Bisognerebbe cercare di capire il motivo per cui nell’ambito delle civiltà ogni azione compiuta per un fine di bene, che prevalentemente è quello di superare i limiti dell’antagonismo sociale, finisce spesso coll’ottenere l’effetto contrario a quello voluto, creando nuove forme d’antagonismo. Bisognerebbe cioè cercare di capire se nel momento in cui si decide di porre in atto tali azioni non vi sia un elemento imprescindibile di cui bisogna tener conto sul piano metodologico, onde evitare spiacevoli conseguenze.
Infatti, considerando ch’esiste uno sviluppo storico del genere umano e che quindi, inevitabilmente, le varie azioni positive sono sempre caratterizzate da contenuti culturali assai diversi, sarebbe importante poter trovare un qualche elemento connettivo ad esse trasversale, in grado di tenerle unite almeno negli aspetti essenziali. Questo elemento non può essere trovato che sul terreno del metodo.
Si tratta di stabilire, sul piano storiografico, un criterio metodologico sufficientemente scientifico, in grado d’interpretare obiettivamente le azioni positive compiute dagli uomini, individuando, di esse, il fondamentale punto debole, in forza del quale ad un certo punto s’è determinata una tale situazione contraddittoria da rendere inevitabile nuove istanze di mutamento. Si tratta in particolare di capire quanto queste contraddizioni facevano parte del naturale processo evolutivo del genere umano o quanto invece costituivano un freno a tale processo, rendendo necessarie soluzioni inedite se non addirittura rivoluzionarie. In altre parole, gli uomini davvero ebbero bisogno della ribellione prometeica per ottenere il fuoco, o dobbiamo pensare che ci sarebbero arrivati lo stesso?
Sul piano del metodo operativo il punctum dolens è sempre un’eccessiva concessione fatta agli interessi individualistici dell’antagonismo, che ovviamente vengono difesi dai detentori del potere politico o economico o da coloro che vogliono acquisirlo, senza tener conto del bene comune.
Lo studio della storia, in tal senso, non dovrebbe essere basato su fatti già interpretati (come generalmente avviene nei manuali scolastici), cioè sulle decisioni prese dagli uomini e sulle conseguenze ch’esse hanno determinato, ma dovrebbe essere basato sui problemi in gioco, sugli interessi che hanno stimolato, sulle diverse istanze e proposte risolutive. Uno storico, nel momento della disamina dei fatti (o delle fonti che li illustrano), dovrebbe sempre porsi il seguente interrogativo: “prendendo questa decisione in questa maniera sono stati prodotti determinati risultati, ma se la stessa decisione fosse stata presa in altra maniera o se si fosse addirittura presa un’altra decisione, si sarebbero comunque ottenuti gli stessi risultati oppure avremmo avuto risultati opposti o comunque diversi?”.
Lo storico deve abituare il lettore (o, se insegnante, l’allievo) non tanto a sentirsi un intellettuale curioso che legge le vicende storiche come fossero un romanzo, quanto piuttosto a sentirsi un cittadino attivo, che, guardando il passato, si sente in dovere di prendere delle decisioni per il presente. Lo storico deve abituare il lettore ad acquisire un metodo non solo per interpretare il passato, ma anche per intervenire sul presente.
Ecco perché più che di “nozioni” storiche è preferibile parlare di “competenze” storiche. Le competenze sono quel complesso di formule o di regole ermeneutiche che permettono d’interpretare i fatti nella loro complessità, riconducendoli a una fondamentale essenzialità. Non è importante “sapere molto”, è importante sapere bene le cose importanti. Sembra una tautologia, ma decifrare esattamente i termini di questa tautologia richiede una notevole competenza.
Qui infatti non si tratta semplicemente d’individuare i “momenti forti” di un determinato percorso storico (di carattere locale, nazionale o mondiale), quanto piuttosto di stabilire un criterio obiettivo con cui poter interpretare qualunque evento, anche quello meno significativo. E la difficoltà principale sta proprio nel fatto che, avendo lo storico a che fare con gli esseri umani, il criterio non può essere “scientifico” in maniera astratta. La storia non è la matematica, anche perché persino la matematica ha una propria “storia”, i cui processi evolutivi non sono stati affatto così univoci. Nella storia anzi vi sono state molte “matematiche”, dove assai differenti erano i modi per fare operazioni di calcolo.
Dobbiamo, è vero, trovare delle formule rigorose per interpretare la storia, ma nella consapevolezza che l’oggetto da trattare è quanto mai sfuggente e ambiguo. Sarebbe assurdo pensare di poter interpretare i processi storici usando soltanto la categoria della necessità, anche se, non per averlo fatto in maniera preponderante, dobbiamo squalificare in toto sistemi filosofici come l’idealismo hegeliano e il materialismo storico-dialettico.
La storiografia (di destra o di sinistra non fa differenza) tende ad opporsi ai “se” e ai “ma”, preferendo di regola un approccio deterministico, in cui ad ogni azione corrisponde una sorta di reazione uguale e contraria.
Tuttavia tale approccio, se può dare sicurezze sul piano psicologico e intellettuale, non è di alcuna utilità su quello pedagogico e propriamente cognitivo. Chi studia storia deve essere messo in grado di capire come le cose sarebbero potute andare se si fossero rispettati determinati requisiti. Cioè chi studia storia deve poter essere allenato a capire che le cose sarebbero potute andare diversamente se si fosse agito diversamente. Tale allenamento va considerato come una sorta di incentivo pedagogico (e a scuola dovrebbe far parte della didattica di qualunque disciplina) utile per il presente, proprio per non prendere le cose con fatalismo e rassegnazione.
