I limiti strutturali dell’insegnamento
Proviamo a mescolare la “specificità” del soggetto in via di formazione (che non è certo un “vaso da riempire”), la “diversificazione degli stili cognitivi” (che inevitabilmente vanno messi in rapporto all’età degli alunni, al loro background socio-culturale di provenienza, alla loro capacità intellettuale di rielaborare personalmente i contenuti) e i “nuclei fondanti della disciplina” (cosa che implica inevitabilmente una riduzione quantitativa dei contenuti a vantaggio di una focalizzazione degli avvenimenti storici più rilevanti o comunque di una sintetica riformulazione concettuale di interi periodi storici, che prescinda in toto dalla descrizione dei singoli avvenimenti), e avremo ottenuto gli argomenti ineludibili che ci costringono oggi ad attrezzarci a livello di psicologia cognitiva e comunicativa, di psicopedagogia, di strategia dell’apprendimento ecc.: tutte cose che un docente non apprende certo all’Università ma solo dopo un lungo tirocinio svolto in aula, in maniera del tutto autonoma, col criterio molto empirico detto “prove ed errori”, senza cioè il supporto di una documentazione ad hoc, di frequenti aggiornamenti seminariali, di presenze tutoriali in grado di valutare un percorso didattico, di gruppi di lavoro periodici in cui confrontare il proprio vissuto scolastico.
A dir il vero qualcosa negli ultimi anni (a Bologna a partire dall’anno accademico 1999-2000) è cambiato, visto che dopo aver acquisito il diploma di laurea, l’unico modo per ottenere l’abilitazione all’insegnamento è di frequentare e superare l’esame di stato presso una SSIS (Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario). Ma oggi la Gelmini ha bocciato anche la SSIS, per cui siamo punto e a capo.
Dalla fine degli anni ’70 il Ministero della P.I. ha stipulato col proprio corpo docente un patto non scritto, che rispecchia, se vogliamo, una sfiducia di fondo nelle capacità formative della scuola statale nazionale: “È vero che vi do uno stipendio molto basso, ma in cambio non vi chiedo nulla”. A questo patto, negli ultimissimi anni, se ne è aggiunto un altro, ancora più desolante, frutto di tentativi abortiti di riforma generale della scuola: “Qualunque cosa ti chiedo di fare, considerala soltanto in via teorica”, che tradotta in italiano vuol dire: “Aiutami a salvare le apparenze di fronte a chi, nell’ambito dei paesi avanzati, considera il nostro sistema scolastico molto scadente”.
La scuola da tempo resta inghiottita in quel girone infernale chiamato “assistenzialismo”, in cui più del 90% del bilancio ministeriale è riservato ai magrissimi stipendi del personale docente e impiegatizio, in cui inoltre si cerca di ritardare il più possibile l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, in cui infine si offre loro una preparazione così approssimativa che la vera formazione, quella spendibile sul mercato, viene praticamente impartita, a pagamento, solo dopo essere usciti dalla scuola.
E poi ci si chiede che dobbiamo puntare sul merito, sul ripristino di un profitto chiaro e distinto, sulla selezione naturale dei più capaci…