Il mestiere dello storico

Uno storico non è un teorico. Uno storico vuole raccontare i fatti. Li racconta collegandoli tra loro secondo un’ideologia basata sui rapporti di forza. Ciò è inevitabile, in quanto le vicende che racconta sono tutte conflittuali.

Lo storico legge prevalentemente delle fonti scritte, che gli raccontano episodi prevalentemente violenti. Se non c’è violenza non c’è storia, ma cronaca, agiografia, letteratura… Lo storico non avverte il bisogno di farsi una cultura troppo astratta, troppo teoretica. Gli basta – o crede che gli basti – quel tanto per interpretare dei fatti nudi e crudi.

È per questo motivo che ritengo i manuali di storia uno strumento antipedagogico. Secondo me uno storico dovrebbe cercare di motivare lo svolgimento dei fatti anche sulla base di idee culturali (valoriali) e non soltanto sulla base di interessi di parte, economici e politici; cioè uno storico dovrebbe già avere una posizione critica nei confronti di questi interessi, in modo che quando li incontra nella sua indagine non dà per scontato il loro svolgimento. Lo storico non dovrebbe essere come un commissario di polizia che quando s’imbatte in un omicidio comincia subito a ipotizzare i soliti moventi che la società in cui vive gli mette a disposizione: soldi, sesso, potere ecc. Lo storico dovrebbe andare al di là dei fatti, dovrebbe potersi immedesimare nella cultura in cui essi trovano la loro ragion d’essere.

La storia non è solo un intersecarsi di interessi opposti, materiali o di potere politico. Vi è anche lo sviluppo delle idee, dei valori, della cultura, che non necessariamente trova riscontro diretto in specifiche fonti. Infatti non sempre gli uomini si rendono conto che l’accettazione o l’abbandono di determinate prassi o consuetudini è in qualche modo legato all’accettazione o all’abbandono di determinati valori.

I valori sono spirituali, invisibili, impercettibili alla penna di un redattore di fonti, che può anche viverli o, al contrario, smettere di viverli in maniera inconscia, irriflessa, istintiva; meno che mai il redattore riesce, in piena consapevolezza, a collegare “logicamente”, in forma sillogistica, il sorgere o il venir meno di un dato fenomeno al sorgere o venir meno di un dato valore culturale o umano.

Anche quando le fonti hanno la pretesa di far dipendere rigorosamente determinati fatti da determinate idee, bisogna sempre che lo storico agisca con molta circospezione, poiché spesso proprio in questa stretta coincidenza di teoria e prassi si celano le falsificazioni più bieche. Tra fatti e idee esiste sempre un rapporto ambiguo, di reciproca interazione, in cui non a caso la libertà si muove su binari opposti.

Questo significa che nell’interpretazione dei fatti uno storico non dovrebbe avere la pretesa di comportarsi come un ricercatore appartenente alle discipline scientifiche. Non è importante l’esattezza con cui si raccontano i fatti, che è sempre molto relativa, ma la capacità di argomentare ipotesi interpretative con cui cercare di collegare gli eventi più significativi.

Leggendo i vangeli si fa fatica a credere che i redattori fossero degli storici, e tuttavia il loro modo di raccontare le cose – a prescindere dal carattere leggendario di molti episodi – ha convinto milioni di persone, modificandone, a volte anche radicalmente, lo stile di vita.

Questo per dire che un redattore di fonti può essere geniale nel modo di presentare le cose, ma se non incontra consensi effettivi, pratici, il suo genio non vale nulla. Ecco perché quando si raccontano le cose non è tanto importante dire tutta la verità (nessuno è in grado di farlo, e chiedere a un testimone processuale di giurare sopra la Bibbia, sperando che dica effettivamente “tutta” la verità, è semplicemente ridicolo), quanto piuttosto è importante aiutare chi ascolta (o chi legge) a immedesimarsi nei fatti narrati, come fece magistralmente il Manzoni col suo capolavoro.

Quanto più l’immedesimazione empatica è forte, tanto più lo scopo del testo (della fonte storica) è riuscito. Il testo non ha creato soltanto curiosità o interesse intellettuale, ma anche partecipazione emotiva, che può anche diventare corale, se il testo è espressione di un sentire comune (come p.es. avvenne col Libretto Rosso di Mao al tempo della rivoluzione culturale).

Questo a prescindere dal fatto che i contenuti trasmessi dalla fonte siano umani o disumani, veri o illusori, verosimili o falsificati. Non esiste un criterio oggettivo che possa stabilire a priori la differenza tra il vero e il falso. L’interpretazione è sempre un faticoso processo a posteriori, che non può riguardare, in maniera unilaterale, il solo storico, ma anche lo studente che legge una fonte e su cui deve esercitare il proprio raziocinio, lasciandosi stimolare da una batteria di domande-guida. Spesso questo atteggiamento supponente degli storici lo si nota anche nel mondo della politica e del giornalismo: ognuno è sempre convinto di avere la verità in tasca.