Carlo De Pirro torna alla Biennale Musica: due i concerti

Ci sono persone che senti amiche, per davvero, anche se non le vedi a cena, non ci vai in vacanza insieme. Addirittura non le frequenti proprio. Ma le senti molto vicine per intenti, per spirito di battaglia, per amore innato verso la musica, per un comune destino, voluto, da cane sciolto. Carlo De Pirro per me era così. Bastava intravvedersi ad un concerto, un cenno, un sorriso ed era come se ci fossimo detti tutto. E non perché eravamo tutte e due lì come giornalisti. Colleghi ma per due testate concorrenti, io rockettara, lui “colto”, io per tentare di gustare brani scritti troppi secoli fa, lui come critico. Ma Carlo era mooolto più avanti di me perché era anche, soprattutto, un musicista e un compositore. Il suo indomabile cuore, forte come una roccia, s’è arreso a 51 anni nella lotta con una malattia sleale il 27 maggio. Una malattia combattuta con sfrontata compostezza, quasi con distacco. Nato ad Adria nel 1956, padre toscano e madre emiliana, durante l’infanzia era vissuto tra Napoli e la Liguria, per poi stabilirsi da ragazzino a Padova, sua città d’adozione. Qui, al conservatorio “Pollini”, studiò con Wolfango Dalla Vecchia, diplomandosi in Composizione e perfezionandosi poi con Franco Donatoni e Salvatore Sciarrino. A sua volta dedicò molti anni all’insegnamento come docente di Armonia e Contrappunto al conservatorio “Venezze” di Rovigo e al giornalismo come critico musicale. Innumerevoli le sue conferenze: Biennale veneziana, Accademia Sibelius a Helsinki, Accademia Olimpica a Vicenza, Università di Padova, Torino, Venezia e molte altre istituzioni culturali e concertistiche. Da ricordare in particolare i suoi lavori su musica e computer: importante la collaborazione con Alvise Vidolin e il Centro di Sonologia Computazionale dell’Università padovana. Nel 2003 fu tra i fondatori del “Comitato per l’auditorium” di Padova e come suo rappresentante fece parte della commissione giudicatrice dei progetti ammessi al concorso indetto dal Comune. Già ferocemente provato dalla malattia aveva ripreso le idee del “comitato” per organizzare la scorsa primavera una manifestazione di protesta contro le polemiche che stanno tuttora paurosamente ritardando la realizzazione del progetto vincitore e contro l’indifferenza dei musicisti padovani. Le sue composizioni sono state commissionate dalla Biennale di Musica di Venezia ed eseguite in Italia e all’estero (tra tutte ci piace ricordare “Auretta assai gentil” per violino e pianoforte alla Carnegie Hall di New York nel 2003), trasmesse da Radio3 e Radio France, incise dalla Edipan di Roma e dalla Fonit Cetra e pubblicate da Ricordi. Tra i suoi lavori vogliamo segnalare per la Biennale Musica “Nove finali” nel ’95, “L’angelo e l’aura” con libretto del fido Andrea Vivarelli al Malibran e “Messaggeri e messaggini” all’Arsenale nel 2005. E ancora “Caos dolce caos” (debutto per Operagiovani al Teatro Sociale di Rovigo) nel 2001 e le “Sette stazioni di luce” per flauto del 2003. Singolarissima e anticonformista la collaborazione con i Solisti Veneti di Padova: Carlo, da sempre pronto ad abbattere i confini tra classica e contemporanea, ha composto per Claudio Scimone e la sua orchestra il concerto cangiante “Di luce e di vento” nel 2004, “Come sono suono” per cornista a rotelle e tromba di scorta nel 2006 e “La notte, la danza, il dono” nel 2007, suonata per il tradizionale concerto di Natale ai Servi. Per la “Giornata dell’ascolto” dello scorso anno presentò nel Salone del Palazzo della Ragione “Il tempo sospeso” per disklavier e nastro magnetico. Alla sua passione per il pianoforte comandato dal computer, protagonista anche di un concerto eseguito al Piccolo Teatro padovano sempre nel 2007, affiancava quella per le più curiose macchine sonore (memorabile il flipper “Anche tu musicista con 500 lire”) e i carillon: indimenticabile quello creato con lamine di metallo, seghe circolari e vetri di Murano per l’installazione sonora all’Expo 2002 in Svizzera, che ha poi trovato casa nel parco di Pinocchio a Collodi. Perché per Carlo la musica contemporanea voleva dire anche divertimento, gioco, sberleffo, poesia. Non per pochissimi, selezionati intenditori, ma per tutti. Mi diceva: “Trovo perverso distinguere tra classica e contemporanea, colta e pop, così come parlare ad una nicchia di esperti. Preferisco il metodo Mozart: “Questi concerti sono molto brillanti, gradevoli all’orecchio e naturali senza cadere nella vacuità. In alcuni punti solo gli intenditori possono cavarne diletto, ma faccio in modo che anche i non intenditori restino contenti, pur senza saperne il perché”.

