Excursus politico (II)
2. Oltre la civiltà
Gli uomini devono poter dimostrare di essere se stessi a prescindere dai mezzi che usano. Cioè se i mezzi inducono gli uomini ad avere tra loro rapporti innaturali, in cui l’interesse privato prevale su quello collettivo, allora ci si dovrebbe chiedere se quegli stessi mezzi non siano da modificare o da sostituire con altri più adeguati all’esigenza di identità umana. Nessuno però può pretendere di soddisfare questa esigenza a danno di altri.
La moderna civiltà occidentale ha fatto della rivoluzione tecnico-scientifica la modalità principale dei rapporti interumani e dei rapporti tra uomini e natura. E ha usato questa rivoluzione per affermare su ogni cosa il primato del profitto capitalistico, della rendita finanziaria.
Da un lato quindi si è frapposto il macchinismo tra gli esseri umani e tra questi e la natura; dall’altro si è fatto del capitale l’unica vera ragione di vita. Macchinismo e capitale hanno marciato di pari passo, condizionandosi a vicenda, con la differenza che mentre uno si pone come fine, l’altro si pone come mezzo.
La civiltà basata su questo mezzo e su questo fine, di umano ha ben poco, anche se per potersi imporre in tutta la sua innaturalezza, essa ha avuto bisogno di dimostrare ch’era migliore di quella precedente. In tal senso tutte le civiltà sono frutto di progressivi inganni o di promesse non mantenute.
È come se il genere umano dovesse sperimentare tutte le forme di illusione sulla propria identità, prima di tornare a vivere quell’unica forma di esistenza in cui era se stesso, in un rapporto naturale con l’ambiente.
È sintomatico, in tal senso, che quanto più aumenta la decadenza di una civiltà, tanto più aumentano le “favole” con cui si cerca di tenerla in piedi. Il declino irreversibile, percepito come inevitabile, porta il sistema a dare di se stesso una rappresentazione mitologica, priva di riscontri reali.
La dicotomia tra istituzioni e società è netta e compito delle prime è appunto quello di imporre alle seconde le ideologie più subdole, più raffinate, al fine di celare i contrasti insanabili.
Le civiltà non vogliono morire di morte naturale, proprio perché la loro esistenza è stata, sin dall’inizio, basata sull’inganno e sulla violenza. Le civiltà hanno orrore della verità e sarebbero disposte a qualunque cosa pur di vederla negata. Ecco perché quand’esse sono in decadenza, le “favole” aumentano all’aumentare della consapevolezza della fine. Col concetto di “favola” occorre intendere qualunque cosa che svii l’attenzione delle masse dai veri motivi che stanno portando al crollo finale.
La storia ha conosciuto delle civiltà che si sono rassegnate al loro declino e, quando si sono scontrate con civiltà molto più forti di loro, non hanno opposto una resistenza convinta alle loro proprie contraddizioni. Hanno rinunciato a lottare contro il nemico esterno perché in realtà avevano rinunciato a lottare contro le contraddizioni interne, e la sconfitta è stata considerata come una sorta di “meritato castigo”. Questo atteggiamento è molto evidente p. es. nelle civiltà precolombiane, ma si tratta di poche eccezioni.
Nel mondo egizio le “favole” del potere altro non erano che il misticismo, il culto dell’oltretomba, l’edificazione monumentale dei santuari funebri, la magia, la divinazione, l’astrologia… Tutte cose che il mondo romano ha ereditato, trasformandole in senso materialistico, e aggiungendovi altri aspetti che la cultura egizia non conosceva: il culto del diritto, dello sport, dei festini, la lotta mortale tra i gladiatori, gli svaghi alle terme, sino alle feroci persecuzioni contro i cristiani, durate ben tre secoli.
