L’odissea del Novecento nei manuali di storia
Sulla questione del Novecento, così tanto dibattuta negli anni passati, bisogna necessariamente spendere qualche parola.
Considerando che per uno studente di scuola media, in genere, la storia coincide con la sua propria storia, in forza di uno schiacciamento quasi assoluto sul presente, finì col diventare patetica l’introduzione berlingueriana del Novecento nell’ultimo anno delle scuole medie e superiori (decreto n. 682 del 1996). Non poteva certo essere questo il modo con cui invogliare lo studente ad affrontare con maggiore interesse e convinzione lo studio della storia in generale. Infatti la persistenza di un’impostazione storiografica di tipo lineare-cronologico ha vanificato ogni serio tentativo di riforma.
Se si vuole partire dal presente, occorre farlo non dall’astrazione delle date bensì dalla concretezza dei suoi problemi. E quelli fondamentali della nostra epoca sono causati da un sistema di vita sociale fortemente antagonistico, basato sui conflitti sociali.
Questo sistema ha avuto una genesi storica che oggi quasi tutti gli storici fanno risalire al XVI secolo, fatte salve le anticipazioni commerciali e finanziarie delle Fiandre e soprattutto dell’Italia, che istituì i primi Comuni borghesi agli albori del Mille.
I famosi “saggi” della commissione istituita da Berlinguer dovevano sapere che non si può sapere in che “epoca” si vive semplicemente focalizzando per un anno intero l’attenzione sul cosiddetto “secolo corto”, quello che pur nella propria brevità ha prodotto gli sconvolgimenti epocali più tragici di tutta la storia del genere umano.
A tale proposito Antonio Brusa osserva, con l’acume che solitamente lo caratterizza, che mentre noi adulti, avendo una visione unitaria del Novecento, sentiamo come “contemporanei” i temi delle guerre mondiali, della Costituzione, della nascita della Repubblica ecc.; viceversa, uno studente di scuola media e persino di scuola superiore “registra nella sua mente i suddetti temi allo stesso titolo del paleolitico superiore” (cfr Il nuovo curricolo di storia, in riferimento al Decreto Berlinguer).
Sotto questo aspetto, se si vuole affrontare il Novecento con gli stessi criteri con cui si affronta un qualunque altro periodo storico, si rischierà di fare un’operazione didattica e culturale del tutto inutile. Sarebbe quasi meglio abolire la storia come disciplina, sostituendola con una che tratti estesamente l’attualità, che sicuramente coinvolgerebbe di più gli studenti, nei cui confronti i media radiotelevisivi e cartacei non hanno certo preoccupazioni didattiche, cioè di mediazione dei contenuti di attualità a quel livello di problematizzazione che può avere una fascia d’età che va dai 12 ai 19 anni.
Nonostante che un affronto sistematico dell’attualità tornerebbe comodo a quanti non hanno intenzione di proseguire gli studi, purtroppo ancora oggi la scuola supplisce assai poco al fatto che l’informazione extrascolastica (mediatica) sui grandi temi dell’attualità non è tarata per un target non adulto. P.es. la lettura di un qualunque quotidiano nazionale rischia di essere proibitiva, per tutta una serie di ragioni tecniche e formali, anche per uno studente liceale.
Se diamo per assodato che ciò che maggiormente può interessare un giovane sono i problemi del suo tempo, declinati nelle linee essenziali, come solo un docente è in grado di fare, quale volume migliore di quello di educazione civica poteva soddisfare queste esigenze? Non a caso molti manuali di religione cattolica delle superiori rispecchiano in gran parte la medesima impostazione didattica di quei testi, diversificandosi ovviamente nell’interpretazione.
Ma allora – ci si può chiedere – davvero la storia non serve a nulla? In realtà è proprio dai testi di educazione civica che emerge il bisogno di fare “memoria” delle cose, di predisporsi a un’indagine di approfondimento. Ogni problema contemporaneo ha una propria radice storica, che nel nostro caso risale per l’appunto alla nascita di fenomeni ben determinati, come l’Umanesimo, il Rinascimento, la Riforma protestante, il sistema capitalistico, il colonialismo, la rivoluzione tecnico-scientifica, la rivoluzione francese, la nascita degli Stati e delle Nazioni, lo sviluppo della rappresentanza parlamentare, la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, la nascita della giurisprudenza civile, commerciale, penale e via dicendo.
La storia, come disciplina, serve non solo a capire l’origine remota dei fenomeni del presente, ma anche a individuare le possibili soluzioni generali ai loro problemi, senza per questo che il docente si debba addentrare in questioni troppo tecniche o di natura politica, che certamente non gli competono. Compito essenziale della scuola infatti deve essere quello di far capire il presente nelle sue linee di fondo, dando del passato un quadro sufficientemente chiaro e sintetico.