Carlo torna anche quest’anno alla Biennale Musica di Venezia, intitolata “Radici futuro”. A ricordarlo saranno le sue composizioni, eseguite in due concerti. Un doveroso, affettuoso omaggio che curiosamente non ha ancora coinvolto le stagioni concertistiche di Padova, sua città d’adozione. Nei programmi dell’Orchestra di Padova e del Veneto, degli Amici della Musica e dei Solisti Veneti infatti De Pirro, che scrisse tre partiture proprio per Claudio Scimone, non compare. La Biennale veneziana vanta anche il merito di far ascoltare al pubblico “Descendit”, una composizione richiesta a Carlo dalla società musicale “Francesco Venezze” di Rovigo alla fine del 2007 per un concerto al tempio della Rotonda ma mai eseguito dal Quartetto della Scala, che non trovò neppure il tempo di provare il breve pezzo di contemporanea (10 minuti!) e si limitò ai collaudati Schubert e Beethoven. Il frutto di quattro mesi di scrittura, affrontati con passione nonostante l’aggravarsi della malattia e la mancanza di compenso, sarà finalmente eseguito domenica 5 ottobre alle 17 nella sale Apollinee della Fenice dal Quartetto d’archi del teatro veneziano, a fianco di composizioni di Beethoven e Nono. Venerdì 17 ottobre, sempre alle 17 ma nella sala concerti del conservatorio “Benedetto Marcello”, Carlo de Pirro aprirà il diciassettesimo colloquio di informatica musicale con ”Tempo sospeso”, per disklavier e nastro magnetico, composto in occasione della “Giornata dell’ascolto” di Padova del 2007 per andare in scena nel Salone del Palazzo della Ragione dalle 10 del mattino alle 11 di sera. Come critico De Pirro seguì numerose edizioni del Festival veneziano e fu invitato per la prima volta come compositore nel 1995 con un pezzo intitolato “Nove finali” per pianoforte, violino e violoncello, due clarinetti, suoni campionati e live electronics. Dieci anni dopo la Biennale Musica, per la sua vena creativa “assolutamente originale, la capacità davvero rara di raccontare storie, sogni, fantasie nel teatro musicale”, gli commissionò “Messaggeri e messaggini”. Sul palco le sue incredibili invenzioni sceniche e sonore: stelle di luce, campane tubolari, macchine orgogliose e giostre sonore. Scriveva: “Ogni rumore, se ascoltato a lungo, diventa una voce come diceva Victor Hugo in “La fin de Satan”. E non si spiegherebbe perché l’Harley Davidson abbia brevettato il rumore del suo motore se non per l’esclusivo tuffo al cuore che provoca nei suoi consumatori!”.