Le civiltà in decadenza, cieche di fronte ai loro problemi di fondo, hanno bisogno di “favole” e quando queste non bastano, hanno bisogno di vittime sacrificali, una sorta di capro espiatorio che serve a celare il vero volto del potere e soprattutto della sua progressiva decadenza. In questi frangenti di desolazione, occorre pensare che la storia può essere a una svolta significativa e che occorre costruire da subito una transizione verso il diverso.
Ecco perché non c’è nulla che ci possa interessare del passato se non ciò che ci può servire a risolvere i problemi del presente, poiché è comunque nel presente che dobbiamo cercare la soluzione ai nostri problemi: il passato ci può servire come fonte d’ispirazione. Ormai il legame che ci univa alle generazioni passate è stato rotto per sempre dalla civiltà contemporanea, salvo sparute eccezioni che cercano di sopravvivere come possono.
Si potrà dunque parlare di “evoluzione” solo quando usciremo da questa fase involutiva che ci attanaglia da circa seimila anni. Questo significa che dobbiamo metterci a studiare lo stile di vita delle ultime popolazioni primitive rimaste sul nostro pianeta, perché esse sono le sole che ci possono indicare la strada (pacifica) per lo sviluppo futuro dell’umanità. Dobbiamo studiarle non come un reperto archeologico o socioantropologico, ma proprio come uno stile di vita in grado di assicurare una sopravvivenza al genere umano. Questo significa che dobbiamo recuperare le tradizioni tribali delle più antiche popolazioni africane, sudamericane e asiatiche.
Le cosiddette “civiltà” non sono ancora riuscite a dimostrare che il loro stile di vita è compatibile con le esigenze riproduttive della natura e con la necessità di una coesistenza pacifica tra i popoli. Noi dobbiamo tutelare tutto ciò che è anteriore a qualunque forma di civiltà.
È da almeno seimila anni che la storia è diventata un gigantesco mattatoio per la maggior parte della popolazione mondiale. Chi non è vittima, chi ha il privilegio di una morte non violenta, è perché svolge il ruolo del carnefice di turno, ne sia o no consapevole. La storia è storia di queste infinite violenze dell’essere umano su altri esseri umani.
Ecco perché dobbiamo “uscire dalla storia”, dobbiamo recuperare quella parte di storia in cui la violenza non esisteva, e questa parte non può essere che la preistoria, cioè l’infanzia dell’umanità. Si deve lottare per ripristinare le condizioni di vita preistoriche. Sarà un processo lunghissimo, poiché oggi tutto il pianeta soffre della violenza dell’uomo, ma è l’unico modo per poter sopravvivere.
Dovremmo anzitutto chiederci su quali aspetti della storia, che poi sono gli stessi della politica, dovremmo concentrare i nostri studi e le nostre attività, allo scopo di porre le condizioni di una transizione alla “post-storia”.
- I mezzi di produzione che ci assicurano il sostentamento, la riproduzione biologica, non possono essere di proprietà privata, ma devono essere socializzati e sottoposti a controllo pubblico, collettivo.
- La gestione politica del bene comune deve sottostare alle regole della democrazia diretta, quella per cui il popolo si autogoverna. Qualunque forma di rappresentanza delegata deve basarsi sul principio della revocabilità immediata in caso di inadempienza.
- Nel rapporto con l’ambiente deve valere il principio secondo cui l’uomo è parte della natura, sicché non saranno ammesse forme di sviluppo tecnico-scientifico incompatibili con le esigenze riproduttive della natura. Una generazione non può far pagare a quella successiva i costi del proprio benessere.
- L’uguaglianza dei diritti va abolita, perché chi ha più bisogno deve avere più diritti.
- I mezzi di comunicazione devono appartenere al popolo, cioè a chi ha qualcosa da comunicare e non tanto a chi ha i mezzi per farlo.
- La conoscenza deve servire, da subito, ad assicurare le condizioni di vita abituali ed eventualmente a migliorarle, nel rispetto degli standard consolidati e comunque a condizione che tutti possano equamente beneficiarne.
- Va abolito qualunque confine di tipo territoriale.
- Vanno valorizzate le abilità e le specificità locali.