme di sfruttamento del lavoro. È impossibile fare “storia globale” senza sapere che la principale civiltà antagonistica della storia del genere umano è anche quella che impedisce alla stragrande maggioranza della popolazione di sentirsi parte attiva di un processo comune.
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