La musica del primo Novecento va in mostra a Venezia, dal vivo e su cd

Non di solo rock vive l’uomo…e la donna too. Eccomi dunque a segnalare una curiosa proposta di musica classica dal vivo agganciata ad una mostra in quel di Venezia. Ha infatti una colonna sonora speciale, che ci riporta ai primi del Novecento, l’antologica dedicata all’artista, illustratore di moda e scenografo George Barbier e alla nascita del déco allestita fino al 5 gennaio a Venezia, nel museo Fortuny. Composizioni di Debussy, Stravinskij, Satie, Faurè, Ravel e Milhaud, suonate dai giovani e intraprendenti Alessia Toffanin al piano e Alessandro Fagiuoli al violino, sono state infatti registrate dal fonico Matteo Costa tra gli affreschi di una chiesa sconsacrata alle porte di Padova per un cd prodotto dalla Blue Serge di Sergio Cossu (www.blueserge.it), in uscita prima di Natale.  Fagiuoli e il quartetto Paul Klee, di cui fa parte, hanno scelto su invito della curatrice della mostra veneziana, Barbara Martorelli, e della direttrice del museo, Daniela Ferretti, un repertorio di musiche dal vivo dal titolo “Colore in musica. Suggestioni di ascolto dalla Parigi di George Barbier” , proposto in quattro concerti al Fortuny (alle 19, una volta chiusa la mostra). «Non abbiamo voluto “sviscerare” musicalmente il ristretto periodo del déco ma piuttosto tradurre in musica le emozioni provate nel vedere le opere di Barbier – spiega il violinista – spaziamo così un po’ nel tempo proponendo da una parte maestri storici del gusto e e della tecnica compositiva francese come Debussy e Ravel e dall’altra autori più vicini a noi. Esemplare dunque il primo concerto al Fortuny il 6 settembre, con il grande pianista francese Jean-Pierre Armangaud e il mezzosoprano Sophie Fournier, che hanno eseguito un repertorio estremamente vario e “sentitamente” francese”».

Sulla stessa lunghezza d’onda il secondo appuntamento con la musica dal vivo: il 25 ottobre sarà il quartetto Paul Klee (ai violini lo stesso Fagiuoli e Stefano Antonello, alla viola Andrea Amendola e al violoncello Luca Paccagnella) a suonare il Quartetto di Debussy e il Quartetto di Ravel. Il 22 novembre il quartetto di flauti Berthomieu  proporrà invece autori francesi minori, puntando soprattutto sul “colore”. L’ultimo concerto, il 3 gennaio, saluterà il 2009 e il centenario dei mitici “Ballets russes” di Sergej Diaghilev, che danzarono sui capolavori composti da Stravinskij: Alessandro Fagiuoli al violino e Alessia Toffanin al pianoforte proporranno un omaggio ai balletti russi con un programma legato allo Stravinskij degli anni Venti e ad alcuni autori “minori” che scrissero anch’essi per la compagnia di Diaghilev: oltre a suonare il celebre “Prelude a l’apres midi d’un faune” di Debussy, coreografato da Nijinsky nel 1912. Un omaggio alla danza che vuole ricordare anche i fantasiosi disegni dei costumi realizzati dallo stesso Barbier per la danza, il teatro e il cinema: più di settanta quelli esposti a Venezia.

Assiomi da superare nell’interpretazione dei fatti storici

In qualunque testo scolastico di storia, di qualunque tendenza esso sia, vi sono sempre alcuni presupposti metodologici ritenuti irrinunciabili, che indicano in un certo senso il carattere apologetico dell’informazione trasmessa nella scuola di stato attraverso una delle sue discipline più significative, appunto la storia.

Tali presupposti provengono direttamente dal senso di appartenenza geo-politica all’Europa occidentale da parte degli autori dei libri di testo, i quali, generalmente, danno per scontata l’idea secondo cui la civiltà di questa parte del continente europeo sia la migliore del mondo, superiore anche a quella degli Stati Uniti, la cui grandezza viene misurata più in termini quantitativi, relativamente al progresso tecnico-scientifico, militare e nell’organizzazione dell’attività commerciale e industriale, che non in termini qualitativi (le tradizioni culturali, religiose e politiche), in cui l’Europa occidentale eccelle da almeno duemila anni.

Sulla base di questi presupposti si fonda l’idea di “scienza” o di “oggettività”. Come se nell’arco della propria vita uno storico non ne vedesse così tante da dover escludere a priori l’esistenza di qualcosa di incontrovertibile o di inconfutabile! Come se uno storico non sapesse quanto le interpretazioni siano condizionate dalla politica, dalle ideologie dominanti (esplicite o implicite), dalle forme di civilizzazione e, sul piano soggettivo, anche dalle proprie storie personali!