Il presente può essere meglio compreso se si vanno a ricercare nel passato le motivazioni storiche del suo esistere, ma questo non significa che il passato possa offrire le soluzioni ai nostri problemi. La libertà dell’uomo deve giocarsi nelle contraddizioni del presente e la scuola può soltanto educare alla “cittadinanza” come forma responsabile dell’agire. La storia dunque andrebbe fatta a partire dal presente, che è l’unica realtà veramente esistente, volgendo il proprio sguardo al passato per cercare insegnamenti o ispirazioni.
Purtroppo nella scuola la storia viene spesso studiata come una cosa che appartiene unicamente al passato: noi rendiamo morto un tempo vivo come il presente e ci meravigliamo che lo studente non consideri vivo un tempo morto come il passato.
La stessa scuola appare più viva quando fa “progetti” col territorio che non quando si caratterizza come “lezione frontale”, la quale lezione infatti si autoregolamenta per far studiare non tanto sui “problemi” quanto semplicemente sul “manuale”, che contiene già le risposte a tutte le domande. Lo studio sui libri è aprioristico par exellance, per cui non può mai essere una conseguenza dei problemi che si devono affrontare. Si studia non su eventi in movimento, ma su eventi statici, predefiniti, il cui significato è un già dato, un elemento acquisito che va solo memorizzato, a meno che un docente non preferisca la “lezione laboratoriale”, in cui si parte da una semplice domanda, destinata a complicarsi strada facendo, e finché non s’è trovata una risposta sufficientemente adeguata, utilizzando la strumentazione più varia, non si va avanti, proprio perché al centro dell’attività didattica vi è solo una parola: la ricerca.
A scuola bisogna imparare l’evoluzione dinamica dell’acquisito, che non può essere dato per scontato, meno che mai per la mente di un alunno in via di formazione, che ha bisogno di costruirsi le coordinate spazio-tempo del proprio presente. “Dinamica” perché la suddetta evoluzione non può essere una semplice catena di fatti legati in maniera necessaria, come se ad ogni causa potesse corrispondere soltanto un determinato effetto. Scrive, a questo proposito, Mario Pinotti: “dalle conoscenze già organizzate [si dovrebbe passare] al cammino che le informazioni devono percorrere prima di venir dotate di senso. Il racconto storico cede il passo ai criteri storiografici da cui scaturisce la narrazione” (in Il laboratorio e la sua polisemia, art. trovato nel sito www.israt.it).
Affrontare i fatti come se essi non fossero il frutto di scelte difficili, compiute di fronte a determinati problemi, non serve a nulla. Lo studente non riesce ad apprendere la necessità di operare delle scelte decisive, strategiche, per loro natura rischiose, spesso sofferte e sempre tipiche della libertà umana.
Quando noi docenti diciamo che lo studio del passato ha senso solo nella misura in cui può servire a far vivere meglio il presente, non abbiamo intenzione di formulare una sorta di “espressione statica”, dando cioè per scontato che l’attuale configurazione del mondo contemporaneo sia un “dato di fatto”. Ogni presente ha in sé delle contraddizioni che vanno risolte in maniera progressiva. Il passato va studiato nella misura in cui aiuta a comprendere e risolvere queste contraddizioni. Studiare il passato in maniera evolutiva, come una successione temporale di fatti che si cerca di tenere insieme secondo uno schema di causa ed effetto, semplificato al massimo, non aiuta a migliorare le cose, a far sentire “protagonisti” i nostri allievi. Anche perché in tal modo si dà per scontato che il senso ultimo del passato risieda nel presente, in forza del fatto che il presente è visibile, contemporaneo all’uomo, in grado di guardare dall’alto ciò che lo ha preceduto.
Il significato del passato non sta nel presente, altrimenti si sarebbe costretti a ipotecare il futuro. Il presente deve limitarsi a cercare nel passato quelle indicazioni che possono aiutare l’uomo a vivere meglio il suo tempo. Avere un passato significa avere un aiuto in più, sempre che questo passato non venga vissuto come un potere vincolante, come una sorta di forca caudina per il presente. L’uomo deve essere libero di fare le sue scelte: il passato ha senso se lo aiuta in questo compito.
Può avere un senso una “storia cronologica” non tanto quando, seguendo una sequenza lineare del tempo, si è convinti che il nostro presente, appunto perché a noi contemporaneo, sia capace di includere nel proprio scibile il meglio di tutte le epoche precedenti; ma semplicemente quando i problemi del presente interpellano il passato, al fine di individuare i momenti salienti in cui sono avvenute delle svolte storiche, delle transizioni decisive verso soluzioni inedite.
Studiare il passato ha senso quando serve per capire il presente; se questo non è vero, è meglio studiare solo il presente, come generalmente fa la politica, che spesso però è priva di cultura. Lo studio della storia è lo studio delle origini culturali del nostro tempo presente: le coordinate della politica, dell’economia, dell’organizzazione sociale, amministrativa, di un paese sono sempre di tipo culturale, e riguardano decisioni esistenziali, scelte valoriali, in cui indubbiamente anche gli aspetti religiosi hanno giocato e a volte giocano ancora un ruolo rilevante.