Dunque, oltre la categoria della necessità, bisogna acquisire quella della possibilità, che è poi quella che ci permette di capire quali potevano essere le opzioni da scegliere. La necessità subentra dopo che si son prese delle decisioni, ma il momento della discussione preliminare, della trattativa, del confronto delle idee, della mediazione tra interessi opposti o contrastanti, risulta per certi versi più importante delle decisioni stesse, poiché è lì che si può misurare il tasso di democrazia di una società, di una civiltà: è proprio lì infatti che si vanno a cercare compromessi vantaggiosi per tutte le parti in causa, oppure si cerca di far prevalere con la forza un’opzione sulle altre.
Chiarito questo, si può passare ad affrontare il secondo problema: quello della lettura delle fonti, la cui complessità spesso è davvero disarmante. Gli storici infatti, pur con tutti i loro faticosi lavori di ricerca, non sempre sortiscono gli effetti sperati. Il motivo di questo sta nel fatto che le fonti a nostra disposizione sono in genere piuttosto tendenziose, in quanto elaborate da quei ceti sociali espressione degli interessi prevalenti, delle decisioni dominanti. Tutta la storia scritta rischia di apparire come una gigantesca storia di documenti parziali se non addirittura inaffidabili ai fini della verità storica, proprio perché i ceti dominanti non hanno dato possibilità alle minoranze di esprimersi adeguatamente in piena libertà. La stragrande maggioranza degli abitanti del nostro pianeta, di ieri e di oggi, anche quando mostra d’aver precise istanze da far valere, non è mai stata in grado di produrre alcuna fonte.
Gli stessi storici, influenzati dalla loro cultura o ideologia, anche quando hanno a che fare con una serie di fonti dai contenuti opposti, spesso tendono a privilegiare le une sulle altre. Cioè anche quando hanno la fortuna di sentire due o più campane, preferiscono ascoltarne soltanto una, determinando così una reazione a catena nell’ambito della loro categoria, al punto che i manuali scolastici di storia altro non sono che una riedizione a mo’ di Bignami dei grandi manuali classici in uso nel mondo universitario.
Oggi è pacifico, in ambito storiografico, che col concetto di “fonte storica” non si debba intendere soltanto un trattato ufficiale, un documento governativo, una legge statale, ma anche cose molto più semplici, come p.es. un registro parrocchiale (utilissimo per individuare le strategie matrimoniali), le lettere, i diari personali, persino gli oggetti di uso quotidiano. Per raffigurarsi una “storia globale” tutto diventa “fonte”. Come dice Riccardo Neri, Il mestiere dello storico (Rcs, Milano 2004), “oggetto della ricerca storica è sempre più spesso divenuto il fenomeno e non l’evento, e l’histoire événementielle ha perso rilievo a favore di una visione storica più attenta al quadro d’insieme”.
Questo modo di procedere ha permesso di produrre a scuola un impatto emotivo forte sugli adolescenti. Quando si dice loro: “Non buttate via niente di quello che fate, perché farà piacere ai vostri figli mettere a confronto la loro storia con la vostra, e farà piacere anche a voi stessi, quando da grandi andrete a rivedere com’eravate da adolescenti”, forse per un momento riescono anche a capire che non è il caso di fare le cose solo per prendere un voto o solo perché qualcuno le chiede.
Le cose infatti è importante farle per conservare una memoria di sé, da poter trasmettere ad altri. In fondo è bello abituarsi all’idea che ogni cosa che si fa può rientrare nella categoria storica del fenomeno, che – come dice sempre il Neri – non riguarda il “breve periodo”, come l’evento, ma un periodo così lungo che può coprire decenni, secoli o anche millenni.
Non è forse entusiasmante l’idea di sapere che il fenomeno, all’interno del quale noi siamo protagonisti e che in virtù del quale si fa la “storia”, è un processo molto terreno, molto prosaico, caratterizzato da tradizioni popolari da noi assimilate spesso inconsciamente? La storia non è più, come fino a ieri, soltanto la storia delle classi sociali superiori, ma è la storia del popolo, per la cui conoscenza vanno considerate “fonti” anche la semplice filastrocca, la fiaba, il proverbio, la festa, gli usi e i costumi più antichi, la parlata dialettale…
Se ci abituiamo a considerare la gente comune come soggetto attivo di storia e non come oggetto passivo di storie altrui, ci diventerà facile prestare attenzione alle condizioni di vita delle diverse classi sociali, alle fondamentali differenze di genere, alle cosiddette “civiltà altre”, cioè a tutte quelle civiltà non europee, non occidentali, da sempre condannate al silenzio.
Ma può davvero la scuola insegnare la storia se essa stessa non riesce a tenere un archivio delle proprie realizzazioni? La scuola ha forse una memoria storica del proprio sapere, a disposizione di chiunque voglia consultarla? Perché quando entra in una classe, il docente ha sempre l’impressione di dover iniziare le cose da capo, come se nel suo istituto non ci sia alcun pregresso cui poter attingere? Perché dobbiamo sempre sentirci così soli quando già decine, centinaia di colleghi hanno fatto prima di noi un cammino didattico e culturale?