E se questo vale, in maniera evidente, per le scienze umane, non vale forse anche per quelle “esatte”? Su asserzioni cosiddette “scientifiche”, del tipo: “la matematica non è un’opinione”, ci sarebbe da discutere all’infinito, essendo ben noto che enunciati assolutamente inconfutabili sono poverissimi di contenuto dialettico o anche semplicemente informativo, e che la nostra “matematica” non è l’unica possibile (i cinesi p.es. usavano la numerazione binaria quando da noi non si sapeva neppure cosa fosse, e i Maya conoscevano la numerazione a base 20 che permetteva loro di fare calcoli molto più complessi di quelli che facevamo noi nel loro stesso periodo).

Gli autori dei manuali scolastici di storia possono essere di ideologia liberal-borghese (crociana-gentiliana), di ideologia socialista (generalmente gramsciana) o, in casi più rari, di ideologia cattolica, ma queste differenze non incidono minimamente sulle scelte di fondo (ontologiche) operate in materia di impianto metodologico generale.

Una constatazione del genere può forse apparire presuntuosa nella sua astratta generalizzazione, eppure essa emerge con sempre maggior insistenza proprio dallo sviluppo di un fenomeno ritenuto ormai incontrovertibile: il globalismo, in nome del quale è diventato legittimo chiedersi se possa essere considerata congrua (sul piano didattico-culturale) una visione unilaterale, in quanto geopoliticamente determinata, dei fenomeni storici.

I fatti dimostrano che le ideologie sottese (in maniera più o meno esplicita) all’elaborazione dei manuali scolastici di storia possono prescindere da molte cose, possono anche essere in competizione tra loro, ma su un aspetto di vitale importanza esiste sempre un’ampia convergenza di vedute, al punto che il senso di appartenenza geopolitica all’Europa occidentale, in particolare alle culture liberal-borghesi (ivi incluse quelle cattoliche e, in misura minore in Italia, quelle protestanti) e, all’opposto, alle culture socialiste-riformiste (che proprio nei testi di storia risultano prevalenti), appare come una sorta di dogma in cui credere per fede.

Si può rilevare questo anche dal fatto che in genere nessuno storico avverte mai l’esigenza di precisare che la sua interpretazione parte da tale assioma, o comunque di chiarire preventivamente i limiti epistemologici entro cui si muove la propria interpretazione dei fenomeni storici del passato e del presente.

Qui in sostanza si vuole sostenere la tesi che, per garantire un minimo di obiettività nei giudizi storiografici, la scelta di un’ideologia in luogo di un’altra, oggi, a differenza, diciamo, di una trentina d’anni fa, risulta del tutto irrilevante, in quanto agli autori dei manuali di storia pare sufficiente far dipendere la verità dei propri enunciati da una preliminare scelta di campo “geografica”, quella dell’Europa occidentale (di cui gli Usa sono soltanto una propaggine), da cui tutto il resto proviene in maniera logica, come una sorta di sillogismo aristotelico.

Si è ormai arrivati a un punto tale di superficialità nell’organizzazione dei contenuti, che ciò che va rimesso in discussione è proprio il rapporto tra ideologia in senso lato e occidente in senso proprio, che va oltre le differenze interne alle medesime ideologie. Questo per dire che anche l’ideologia marxista, o meglio gramsciana, che pur ha dimostrato d’essere teoricamente superiore a quella borghese, nonostante i fallimenti pratici del “socialismo reale”, ha dei difetti intrinseci dovuti proprio al fatto che gli storici di questa corrente considerano assodata la loro appartenenza ideale, specie dopo il crollo del muro di Berlino, all’area occidentale dell’Europa e, indirettamente, degli Stati Uniti, caratterizzati entrambi, soprattutto quest’ultimi, che meno hanno dovuto lottare contro le resistenze del mondo cattolico, da uno sviluppo progressivo dell’ideologia borghese-calvinista, nata nell’Europa del XVI secolo, quell’ideologia che ha portato nel Novecento alle due guerre mondiali e che ha trovato un freno significativo nell’istituzione post-bellica del “Welfare State”.

I limiti metodologici fondamentali che rendono tutti uguali e quindi poco utili, ai fini dell’obiettività del giudizio, i manuali scolastici di storia, sono sostanzialmente frutto di un postulato che andrebbe quanto meno rimesso in discussione, quello per cui si crede che esista una linea evolutiva che va dalla preistoria alla storia, una linea che si estrinseca materialmente secondo un percorso cronologico dei fatti, che trova nell’occidente capitalistico il suo point d’honneur.

