Excursus politico (I)
Queste due brevi riflessioni: “A cosa serve la storia?” e “Oltre la civiltà” hanno lo scopo di mettere in discussione uno dei pilastri fondamentali dell’istituzione scolastica in generale, quello secondo cui un docente, in classe, non può fare politica. In tal senso la loro lettura, ai fini della comprensione di una metodologia della ricerca storica, in riferimento a una ridefinizione del concetto di “competenze storiche” in ambito scolastico, resta del tutto facoltativa.
Si badi però: qui non si vuole affatto desacralizzare il principio secondo cui un docente non può in alcun modo utilizzare la propria classe per fare propaganda di questo o quel partito, e nemmeno di questa o quella corrente di pensiero o ideologia politica, benché l’insegnante sia tenuto a rispettare scrupolosamente il dettato costituzionale, facendo quindi, in qualche modo, “politica”.
Tuttavia, poiché noi non siamo degli automi privi di anima e poiché ci viene chiesto d’essere fautori della democrazia e del pluralismo, si vuole qui tentare di delineare un modello di impegno politico in ambito scolastico, che sia coerente col modello culturale proposto nello studio della storia come disciplina.
Nella nostra esposizione abbiamo più volte detto che ha ben poco senso parlare del passato senza alcun riferimento al presente. Ebbene, in che modo un insegnante di storia può parlare del proprio presente, lasciando i propri allievi liberi di credere nelle sue parole? In che modo un docente può fare politica in classe senza rischiare d’essere accusato di plagiare le menti?
La Raccomandazione n. 1283, del 1996, dell’assemblea parlamentare europea, relativa all’apprendimento della storia nel nostro continente, afferma testualmente: “La storia ha anche un ruolo politico nell’Europa odierna. Senza di essa l’individuo è più vulnerabile, soggetto alla manipolazione politica o altro. Quasi tutti i sistemi politici hanno utilizzato la storia per servire i propri interessi e hanno imposto la loro versione dei fatti storici, come anche la definizione di buoni e cattivi nella storia. È importante che la storia proceda di pari passo col presente”.
1. A cosa serve la storia?
La storia non serve a niente se non ci indica un sistema di vita per il presente. È pura erudizione e, come tale, va bene per i cattedratici, non per la gente comune, che ha bisogno di proposte concrete, che non sono un di meno rispetto alle speculazioni teoriche, ma semmai un di più, proprio perché hanno l’onere della verifica pratica, e non restano astratte dall’inizio alla fine, come appunto le teorie.
Si badi tuttavia: la concretezza di per sé non rende più importante la storia contemporanea rispetto a tutte le altre storie. Non è detto infatti che nella storia contemporanea si abbiano più probabilità di trovare un sistema di vita a misura d’uomo e conforme a leggi di natura.
Anzi guardando le cose dappresso, parrebbe proprio il contrario, e cioè che il mondo contemporaneo, dominato dal capitalismo americano, nipponico ed euroccidentale (cui oggi si sta aggiungendo quello cinese, indiano e del sud-est asiatico), sia lontanissimo dall’aiutarci a trovare un’adeguata soluzione ai nostri problemi di sopravvivenza.
Sotto questo aspetto tutta la storia può essere utile, anche quella degli uomini primitivi, anzi questa forse più di ogni altra. Noi non possiamo recuperare nulla di tutto quanto s’è formato e sviluppato prima della nascita delle cosiddette “civiltà”, utilizzando gli stessi strumenti che l’odierna civiltà ci offre. Per poterlo fare noi dobbiamo uscire non solo dal “concetto” di civiltà, ma anche dalla sua stessa modalità di vita, dalla sua “prassi”.
Uscire dalla “prassi” della civiltà implica già un rifiuto della separazione consolidata tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Non si può uscire dalla civiltà in maniera “intellettuale”, limitandosi a criticarla. Se ne può uscire solo ponendo delle alternative concrete, praticabili, al suo modo di essere. Queste alternative devono essere razionali, conformi a leggi di natura, universalmente valide, cioè alla portata di tutti.
La prima regola fondamentale per uscire dalla civiltà è quella di ridurre al minimo la dipendenza da fattori artificiali che condizionano la nostra riproducibilità. L’uomo e la donna sono esseri di natura: la loro esistenza dovrebbe essere unicamente legata ai processi di sviluppo della natura. Se la natura viene ostacolata nei suoi processi riproduttivi da quanto di artificiale gli uomini pongono fra loro e la stessa natura, non si supererà mai il concetto e la prassi di civiltà.
Lo sviluppo della tecnologia, in tal senso, deve essere compatibile coi processi riproduttivi della natura. Purtroppo oggi l’influenza del concetto di civiltà sull’intero pianeta è così grande che pare impossibile ritagliarsi uno spazio in cui poter sperimentare in maniera autonoma un’alternativa sociale e naturale.
Tutte le civiltà della storia hanno posto le proprie fondamenta su aspetti antisociali e innaturali, la cui essenza artificiale risulta assolutamente preponderante nel sistema di vita, nelle relazioni sociali e nei rapporti tra uomo e natura. Non dobbiamo infatti pensare che il concetto di “macchinismo” sia applicabile solo alla rivoluzione industriale del sistema capitalistico. “Macchinismo” in senso traslato o figurato è un concetto che si applica là dove esiste un rapporto di sfruttamento unilaterale dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura.
Persino là dove s’impone il semplice concetto di “forza fisica” (come p.es. nei rapporti tra uomo e donna), lì si può costatare la presenza di qualcosa di artificiale, di non naturale.
È vero, le prime civiltà non hanno conosciuto l’industrializzazione, come la conosciamo oggi, però hanno sperimentato molte rivoluzioni nell’uso dei metalli e nell’uso della pietra per costruzioni imponenti, attraverso le quali far valere un rapporto di subordinazione tra gli uomini e tra questi e la natura.
Gli effetti devastanti di queste civiltà sono visibili nelle progressive desertificazioni del pianeta. Quanto più si sviluppano le civiltà, tanto più viene devastata la natura e quindi tanto più le stesse civiltà si autodistruggono, poiché il rapporto con la natura è imprescindibile all’essere umano.
Come difendersi dalle civiltà che, vivendo rapporti antagonistici al proprio interno, inevitabilmente sono costrette a scaricare il peso delle loro contraddizioni all’esterno, saccheggiando risorse umane e naturali ovunque esse siano? Qui è evidente che non basta pensare di potersi ritagliare uno spazio vitale in cui esercitare le proprie esperienze alternative. Occorre anche elaborare dei meccanismi concreti di autodifesa, che impediscano alle civiltà di prevaricare impunemente.
Il vero peccato originale dell’umanità è stata la pretesa di poter decidere il proprio destino indipendentemente dalle esigenze e dalle leggi della natura. Forse è per questo motivo che tutti i tentativi a favore dei principi di umanità, che nella storia sono stati compiuti, una volta affermati sono stati negati subito dopo. È come se la storia si fosse incaricata di dimostrare che dopo la fine del comunismo primitivo non è più possibile un’altra esperienza di libertà.
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