Una doverosa premessa: sono una fan di Beck, da sempre, e questo vuol dire che tendo ad essere assai poco obiettiva e a puntare inevitabilmente verso l’entusiasmo piuttosto che la delusione ogni qual volta si rifà vivo su disco. Ma per l’ultimo “Modern guilt” non devo scomodare qualsivoglia cieca ( e sorda) benevolenza: checché ne dicano gli immancabili detrattori, quelli che pretendono infinite innovazioni e strabilianti colpi di scena, è un vero piacere godersi queste nuove dieci canzoni. Beck ha quasi 40 anni, la metà spesi a far musica. Gli esordi sono stati fulminanti: perché chiedergli di fare solo e ancora capolavori? Potremmo chiedergli viceversa di andare in pensione se ci regalasse delle ciofeche, ma così non è. Non ancora. E allora ben venga “Modern guilt” a farci da colonna sonora dell’estate e oltre…con la sua proverbiale, inalterata capacità di dare un’aria di spigliata naturalezza, di sfrontata facilità anche al sound più complesso. Ovvero svogliatezza + genialità.
L’album si apre con “Orphans”, rock ridotto all’osso come ben sottolinea il video in bianco e nero, il classico trio chitarra+basso+batteria su uno sfondo tutto bianco. Anche la seguente “Gamma ray” ci riporta ad un basic pop anni Sessanta timbrato però inconfondibilmente Beck: bastan poche note e si riconosce contenti il marchio di fabbrica. Un’impronta che non puzza di ripetizione stantia, ma anzi mi dà un senso di appartenenza, di complicità. Giocato sul contrasto tra colori e bianco e nero, optical e total white il video, intrigante e autocelebrativo come sempre. “Chemtrails” ripesca dai 60 e 70 un pizzico di psichedelica e una batteria che butta sul progressive. La title track è quella che risente di più della produzione affidata da Beck a Danger Mouse, la metà dei Gnarls Barkley (il suo socio è il rapper Cee-Lo): nel testo confessa di non sapere che ha fatto di male, di che sentirsi colpevole, ma prova ugualmente vergogna e paura. Con Mouse Beck divide gran parte della strumentazione (il primo si occupa di beats, tastiere, sintetizzatori, il secondo spazia come sempre tra chitarre, percussioni, flauto, pianoforte, e basso) lasciando a pochi comprimari le briciole. Con “Youthless” il riff della chitarra si fa più serrato, nervoso, le voci si rincorrono, le tastiere anche, e poi la canzone, come quasi tutte le altre del disco, si tronca di netto. Cambio ancora di binario in “Walls”, archi tirati per le lunghe, cori femminili e batteria che rimbomba. Nei credits leggiamo che contiene un campionamento da “Amour, vacances et baroque”: su questo pezzo strumentale di Paul Piot & Paul Guiot scorre pari pari (voce femminile compresa) tutta la strofa. Nella seguente “Replica” (la mia preferita) il ritmo è ipersincopato, irripetibile, mentre il cantato e i cori volano oltre. E chissà perché alla fine mi vengono in mente i Weather Report. “Soul of a man” , forse la canzone più debole del disco, ci riporta al rock semplice ma efficace delle prime del cd. Ma è solo una pausa per riprendere fiato: arriva il pop ballabile di “Profanity prayers” e poi si chiude con una ballata, “Volcano”. Il testo parla di mal di vivere, ma per fortuna Beck si salva con la sua solita ironia: se quella ragazza giapponese si era buttata nel vulcano per cercare le sue radici, un senso alla sua esistenza, lui vuole solo scaldarsi un po’ le ossa…
Voto? da brava fan son troppo di parte, non riesco a scendere sotto l’8.