Tale linea evolutiva, progressiva, si basa su alcuni fattori fondamentali di “sviluppo”:

1. sviluppo tecnologico e scientifico: la miglior scienza e tecnica – questa la tesi che si sostiene – è quella che permette un rapporto di dominio sulla natura (non è l’uomo che appartiene alla natura ma il contrario);

2. sviluppo dell’urbanizzazione e dei mercati: ogni forma di comunità basata sull’autoconsumo, sul valore d’uso, sul baratto, sulla vendita del surplus, in una parola su un ruralismo non-borghese, viene considerata sottosviluppata; il che porta a giustificare, da parte degli storici, il colonialismo e l’imperialismo, che possono andare dalle classiche crociate medievali alle forme di “aiuto economico” al Terzo Mondo per farlo diventare “come noi”, o comunque a considerare come inevitabili le guerre di conquista o la necessità che i mercati mondiali vengano dominati dall’Occidente;

3. sviluppo della produzione industriale: non solo l’artigianato viene considerato sempre inferiore all’industria (specie quella di massa), ma si tende anche a privilegiare la separazione tra agricoltura e artigianato, considerando prioritaria, specie nel basso Medioevo, la specializzazione dei mezzi tecnici e delle mansioni lavorative;

4. sviluppo della produzione culturale: i valori più significativi di una civiltà vengono ritenuti quelli basati soprattutto sul commercio, sulla scrittura, sul militarismo e in generale sulla supremazia del maschio, quindi tutti valori appartenenti a una determinata categoria di ceti, classi o individui, salvo fare concessioni di circostanza all’ambientalismo e al femminismo.

Posto questo, le differenze, se e quando esistono, tra uno schieramento ideologico e l’altro, risultano del tutto secondarie o formali, come p.es. si evidenzia tra le seguenti:

– nello sviluppo della produzione culturale, gli autori cattolici o protestanti mettono in rilievo l’evoluzione positiva dalle religioni primitive (animismo-totemismo) alle religioni monoteiste, senza però specificare che proprio quest’ultime sono state più facilmente strumentalizzate dalle esigenze di dominio mondiale;
– nello sviluppo della produzione industriale, gli autori di sinistra mettono in risalto le lotte operaie-contadine e, i più radicali (sempre meno in verità) l’esigenza di una socializzazione dei mezzi produttivi; e così via.

Qui si vuole ribadire, se ce ne fosse ancora bisogno, che all’origine di questo incredibile appiattimento culturale sta proprio il primato concesso acriticamente al valore di scambio su quello d’uso, e non solo il primato concesso alla proprietà sul lavoro. Il socialismo non è più un’alternativa al liberismo non tanto perché ha smesso di contrapporre lavoro a proprietà, quanto perché ha sempre visto il lavoro all’interno del valore di scambio.

Sulla base di questi assiomi si è elaborato il concetto di civiltà, e ovviamente nessuno mette in discussione che quella più avanzata della storia sia quella occidentale (europea e statunitense); il Giappone non avrebbe fatto altro che copiare la civiltà americana, trapiantandola su un tessuto culturale semi-feudale, come d’altra parte la Cina sta impiantando il capitalismo in un paese agricolo dominato politicamente da un socialismo autoritario. Gli stessi paesi a cultura islamica non sono che paesi feudali nella sovrastruttura e capitalisti o soggetti a neocolonialismo capitalista nella sfera strutturale della produzione. I paesi ex-comunisti (specie quelli est-europei) non sarebbero che paesi neo-democratici, in quanto sul piano economico si sono finalmente aperti al mercato capitalistico. E così via.

Questa impostazione di metodo è così evidente che viene spontaneo darla per scontata in tutti i manuali di storia, anche se ovviamente solo pochi sono stati adottati o esaminati: ovunque infatti si tende a mettere in risalto quelle civiltà che con più decisione sono uscite dalla preistoria, quindi quelle che hanno sviluppato meglio l’organizzazione schiavistica e servile, e che in definitiva assomigliano di più a quella capitalistica.

Ancora oggi nei manuali scolastici di storia si pone una netta differenza tra “storia” e “preistoria”, senza mai precisare che i fenomeni che hanno determinato quella differenza: scrittura, urbanizzazione, metallurgia, commercializzazione degli scambi ecc., sono tutti strettamente correlati alla nascita dello schiavismo. Il che significa che non ha storicamente alcun senso apprezzarli positivamente separando concettualmente l’analisi di quelle forme sociali e tecnologiche dallo scopo per cui erano nate e che ne legittimava l’ulteriore sviluppo.

Ma c’è di peggio. Tutti i manuali tendono a privilegiare le civiltà commerciali basate sullo schiavismo rispetto a quelle agricole basate sul servaggio, allo scopo di sostenere la validità di alcuni fondamentali postulati, che indirettamente risultano funzionali alla legittimazione della modernità borghese, quali ad es. quelli relativi alla superiorità della città sulla campagna, del mercato sull’autoconsumo, del borghese sul contadino e sull’operaio (cioè del proprietario sul nullatenente), del lavoro intellettuale su quello manuale (cioè della scrittura sulla trasmissione orale del sapere), dell’artigiano specializzato sul contadino-artigiano, dell’agricoltore sull’allevatore, del sedentario sul nomade, del bellicoso sul pacifico, dell’occidentale cristiano (una volta si sarebbe aggiunto di “razza bianca”) su tutti gli altri credenti, e in generale dell’uomo sulla donna e della storia sulla natura.

Facciamo ancora un esempio. Quando si parla di migrazioni dei popoli indoeuropei (specie quella dei Dori) gli storici non sostengono mai ch’esse posero un freno allo sviluppo indiscriminato dello schiavismo o che riorganizzarono questo sistema su basi più primitive, ma non per questo più antidemocratiche.

Spesso gli storici sono soliti definire questi periodi come “oscuri” o “bui” semplicemente perché giudicano l’organizzazione socioculturale e politica sulla base dei parametri della civiltà precedente, che, se era “commerciale” e “stanziale”, sicuramente era superiore. Cioè non si prende mai l’organizzazione comunitaria primitiva come un modello di rapporto equilibrato tra esseri umani e tra questi e la natura.

A tutto ciò gli autori di sinistra aggiungono che va considerato necessario non solo il passaggio dalla preistoria alla storia (al fine di superare i limiti delle comunità basate sull’autoconsumo), ma anche il passaggio dal capitalismo al socialismo democratico, sebbene questa tesi oggi, dopo il crollo del “socialismo amministrato”, sia o stia diventando piuttosto rara, in quanto si tende a sostituirla con la cosiddetta ideologia dell’economia mista o “terza via”, in cui vige una sorta di influenza reciproca tra sfera pubblica e privata; e qui, mentre sul versante degli autori di sinistra si vorrebbe una sfera pubblica (statale) più importante di quella privata (il che contrasta con le tendenze di fatto dell’economia borghese), su quello degli autori borghesi si vuole invece un pubblico che faccia da mero supporto al privato.

Ciò che nessuno autore riesce a comprendere (ma in questa incomprensione possono celarsi motivazioni extra-culturali, come p.es. l’esigenza di dover collocare il libro di testo in un determinato mercato editoriale) è che nel rapporto tra comunità primitiva e civiltà storica, quella che più si avvicina al senso di umanità dell’essere umano non è la seconda ma la prima, e che quindi quanto più le civiltà tendono a svilupparsi, tanto più si allontanano dalla dimensione dell’umanizzazione, per quanto la resistenza ai conflitti di classe non lasci impregiudicata la possibilità di un ritorno alle origini.

Nessun autore sostiene che per ripristinare il concetto di umanità sia necessario “uscire” dal concetto di civiltà, così come esso s’è venuto configurando già nel passaggio dal comunismo primitivo alle prime formazioni schiavistiche, e come poi è andato sviluppandosi fino alle civiltà più recenti, che in un certo senso sono una variante dello schiavismo: il capitalismo è uno schiavismo, sotto la parvenza della democrazia, gestito dall’economia privata, quindi con esigenze di sfruttamento coloniale di paesi terzi; il socialismo amministrato è uno schiavismo gestito in maniera palesemente autoritaria dalla politica, quindi con esigenze di sottomissione a un’ideologia di stato.

Ovviamente con questo non si vuole sostenere che una rappresentazione tematica e non cronologica della storia potrebbe meglio garantire l’obiettività dell’interpretazione. È fuor di dubbio che una rappresentazione tematica aiuterebbe a focalizzare meglio le caratteristiche salienti di una civiltà, ovvero di una formazione sociale, perché in fondo è di questo che si tratta, e in tal senso il contributo del socialismo scientifico non va sottovalutato, in quanto è l’unica metodologia che ci permette di chiarire, sul piano economico-sociale, le differenze di sostanza tra una civiltà e l’altra.

Tuttavia lo storico non può basarsi unicamente sugli aspetti socio-economici: ha bisogno di trattare con pari dignità anche quelli culturali e politici. Ecco perché in una visione tematica o, se si preferisce, olistica, integrata, strutturata, organicista, della storia, ogni aspetto dovrebbe essere preso in esame e messo in rapporto trasversale rispetto a tutte le principali formazioni sociali della storia.

Solo che per arrivare a un’interpretazione sufficientemente obiettiva (e diciamo “sufficientemente” con la consapevolezza che la storia di cui trattiamo è quasi sempre la storia dei “vincitori” o quella di chi era padrone di quei mezzi che gli hanno permesso di trasmettere ai posteri una determinata rappresentazione di sé), occorre qualcosa che alla storiografia occidentale manca del tutto: il confronto con le istanze di identità umana.

Oggi non sappiamo neppure decifrare l’umano. Dopo seimila anni di storia delle civiltà abbiamo creato un essere umano quasi totalmente incivile, una sorta di barbaro che di civile ha solo le apparenze.

Possiamo pertanto lavorare solo sui “fantasmi”, cioè su quanto le civiltà ci offrono, tenendo ben presente, alla nostra indagine, che in tutte le civiltà esiste una divaricazione netta tra quanto affermato in sede teorica e quanto vissuto praticamente. Tale dicotomia tende ad accentuarsi col progredire delle civiltà e ha avuto una netta escalation a partire dal tradimento degli ideali del cristianesimo primitivo. Questo perché tutte le civiltà, nessuna esclusa, ha avuto bisogno, al suo nascere, di apparire più democratica rispetto al passato che stava per negare, proprio per poter vivere con legittimazione il contrario di quanto andava predicando, ne fosse o meno consapevole.

In sintesi. Uno storico dovrebbe preoccuparsi di verificare due cose, nel mentre cerca di capire i fatti, perché sarà su queste cose che si svolgerà il dibattito in classe tra il docente e i propri studenti:

1. quali condizionamenti spazio-temporali possono aver indotto un dato fenomeno a manifestarsi in una data maniera, ovvero quali alternative potevano esserci alla soluzione che storicamente, ad un certo punto, si scelse? Lo storico non deve chiedersi il “perché”, in ultima istanza, si preferì una soluzione piuttosto che un’altra (una risposta, in questo senso, non la troverà mai); deve limitarsi semplicemente a registrare il “come” ciò avvenne, aggiungendo, alla fine della spiegazione storica, l’ipotesi di un’alternativa che si sarebbe potuta seguire, naturalmente sempre sulla base dei fatti. Lo storico non deve “inventarsi” le alternative col senno del poi, ma deve saperle cogliere nel dibattito del tempo, quello pubblico, ufficiale, quello delle posizioni dialettiche che si fronteggiavano a viso aperto (che è poi quello stesso dibattito che, in seguito, la posizione risultata vincente spesso cerca di manipolare secondo i suoi propri interessi).

2. Quali differenze esistevano tra ideologia e prassi, in riferimento alle posizioni politiche contrapposte, che ad un certo punto, da paritetiche che erano, sono risultate una “egemonica” o maggioritaria e l’altra di “opposizione” o minoritaria? Lo storico cioè dovrebbe sempre chiedersi: a) la prassi era conforme all’ideologia? b) la prassi era accettabile nonostante l’ideologia? c) l’ideologia era accettabile nonostante la prassi? “Accettabile” naturalmente dal punto di vista democratico, umanistico…